IL SANTO GRAAL di Julio Monteiro Martins

care e cari che occhieggiate questo blog, oggi ho il piacere di ospitare Julio: forse nel racconto troverete qualche esotismo (portoghesismo?) ma… fatevi travolgere dal ritmo non dalla pignoleria stile Crusca. Domani vi parlerò nientepopòdimenoche san Valentino: per la serie ” strano ma vero”.  Ciao, db

Marcello e Diogo, i bambini, dormivano nel sedile posteriore dell’automobile mentre risalivamo la difficile e nebbiosa strada di montagna. L’auto andava adagio, indovinando le curve con i fari bassi. Il freddo diventava più pungente man mano che avanzavamo e, sepolti sotto quattro o cinque trapunte, i bambini lasciavano intravedere solo le loro placide fisionomie dalle labbra in su, le lunghe ciglia fra il naso e i capelli scomposti.

Seduto di fianco al conducente, io fumavo una sigaretta dopo l’altra. Se avessi potuto controllare il vizio e la tensione avrei evitato di accenderle, avrei evitato il fastidio di dover scegliere fra un’auto chiusa e piena di fumo e una fessura nel deflettore che fa diminuire il fumo ma fa passare una lamina di freddo secco.

Helena faceva finta di non essere infastidita dalle mie sigarette e dal mio silenzio. Fumare e pensare, a volte, fanno parte di uno stesso e muto atto, dalle possibilità imprevedibili. Lei non si sarebbe assunta il rischio di fare domande, preferendo aspettare che, una volta nella casa di montagna, prendessi io l’iniziativa di presentare il mio più recente bilancio emozionale. Conduceva la vettura completamente assorta nella funzione, simulando più attenzione del necessario e dando a credere di non conoscere una strada che sicuramente aveva già percorso centinaia di volte negli ultimi anni.

La differenza di età fra me e Marcello, il figlio maggiore di Helena, era di poco più di dieci anni. Da quando ci siamo conosciuti, in una di quelle inebrianti feste della Zona Sud, abbiamo continuato a ripeterci che questo fatto, o qualsiasi implicazione della nostra differenza d’età, non aveva la minima importanza e non era il caso di tenerne conto, mai. Per la verità, il nostro breve quotidiano a Rio, prima di quel fine settimana in montagna, contraddiceva questa nostra presunzione. Nelle piccole cose, nei tic, nelle fantasticherie, nel chiacchierare, nella carenza di informazioni sedimentate e nell’eccesso di cultura televisiva inutile, nel modo brusco di usare il corpo e nell’impulso incontrollabile di chiedere tutto di tutto, io avevo con Marcello molta più intesa e vivere comune che con Helena, la donna che disastrosamente di me si era innamorata.

Mentre lei si era preoccupata di riempire la valigia di coperte e provviste, noi, i bambini, avevamo scelto i giochi da portare, il puzzle, gli scacchi, e pensavamo come sistemare nell’automobile la grande asse del calcio da tavolo. Solo alla fine dei preparativi ci siamo messi, noi tre, ad aiutare a sistemare nel portabagagli delle confezioni di latte e di cibo. Helena, in certo senso, aveva fatto la maggior parte del lavoro.

Se da un verso io non potevo controllare i miei impulsi infantili, dall’altro mi era possibile dialogare con la donna con un certo equilibrio maturo quando la situazione richiedeva più che compagnia, l’uomo. Una certa consuetudine all’autocritica, qualche lettura e il ragionamento rapido aiutavano a colmare per qualche ora la distanza immensa fra le nostre generazioni. Comunque, ciò che più aiutava a livellarci, e che a volte ci offriva persino dei piccoli vantaggi, era il fatto che Helena si trovasse in un momento di grande carenza e fragilità emotiva; e io, curioso e protettivo, mi esimevo dall’essere zelante e dal coltivare con tenacia la nostra relazione. Una vera strategia di forze tra sottosviluppati, ognuno a modo suo, evitando allo stesso tempo le invasioni e il disarmo.

Helena parcheggiò l’auto fra la piscina e la casa, e andò mettendo i pacchi sul terrazzo mentre io portavo a letto, in braccio, Diogo e dopo Marcello, avvolti come stavano e cercavo i cuscini nell’armadio. Il fine settimana dei bambini sarebbe cominciato solo la mattina seguente. Il piccolo neppure si svegliò, e Marcello chiese solo un bicchiere d’acqua e di spegnere la luce. La vacanza di Helena avrebbe dovuto incominciare quella notte stessa e per ciò lei contava sulla mia veglia e cooperazione.

Helena era bella nei suoi quasi quarant’anni. Le sue movenze erano sensuali, ma a dispetto di ciò le sue mani tremavano. E fra tante stranezze mescolate insieme, il suo sorriso era allo stesso tempo infantile e amaro, e le parole affettuose uscivano con lo schizzo insicuro dell’adolescenza mal risolta, mischiata a una raucedine lasciva, quasi oscena. Come certa frutta, tenuta per qualche tempo nella dispensa, e i suoi due lati, quello bello e quello ammuffito. Frutta che stretta da tante dita successive nei giorni di festa, finisce ammaccata, ma non inservibile; cambia aspetto e mantiene il sapore che a volte, da tanto è dolce, nausea. Ma il fatto è che l’essere umano, al contrario della frutta, non può essere tagliato a metà e diviso in spicchi. Non si può scegliere un pezzo. Bisogna consumarlo, divorarlo o rifiutarlo per intero.

E di tutti i fatti, il più angosciante era che io non volevo Helena per il sesso. E lei ormai lo sospettava. Nei momenti più propizi, io mi affrettavo a immaginare una domanda che esigesse da lei un ragionamento più elaborato, creavo espressioni che sbalordissero o raccontavo i particolari di un’interminabile relazione passata, esagerandone gli aspetti comici o tragici nei limiti della mia fantasia. Tutto per rimandare, finché fosse arrivato il sonno per esaurimento –  o magari essere stati provvidenzialmente interrotti –  una possibile intimità fisica o, nella peggiore delle ipotesi, genitale. Perciò forzavo una falsa intimità psicologica, un bizantinismo intellettuale, che facevano di me quasi un personaggio patetico di me stesso.

Ma non sempre c’era modo di evitare l’inevitabile e, quando i suoi desideri l’avevano vinta sulla debolezza dei miei argomenti, arrivavo al detto “vie di fatto”. Rassegnato, azionavo in modo tecnico il mio meccanismo di erezione e penetravo in quel corpo che saltava e gemeva fra le mie braccia, e mai compresi bene, non solo lei, ma il fatto che lei non avesse mai sollecitato in me un solo attimo di desiderio, io che mi ritengo istinto puro nel mio stato naturale e che in altri tempi avevo desiderato ardentemente con gli occhi quel volto che ora smaniava nel godimento e mi graffiava la schiena, provocandomi subito indifferenza, e pertanto un certo fastidio, una voglia improvvisa di accendere un’altra sigaretta mentre lei cercava nei miei strumenti un orgasmo in più. Quando arrivammo a parlarne francamente, tempo dopo, lei mi dichiarò che, non essendo il mio un caso di impotenza, era il primo caso di “involontà” di cui mai avevo sentito parlare. Pensai fra me che questi casi non devono essere poi tanto rari…

Di conseguenza la prima nostra notte nella casa di montagna passò in lunghe conversazioni sulla politica brasiliana e sull’analisi di opere d’arte. Eravamo bravi in questo. Ci sedemmo su due grandi poltrone di cuoio, avvolti in coperte di lana, e arrivammo ad aprire e a scolare tre bottiglie di vino rosso. Il freddo lo giustificava. In fondo sapevamo che cercavamo deliberatamente di ubriacarci, cosa che ci avrebbe fatti precipitare in un sonno profondo in un imprevisto momento qualsiasi della notte fonda, e avremmo aggirato ciò che, per Helena, avrebbe dovuto seguire in linea retta. Eravamo pertanto coscienti dell’opportunità di non toccare argomenti personali, avrebbero rivelato frustrazioni, angosce, avrebbero aggiunto tonnellate all’atmosfera e forse generato un primo e vero attrito. Non era stato con questo proposito che Helena aveva combinato quel fine settimana lontano dalla città, ma con un’intenzione diversa: voleva provare con le energie della campagna e della foresta e puntare sugli effetti dell’ambiente per la liberazione epidermica di quello che ancora credeva essere il mio istinto bloccato, i miei desideri censurati da sovversive infiltrazioni edipiche. Constatammo, settimane dopo, che non c’era  né c’era mai stato nel mio spirito nessun tipo di istinto, desiderio, blocco o infiltrazione, ma solo, chissà, l’antica mitizzazione della femmina bramata che si era esaurita ai  primi contatti fra peli e pelle.

Helena cadde in un sonno etilico prima di me, e ancora contemplai con affetto il suo volto che dormiva rigido, contrariato, conservando proprio nel sonno un’espressione di paziente insoddisfazione. Amai quell’immagine con le retine e ruminai le mie colpe mentre fumavo l’ultima sigaretta.

Non mi ricordo se ci trasferimmo nella stanza da letto, quella notte, ma il fatto è che mi svegliai intorno a mezzogiorno con un bacio di Helena sul volto e una tazza di caffè caldo. Dietro veniva il piccolo Diogo con quella faccia da birbante che i bambini intelligenti fanno nei rari momenti in cui non hanno bisogno di nascondere una birichinata.

Diogo saltò sopra di me, sul letto, come se si tuffasse nella gelida piscina di fuori. Disse che ero il cattivo Gigante Brucutu e che mi avrebbe dato una bastonata perché imparassi a smetterla di essere cattivo. Lo immobilizzai facilmente, mentre Marcello, venuto in suo aiuto, mi tirava per i capelli e mi faceva solletico. Attraverso la finestra vidi che cadeva una pioggia sottile e poco invitante perché abbandonassimo il nostro rifugio. Eravamo tutti confinati fra quattro pareti e avevamo bisogno di smaltire le nostre energie fisiche con qualche esercizio. Soprattutto i bambini che avevano accumulato energia in dosi maggiori. Anch’io ne avevo bisogno, per ragioni mie, e la briga simulata dei mini supereroi contro il Gigante Brucutu in pigiama di flanella serviva perfettamente. Erano quattro braccia e quattro gambe, che mi soffocavano, torcevano e ritorcevano, facevano del mio corpo un grande nodo finché, quando i due credevano di avermi dominato, io mi liberavo con un gesto di forza calcolata, e li immobilizzavo tutti e due finché si arrendevano. Resa indotta, il Gigante Brucutu li liberava e loro mi saltavano di nuovo addosso ripetendo decine di volte i tentativi falliti di vincere e dominare la fiera. Helena rideva del nostro gioco e, cercando di non mostrare il suo atteggiamento materno verso noi tre, fingeva noncuranza nel dirci di stare attenti a non farci male.

Dopo un po’ il cielo si aprì tutto in un azzurro intenso e noi progettammo di uscire nel pomeriggio per una passeggiata. Helena terminava di preparare il pranzo e io cercavo di aiutarla apparecchiando. Mi perdevo, maldestro e inesperto, fra bicchieri, forchette, mestoli e piatti di portata, e solo quando ci sedemmo a tavola mi accorsi che la mia architettura culinaria era un vero disastro.

I figli di Helena si erano svegliati di buon mattino. Marcello era riuscito ad assemblare un puzzle di cinquecento pezzi, un quadro impressionista che ritraeva uno dei tanti villaggetti del sud della Francia. L’opera si trovava in bella mostra, completa, per l’orgoglio della famiglia, sulla tavola al centro della sala.

Diogo aveva passato la mattina giocando con una rivista del tipo stic stac. Aveva costruito una vera città, eretta in cartone sul terrazzo, con molte case, chiese, municipio, uffici postali, paline, strade, furgoncini e decine di personaggi dei fumetti che transitavano nei due metri quadrati del mondo di Diogo, dove il piccolo comandava e ritirava gli ordini, metteva e toglieva dando vita e movimento alla sua architettura urbana di carta.

C’era insalata, pane, riso e pollo arrosto. I bambini volevano le cosce. E anch’io, ma non lo diedi a vedere. Mangiai un po’ di petto e un piatto di riso. Compensai la mancanza di una terza coscia nel pollo con due bicchieroni di latte.

Allora indossammo i giacconi e uscimmo, noi quattro, camminando nell’erba umida verso la stradina sterrata che passava di fronte alla casa. I bambini volevano andare a cavallo. C’era uno nei dintorni che li affittava a ore. Andammo in cerca di quel tale, a passi lenti, coccolando i polmoni con l’ossigeno della montagna.

Ai bordi della strada, nel pendio delle alture, crescevano alberi di tutti i tipi, soprattutto pini e cipressi. Mi ricordai delle conversazioni politiche della notte precedente, delle nostre aspettative e dei timori per una nazione così insicura e, osservando gli alberi, feci notare a Helena che, anche se il terreno è inclinato, crescono sempre verticali, uniformi, rettilinei, puntando verso il sole. Agli uomini e ai loro principi, chissà che un giorno non succeda lo stesso. Allora tutti i terreni saranno ugualmente piani, disse lei. E io risposi, senza molta convinzione: non necessariamente …

Scoperti e sellati i cavallini, combinato il prezzo, andarono i bambini a trottare, uno vicino all’altro, lasciando impronte di ferro di cavallo nel terreno fangoso. Helena approfittò del tempo a disposizione per fotografare fiori silvestri, piantagioni, uccelli, un arbusto carico di fragole e un grande ragno bianco, immobile al centro della sua tela simmetrica, con goccioline che brillavano lungo ogni filo.

Io li seguivo da lontano. Helena con le sue lenti che indagavano l’artigianato della natura e, all’altro estremo, le due piccole figure equestri, un Don Chisciotte e un Sancio Pancia dei giochi, o cavalieri crociati in cerca di un graal inesistente che tante differenti forme avrebbe assunto nel futuro immenso di quei due buoni camerati.

Si fece buio presto e il freddo ci tormentava. Nel pomeriggio il fittavolo aveva lasciato della legna accanto al camino. Giocai alcune partite a carte con i bambini e prendemmo un passato di piselli. Quindi ci riunimmo per accendere il fuoco. Marcello, Diogo ed io, i piromani, al dire di Helena, eravamo eccitatissimi. La donna prese un vecchio giornale e una rivista. Sistemammo la legna nel modo migliore, distribuimmo, fra un pezzo e l’altro, dei fogli di giornale, versammo dell’alcol su tutto e gettammo un fiammifero acceso.

Si alzò un’enorme lingua di fuoco azzurrognola, in una esplosione sorda, e ci abbracciammo per festeggiare. Gridammo e anche ci agitammo quando il fuoco, con la stessa rapidità con cui sorse, sparì completamente.

La legna era umida a causa della fitta pioggerella che per giorni aveva dilavato la regione. Ci rendemmo conto che prima era necessario asciugarla, con il fuoco della carta, fino a che cominciasse a prendere fuoco. Introdussi fra i pezzi quel che restava del giornale: le pagine dei piccoli annunci, e accesi un altro fiammifero. I fogli presero fuoco in fretta e altrettanto in fretta si esaurirono e si trasformarono in cenere. Era necessario non lasciare che il fuoco si spegnesse del tutto. Helena strappava fogli dalla rivista a colori, che aveva comperato nel pomeriggio tardi e non aveva ancora letto, consegnandomi le pagine, una alla volta, che venivano spinte nel camino con uno spiedo improvvisato. I colori della rivista, bruciando, alzarono fiamme verdi, artificiali. Si sentivano ormai i primi crepitii della legna, e uno dei pezzi aveva già preso un colore rosso nella parte inferiore. I bambini, con i loro occhi enormi, erano ammutoliti per la tensione.

Nel mettere l’ultima pagina della rivista, scese una specie di scoramento generale. Il legno si rifiutava di bruciare e già sentivamo l’alito del freddo e i suoi canini pronti a mordere il nostro collo. Helena portò un enorme striscia di carta igienica. Prese fuoco illuminando i volti e scomparve. Vari pezzi di legno erano quasi brace ma era terminato tutto il materiale di facile combustione. Senza avere il coraggio di guardare in faccia i bambini, mi alzai e andai a lavarmi la faccia sudata. Al ritorno, Marcello mi mise in mano la scatola vuota del suo puzzle. La strappai in quattro e la gettai nel fuoco. Helena aveva messo i fiocchi di granoturco in una lattina e mi portò la confezione. Diogo si sedette accanto a me e tolse dalla tasca le carte da gioco gettando nel fuoco coppe e spade. Tenne per ultimo fanti, re e regine.

L’estremità di un pezzo di legno levava una debole fiamma. Avevamo paura che non attecchisse. In mancanza di un soffietto, soffiavo io sulle braci nelle parti più resistenti e, da sopra la mia spalla cominciarono a cadere nel fuoco, uno per volta, i tasselli del puzzle di Marcello, il villeggetto francese che bruciava in cinquecento parti. Il fuoco, come saliva, si abbassava. La legna, insaziabile, si rifiutava di compiere una funzione che non le era propria, ci spogliava di tutto e ci lasciava apprensivi.

Diogo era serio. Andò alla sua città e prese i tetti. Prima di infilarli nel camino, lo guardai e lui mi fece cenno di sì con il capo. Se ne andarono i tetti. Dopo portò i muri e gli uffici postali. Il fuoco incominciava ad agitarsi. Portò le chiese, le paline, le auto e il municipio. Vari pezzi di legna ardevano nei contorni. Diogo mise i personaggi, uno alla volta e con cura, sulle parti ancora refrattarie. Prima si contorcevano, poi diventavano scuri e allora prendevano fuoco. Il bambino li chiamava per nome, percependo che stavano per ardere, e faceva un cenno di addio. Il fuoco uccide tutto, no? Mangia tutto … –  disse, dopo l’ultimo addio. I figli di Helena avevano consegnato il loro mondo, nella scelta tra distruzione e resa.

Non restarono sopravvissuti, ma quella sera non sentimmo freddo. Il fuoco andò via via stimolandosi da sé, capelluto e festaiolo, e l’unica cosa che facemmo fu di gettare, di tanto in tanto, nuovi pezzi di legna che esplodevano incendiandosi.

Rimanemmo alzati, intorno al fuoco della nostra perseveranza, riscaldati e orgogliosi, per ore. Helena ed io ci avvicendavamo nel raccontare storie sempre più fantastiche e impossibili, che i bambini assaporavano in ogni suono, ogni espressione e gesto finché l’ultimo pezzo di legna e l’ultimo fantasma scomparvero, nella tranquilla sonnolenza dei bambini e della cenere.

Helena mi sollecitò con disperazione, quella notte. Il suo corpo mi voleva facendo fuoriuscire le ossa, quasi disincarnandosi. Era come se agonizzasse accanto alla sua fonte di vita. La mia “involontà” era forte e anch’io soffrivo.

Lei cominciò a passare le mani su di me, a succhiarmi le spalle con la sua bocca avida. Si avvicinava sempre più, tutta. Metà del letto era vuoto. Sospinto: da una parte il suo assedio sinuoso, dall’altra un precipizio che terminava sul pavimento. Strinsi le palpebre e i pugni e diedi un urlo.

Helena sobbalzò spaventata, attonita. Non sapeva cosa chiedersi. Io mi alzai e mi misi a camminare velocemente da una parte all’altra della stanza, dopo in cerchio, con la testa fra le mani, gemendo e pronunciando parole a vanvera, incomprensibili. Lei fece capire che avrebbe chiamato un medico. Andai in bagno e mi infilai come potei sotto il rubinetto del lavandino, lasciando che l’acqua gelata mi inzuppasse i capelli. Tornai grondante e tremante, e mi sedetti sul letto. Le mie frasi incominciarono allora ad avere un po’ di senso.

Parlai di mostri, risate lugubri, orrendi demoni che abitavano il mio subcosciente, e che erano stati convocati dal fuoco e per l’isolamento della montagna. Dissi che l’avevo presentito dall’inizio del pomeriggio ma, pensando di poterlo tenere sotto controllo, non avevo detto niente. Essi abitano dentro di me sempre, dissi. Ma si trovano in gabbia in qualche sotterraneo della ragione. Si trovano imbottigliati come i geni d’Oriente. Sono i demoni maligni responsabili dei miei terrori ma anche della mia creatività. Sono pericolosi e indispensabili. Per causa loro posso diventare pazzo. Senza loro la mia anima rimane sterile. E il peggio è che a volte qualche fattore strano, sottile, come un’atmosfera, una musica o una luce, toglie il tappo della bottiglia, apre la porta delle loro carceri, ed essi mi dominano completamente, si impadroniscono di me, controllano i miei gesti e mi fanno impazzire. È raro che ciò succeda, ma è sempre possibile. Mi duole molto che sia successo qui, accanto a te … Avrei voluto risparmiartelo, ma non ho potuto. Mi spiace molto… Adesso sto già meglio. Loro stanno ritornando nelle loro gabbie. Spero che ci rimangano per sempre. Ho molta paura che un giorno si impossessino di me e non mi liberino più …

Helena ascoltò tutto in silenzio. Non abbozzò nessuna reazione. Mi prese per un braccio e stette a pensare a tutto quello che era successo. Uscì lentamente dal suo sconcerto e andò in bagno a prendere un asciugamano. Mi asciugò la testa e riordinò le coperte. Mi sento svuotato, dissi. Lei spense la luce e rispose: allora, dormi …

Mi svegliai poche ore dopo, spaventato e stordito, senza capire bene dove mi trovassi, sentendo i singhiozzi di qualcuno che piangeva accanto a me. Era ormai giorno, ed era evidente che Helena non aveva chiuso occhio tutta la notte.

– Helena! Helena! Cosa c’è? Perché piangi?

– Lasciami. Dimenticami… Dai dormi, dai…

– Parla, Helena… Perché piangi? Sei rimasta scossa per quello che c’è stato stanotte?

– Te l’ho già detto. Stai tranquillo… Lasciami in pace… Lasciami sola…

– Vuoi che vada a dormire in un’altra stanza? Nella sala?

– No, sta lì… Sarà che non riesci a capire? Sarà?…

– Helena, ho molto sonno. Per favore spiegami la ragione di questo piagnisteo. Perché sei così triste, così disperata?

– Non è tristezza, no, caro il mio bastardo, egoista, insensibile… Stammi a sentire. Non ce la faccio più! Sono una donna, hai capito? Non una interlocutrice.

– Scusa.

Helena scoppiò in un pianto dirotto. Io mi sentivo ancora frastornato dal sonno. Fra un singhiozzo e l’altro, lei mormorò:

– Non stavo piangendo… Stavo tentando di fare una cosa che non facevo da vent’anni… Stavo tentando di masturbarmi, hai sentito? E non ci sono riuscita… Non ci riesco più…

Disse questo e si alzò in uno scatto di rabbia. Indossò una vestaglia e uscì sbattendo violentemente la porta della stanza. Accesi una sigaretta pensando a ciò che sarebbe stato meglio fare, e mi addormentai di nuovo.

Marcello aprì uno spiraglio nella porta, venendo ad avvisarmi che il mangiare era in tavola. Era ormai quasi sera. Mi vestii in un secondo e trovai i bambini nella sala che giocavano al calcio da tavolo.

– Com’è che oggi non avete tentato di immobilizzare il Gigante Brucutu …

Senza distogliere gli occhi dal gioco, il più piccolo rispose:

– Non serve. Tu sei molto forte. Quando saremo grandi, tenteremo di nuovo …

Lo trovai strano. Andai in cucina e domandai a Helena se si sentiva meglio. Lei disse che stava bene, tutto bene e, senza smettere di girare il cucchiaio nella pentola, mi raccontò che, mentre dormivo, i tre si erano abbracciati nell’amaca e avevano pianto molto, insieme, per più di un’ora. Nessuno dei tre sapeva perché gli altri piangevano, niente fu detto prima né domandato dopo. È stata  un’esplosione spontanea. I tre ne avevano bisogno, tutto qui.

– Forse noi quattro – dissi – se anch’io fossi stato con voi sicuramente sarei crollato.

– Chissà…

Mangiammo, sistemammo i cuscini e i borsoni nell’auto, e scendemmo la montagna lentamente. La sera rovesciava su di noi una grossa pioggia, come se ci sputasse addosso. La musica della radio, all’inizio, suppliva un silenzio che stava diventando sempre più fastidioso. Marcello e Diogo erano svegli, ma era come se dormissero o parlassero telepaticamente.

Il notiziario interruppe una canzone per dare le ultime informazioni sulla guerra del Nicaragua. Noi tutti eravamo dalla parte dei sandinisti, compreso i bambini, che cominciarono a domandare alla mamma maggiori particolari sulla lotta di liberazione dei centroamericani. Helena spiegò alcune cose ed io potei aggiungerne altre, riprendendo un dialogo, cosa che mi diede una certa sensazione di sollievo.

Mi ricordo anche di aver discusso con loro quella sera sulle altre rivolte popolari, quella di Cuba, dell’Iran e quella di Santo Domingo. Mi ricordo dell’arrivo in città, con le sue favelas, gli enormi cartelli pubblicitari e i motel, in un paesaggio miserabile e opprimente. Ricordo che provammo paura, nell’auto chiusa. E ricordo più nitidamente ancora che, proprio nella corsia centrale dell’Avenida Brasil, passammo a poco meno di un metro da un cane con la parte posteriore del corpo distrutta da qualche camion.  Cercava di trascinarsi con le zampe anteriori fino alla banchina. Mai ci sarebbe arrivato e per poco non lo investivamo anche noi. Il mezzo cane mi guardò negli occhi, con uno sguardo strano, intelligente. Mi guardò senza domandare niente, solo informandomi che ne sarebbe uscito vivo. O no. I pneumatici del furgoncino, che ci seguiva subito dopo, diedero due salti secchi. Fra il primo e il secondo, giuro che sentii un grido.

(traduzione di Mirella Abriani)

Julio Monteiro Martins nasce nel 1955 a Niteroi, nello stato di Rio de Janeiro (Brasile). Si dedica alla scrittura fin da ragazzo e già nel 1976 pubblica i primi racconti. Nel 1979 partecipa allo International Writing Program della University of Iowa (USA), ricevendo il titolo di Honorary Fellow in Writing, e per un anno insegna scrittura creativa al Goddard College (Vermont, USA). Continua poi l’insegnamento presso la Oficina Literária Afrânio Coutinho (Rio de Janeiro), dal 1982 al 1989, e in seguito in Portogallo, presso l’Instituto Camões di Lisbona (1994) e presso la Pontifícia Universidade Católica do Rio de Janeiro (1995). Dal 1996 insegna all’università di Pisa, dove attualmente tiene il corso di Lingua Portoghese e Traduzione Letteraria. Dirige inoltre il Laboratorio di Narrativa del Master di Scrittura Creativa, presso la Scuola Sagarana di Pistoia. È fondatore e direttore della rivista culturale Sagarana (www.sagarana.net).

All’attività di scrittore e docente affianca un impegno attivo in campo politico e sociale. Nel 1983 è uno dei fondatori del del Partido Verde brasiliano, e successivamente, nel 1986, del movimento ambientalista brasiliano “Os verdes”. Nel 1991, avendo affrontato studi universitari di indirizzo giuridico, è avvocato dei diritti umani per il Centro Brasileiro de Defesa dos Direitos da Criança e do Adolescente (ong), occupandosi in particolare dell’incolumità dei meninos de rua chiamati a testimoniare in tribunale, in seguito all’orrenda strage della Chacina da Candelária, nella quale una squadra di poliziotti in borghese uccise nel sonno a colpi di mitra bambini abbandonati che dormivano in strada a Rio de Janeiro.

La produzione letteraria di Julio Monteiro Martins comprende numerose opere sia in portoghese brasiliano sia in italiano, essendo quest’ultima la lingua attualmente preferita dall’autore. Pur prediligendo la forma narrativa, Monteiro Martins ha pubblicato anche poesie e pièce teatrali. Da alcune sue opere sono state tratte sceneggiature di cortometraggi. Di seguito i principali titoli.

In portoghese: Torpalium (racconti, Ática, São Paulo, 1977), Sabe quem dançou? (racconti, Codecri, Rio, 1978) Artérias e becos (romanzo, Summus, São Paulo, 1978), Bárbara (romanzo, Codecri, Rio, 1979), A oeste de nada (racconti, Civilização Brasileira, Rio, 1981), As forças desarmadas (racconti, Anima, Rio, 1983), O livro das Diretas (saggi politici, Anima, Rio, 1984), Muamba (racconti, Anima, Rio, 1985) e O espaço imaginário (romanzo, Anima, Rio, 1987); suoi lavori sono inoltre apparsi in numerose antologie.

In italiano: Il percorso dell’idea (poesie, Bandecchi e Vivaldi, Pontedera, 1998), Racconti italiani (Besa Editrice, Lecce, 2000), La passione del vuoto (Besa, Lecce, 2003 ), Madrelingua (romanzo, Besa, Lecce, 2005) e L’amore scritto (racconti, Besa, Lecce, 2007); ricordiamo infine la partecipazione, assieme ad Antonio Tabucchi, Bernardo Bertolucci, Dario Fo, Erri de Luca e Gianni Vattimo, all’opera collettiva Non siamo in vendita – voci contro il regime (a cura di Stefania Scateni e Beppe Sebaste, prefazione di Furio Colombo, Arcana Libri / L’Unità, Roma, 2002).

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

3 commenti

  • Mi spiegate in che cosa consistono gli “esotismi/portoghesismi” secondo voi presenti nel testo e dove le pignolerie della Crusca avrebbero dovuto intervenire?
    Grazie.
    La traduttrice

  • Mi spiegate in che cosa consistono, secondo voi, gli “esotismi/portoghesismi” esistenti nel testo e mi indicate i punti dove le pignolerie della Crusca avrebbero dovuto intervenire?
    Grazie.
    La traduttrice

  • GRAZIE PER LA RISPOSTA E.MAIL.
    SONO UN OTTIMA CUOCA E SONO CONTRARIA ALLE DIETE ALLA CRUSCA.
    MIRELLA

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