Il ritorno del “Bella Ciao”

di Alessio Lega (*)

Il riallestimento, il nuovo disco e la tournée (dal 22 aprile a Verbania Pallanza, Bellinzona, Montesole, Padova e Firenze) di uno spettacolo mitico

NuovoBellaCiao

C’è una qualità negli applausi, una caratteristica, un valore, un timbro. Qualcosa che si impara a riconoscere a furia di frequentare il palco. Ci sono applausi entusiastici e ce ne sono di tiepidi, ce ne sono di scontati e ce ne sono di spontanei, ci sono applausi che esplodono collettivi e del tutto inaspettati, che sorprendono anche chi è in scena. È però raro che una serie di applausi sottolineino, lungo tutto uno spettacolo, la percezione di qualcosa di “necessario”, l’impressione che si sia messo a fuoco esattamente ciò che era nell’aria, ciò che era atteso.

Questa è stata l’impressione che mi ha colto durante la prima del riallestimento del «Bella ciao» cinquant’anni dopo il suo rocambolesco debutto.

Il “Bella Ciao”, Spoleto, il canto popolare

Ne abbiamo parlato tante volte anche su queste pagine: la prima grande stagione di ricerca di canti popolari in Italia (1954-1964) culminò in uno spettacolo teatrale firmato da Roberto Leydi e Filippo Crivelli con le didascalie scritte da Franco Fortini, che fu un evento nella musica, nel teatro e più in generale nella cultura italiana. Lo spettacolo “Bella ciao” è considerato l’atto fondativo stesso della scoperta e della riproposizione della musica popolare italiana.
Presentato nel giugno del 1964 al Festival dei Due Mondi di Spoleto, fu subito al centro di furiose polemiche, collezionando denunce e processi.
Il “
Bella ciao” fu un prodotto culturale del centrosinistra, impensabile già solo pochi anni prima, al tempo del governo Tambroni e delle repressioni di Scelba, ma la canzone popolare e le strategie di riproposizione e di studio messe in atto da Gianni Bosio, Roberto Leydi e dai ricercatori operanti attorno al Nuovo Canzoniere Italiano e all’Istituto Ernesto de Martino, generarono un patrimonio progressivo e inclassificabile che superò l’incomunicabilità di classi e generazioni diverse, dialogando col nascente movimento studentesco e finendo per rappresentare il dizionario sentimental-politico dell’ondata libertaria sessantottina.

Oggi quelle canzoni sono ancora percepite come la colonna sonora degli anni della contestazione.

Si definì in quei giorni un modo del tutto nuovo di fare politica con le canzoni, di raccontare la storia dal punto di vista delle classi subalterne. Si scoprì in un colpo che i dialetti non erano un fatto residuale di folklore, ma una miniera di cultura, che il teatro musicale – all’epoca non esisteva il concerto Pop – non era appannaggio della lirica e di chi aveva frequentato il Conservatorio. La profonda bellezza dei canti rinvenuti negli anni che precedettero lo spettacolo, ma più ancora l’assoluta novità dei loro moduli musicali poetici ed esecutivi, mise il popolo italiano di fronte alle proprie radici contadine, alla propria cultura orale. Il “Bella ciao” fece epoca, e la sua versione discografica – che, si badi bene, è solo una selezione registrata in studio, non una ripresa live dell’originale – sempre ristampata, non può mancare in nessuna collezione essenziale di musica popolare al mondo.

BellaCiao-disco

Un difficile riallestimento

È difficile toccare un monumento. È necessario essere al contempo fedeli e innovativi, risolvere l’apparente inconciliabilità di queste due esigenze.

Di decennale in decennale (1994, 2004, 2014) il fantasma del riallestimento del “Bella ciao” faceva capolino e poi naufragava fra cast giganteschi e ingestibili, veti reciproci, interminabili discussioni su come ridefinire quella scaletta “un po’ troppo limitata a tre quattro regioni del centro/nord”. Al terzo tentativo un piccolo gruppo di operatori culturali, coagulatosi attorno alla Camera del Lavoro di Milano (storicamente vicina al Nuovo Canzoniere) e guidato dal musicologo Franco Fabbri, è riuscito a coinvolgere un altrettanto piccolo gruppo di esecutori che ha rimesso in scena il progetto facendo rivivere il “Bella ciao” con il successo cui accennavo. Sono troppo coinvolto in questa storia – sia sul lato organizzativo che esecutivo – per azzardarmi a fare tutti i nomi di quelli che andrebbero ringraziati e descrivere i passaggi, che sono stati tortuosi e faticosissimi, dico solo che è stata l’occasione di lavorare con persone straordinarie e con artisti per i quali nutro qualcosa di più che la stima.

Bella Ciao” uno spettacolo di voci

Già nel quinto numero della rivista «Il Nuovo Canzoniere» del febbraio 1965 – dunque ancora “a caldo” – Michele L. Straniero, nel raccontare dal suo punto di vista “Bella Ciao”, citava questo giudizio «L’idea che mi ha colpito è stata quella di non affidare ad alcuno dei cantanti parti di protagonista. Il senso di coralità ha rafforzato i significati delle parole. Una voce tuttavia è emersa sopra le altre, perché così vera nella sua essenza: quella dell’ex-mondina Giovanna Daffini, l’unica cantastorie della compagnia, insieme ai tre di Piadena» (e per cantastorie evidentemente si intende vera cantante popolare, non interprete proveniente da altre classi sociali e intellettuali).

Quelle voci: la verità lancinante e vitalissima della ex-mondina Giovanna Daffini, la convinzione della voce di Bruno Fontanella, la ricchezza sensuale della voce di Caterina Bueno, il tono gagliardo della voce di Giovanna Marini – il suo genio musicale muoveva i primi passi proprio in quello spettacolo, presentando alcune sue composizioni fatte passare per canti tradizionali – la dotta voce esercitata nei canti liturgici di Michele L. Straniero, il tono sprezzante da narratore urbano di Ivan Della Mea, la nobiltà di Sandra Mantovani, e poi Amedeo Merli, Delio Chittò, Cati Mattea, Silvia Malaguggini, Hana Roth, ecc. Quelle voci non esistono più: la maggior parte di loro ci ha lasciato da tanto o da poco. Chi, come Giovanna Marini o Bruno Fontanella, è in splendida forma e in continua attività, lo è anche perché ha fatto tesoro ed è cresciuto, cambiando in meglio.«Tutto il mio lavoro viene da Bella ciao, e non potete oggi chiedermi di ricantare come allora…» ci ha detto Giovanna «quando oggi faccio le mie nuove canzoni, sto ancora facendo “Bella ciao”» e poi ha aggiunto con grande commozione «fatelo voi, che non lo avete fatto allora… a me parrebbe di stare sul palco circondata da amici morti». Gigantesca Giovanna!

Quelle voci non ci sono più e non si potevano cercare scorciatoie o mediazioni, richiamando in servizio permanente effettivo i vivi e sostituendo gli insostituibili. A cantare quelle canzoni doveva essere la nuova variegata generazione dei musicisti che operano da trenta, venti, dieci anni sul repertorio popolare, che lo amano e lo conoscono, che sono più o meno consapevolmente i figli (o i nipoti) del “Bella ciao”, ma che lavorano con la musica popolare per quello che oggi vuole dire. Sotto la direzione musicale di Riccardo Tesi, le voci di Ginevra Di Marco, Lucilla Galeazzi, Elena Ledda, la mia voce, la chitarra di Andrea Salvadori e le percussioni di Gigi Biolcati.

La grande forza dello spettacolo originale sta nella scaletta dei brani, e almeno quella scaletta questo riallestimento ha provato a riproporla con rigore filologico, ma ci si è trovati di fronte a parecchie scalette molto diverse fra loro: la scaletta di Spoleto contenuta nel programma di sala, la scaletta del disco, quella infine dei nastri registrati dal vivo dello spettacolo rappresentato a Milano nel maggio del 1965, che giacciono inediti nel Fondo Leydi di Bellinzona. Abbiamo avuto il privilegio di consultare questa fonte preziosa. I nastri di Bellinzona ci restituiscono un “Bella ciao” molto diverso da quello del vinile dei Dischi del Sole, che sin dalla copertina appare di un rigore severo. In questi nastri dal vivo emerge uno spettacolo libero, pieno di luce, nel quale i cantanti si stanno divertendo, al di là della sconsolata cupezza di alcuni canti. Più di una concessione è dovuta al comprensibilissimo bisogno di variare lo spettacolo, di rispettare i tempi di attenzione del pubblico. “Bella ciao” non era uno spettacolo immobile e immutabile, una tetra antologia definita a priori, bensì un laboratorio mutevole che ruotava attorno a dei cardini fissi.

L’innovazione principale di questo riallestimento è nel trattamento musicale affidato a un ensemble diretto e concertato da Riccardo Tesi, uno dei più brillanti e attenti protagonisti della musica popolare mondiale. Non più dunque l’accompagnamento della sola chitarra, ma un lavoro di composizione che instaura un dialogo fra suoni e significati, per una sinfonia popolare, una sinfonia comunque scarna (tre soli gli strumenti: chitarra, percussioni, organetto) e un trionfo di stupende voci femminili – per tacere della mia – allenate a rivivere tanto i canti delle mondine della pianura padana, quanto quelli delle filandere, degli incarcerati, dei reietti, dei ribelli e dei migranti.

Mercoledì 11 giugno 2014 – a cinquant’anni dal debutto di Spoleto – lo spettacolo, anzi il “programma di canzoni popolari italiane” è tornato in scena di fronte all’entusiasmo commovente di un pubblico variegato per età e composizione sociale. Riproposto nell’anno del cinquantennale in due sole repliche di incredibile successo di pubblico, è tornato in lavorazione per il 2015.
Mentre scrivo queste righe stiamo registrando il disco di questo “
Nuovo Bella Ciao” che uscirà a metà aprile e lo spettacolo andrà poi in tournée per presentarlo, queste le prime date:

22 aprile Verbania Pallanza
23 aprile Bellinzona (Svizzera)
26 aprile Montesole (Bo)
27 aprile Padova
28 aprile Firenze.

Oggi queste canzoni di lavoro e di lotta, inserite nella sinfonia popolare del “Bella ciao”, sono più necessarie che nel 1964: è necessario che vengano cantate, che quelle parole che esprimono condizioni di vita non troppo dissimili dalle nostre – precari come le mondine, sfruttati come le filandere, con i migranti che dopo 30 giorni di nave a vapore approdano al largo di Lampedusa, quando non fanno naufragio come sulla nave Sirio – trovino nuovi suoni e nuove interpretazioni. E questo, mentre andiamo in scena per ogni replica del nuovo “Bella ciao”, lo sappiamo noi e lo sente il pubblico.

(*) Ringrazio la redazione di «A rivista anarchica» per avermi consentito di riprendere questo testo dal numero 397 di aprile 2015. In questo numero (130 pagine per 4 euri) un doppio dossier: «No expo» e «Primo maggio» e molto altro; a esempio la «dittatura del volontariato», Sahrawi, tanti libri e molta arte, No Muos, un ricordo di Roy Bhaskar scritto da David Graeber… Come ho già scritto in codesta “bottega” nel desolante panorama italiano di “zero circa notizie e doppio zero idee” fra le poche cose leggibili resiste «A»: botte vecchia fa ottimo vino. Suggerisco a chi passa di qui di abbonarsi: per 9 numeri all’anno si pagano 40 euri. Sarebbe bello se per festeggiare il numero 400 di «A» blog, newsletter e simili si unissero – per un simbolico mese – nel dichiarare che «nostra patria è il mondo intero, nostra legge è la libertà… ed è per questo che sosteniamo A». (db)

 

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