Il simbolismo degli scacchi nella fantascienza
di Gian Filippo Pizzo (con la collaborazione di Roberto Chiavini)
«Perché le piace tanto giocare a scacchi?».
«Perché è l’unica cosa al mondo che mi permetta di vedere tutti i fattori e capire tutte le regole».
(Robert A. Heinlein, «Loro», 1941)
Il ruolo degli scacchi all’interno della fantascienza è stato analizzato e discusso più e più volte, nel corso degli anni, nel tentativo di ottenere una spiegazione coerente del dato oggettivo che spicca immediatamente agli occhi: gli scacchi sono il gioco simbolo del genere fantastico, così come il poker lo è per il genere western. (Quanto all’altro grande genere popolare, il giallo, parrebbe a livello di idea portante equamente diviso proprio tra gli scacchi e il poker, anche se tutto sommato – soprattutto nel cinema, in quanto aspetto coreografico – preferisce l’atmosfera fumosa dei casinò e delle bische, con i dadi, la roulette, lo chémin-de-fèr e tutti i giochi d’azzardo).
Aldilà del significato intrinseco di astrazione metaforica di una sfida fra intelligenze o di un conflitto, gli scacchi rivestono un ruolo molto diverso, a seconda che li si esaminino all’interno del cinema oppure della letteratura fantastica. Il grande e anche il piccolo schermo si sono limitati a usarli in modo più o meno intelligentemente accessorio: basti pensare tra le altre alla partita a scacchi olografici di Chewbacca in «Guerre Stellari» o a Kurt Russell che rovescia il suo bicchiere di scotch dentro il computer che “bara” a scacchi, nelle scene iniziali de «La Cosa» di John Carpenter; o ancora alla partita fra l’astronauta Bowman e il computer di bordo HAL 9000 in «2001 Odissea nello spazio» e a quella presente in «Blade Runner».
Fritz Leiber: il re del “gioco dei re”
Invece, la narrativa fantascientifica in particolare ha fatto del gioco non soltanto il fedele compagno di molti dei suoi protagonisti ma anche il cardine di molte indimenticabili storie, come nella letteratura non di genere è avvenuto per «L’alfiere nero» di Arrigo Boito o per «La novella degli scacchi» di Stefan Zweig, o ancora per «La difesa [di Luzhin]» di Nabokov. Fra gli autori che più di altri hanno sfruttato le loro conoscenze e abilità specifiche negli scacchi per proporci nuovi spunti di riflessione, Fritz Leiber (che fu un ottimo giocatore, anche a livello di tornei ufficiali) deve essere considerato il re del “gioco dei re”, con una notevole produzione nel sottogenere scacchistico: quattro bellissimi racconti, a partire dal sublime «I sogni di Albert Moreland» (originariamente pubblicato nel 1947, ma scritto precedentemente e condizionato fortemente dall’avvento del nazismo e dalla II Guerra Mondiale), affascinante storia di una lotta cosmica fra Bene e Male, giocata su una complicata scacchiera fantastica con pezzi eterogenei, con il futuro del mondo come posta per il vincitore. C’è poi «Incubo a 64 caselle» (del 1960), descrizione molto accurata e realistica del primo torneo mondiale in cui viene ammesso a partecipare un elaboratore (situazione oggi quasi normale, ma ancora da immaginare quando Leiber scriveva) e degli effetti psicologici che l’avvenimento ha sugli altri giocatori e sul pubblico. Decisamente horror il racconto «Mezzanotte sull’orologio di Morphy», in cui si attribuiscono magici ma pericolosi poteri al cronometro da gara del campione americano: Paul Morphy fu un grande giocatore di fine Ottocento, che morì pazzo; a lui lo scrittore-scacchista Paolo Maurensig ha dedicato il libro «L’ arcangelo degli scacchi. Vita segreta di Paul Morphy» (2013), non una biografia ma un romanzo che prende spunto dalla sua figura. Più leggero invece il breve «La mossa del cavallo», appartenente al ciclo chiamato della “Guerra del Cambio”, in cui fra l’altro c’è una classificazione tra i vari pianeti esistenti nell’universo sulla base dei giochi più praticati, che ovviamente riflettono la psicologia degli abitanti. Ricordiamo ancora il saggio «Il fantastico mondo del cavallo» (1974), mentre numerosi riferimenti scacchistici, oltre al titolo, ha il romanzo «Scacco al tempo». Per completezza segnaliamo anche un racconto non fantastico di Leiber, una parodia sherlockiana che descrive una partita fra Holmes e il suo acerrimo avversario Professor Moriarty, l’inedito «The Moriarty Gambit» del 1962.
Anche Fredric Brown ha dedicato un racconto di “weird fantasy”, al gioco degli scacchi: si tratta di «Vieni e impazzisci» (1949), una storia giocata fra realtà e fantasia sullo stile del citato «Albert Moreland» ma se possibile ancora più claustrofobica e paranoide, vissuta quasi come il delirio di un folle. Sempre di Brown è il piccolo gioiellino «Inno di congedo» (1960), un flash di poco più di una pagina, come solo questo eccellente giallista era in grado di scrivere, sulla “protesta” dei pezzi della scacchiera che al termine di una partita vengono riposti nella loro scatola: la ragion d’essere di questo breve capolavoro è la sua possibile interpretazione metaforica, come ribellione dei soldati alla guerra e agli intrighi politici che la sostengono (non dimentichiamo che al tempo in cui Brown scrisse questo racconto, il Vietnam era ormai dietro l’angolo).
L’uso allegorico e quello metaforico dell’ambito scacchistico ha ancora altri esempi nella narrativa fantascientifica, dal romanzo di John Brunner «La scacchiera» (storia di un colpo di stato in un Paese del Sudamerica, in cui – con abilità mostruosa – lo scomparso scrittore britannico fa corrispondere alle mosse di una partita giocata realmente [Steinitz-Cigorin, Avana 1892] le azioni dei suoi personaggi), all’inedito «Ghost» di Piers Anthony (storia di viaggi del tempo e universi paralleli in cui si concretizzano i sogni, ma dove le relazioni interpersonali dei vari personaggi sono immaginate dall’autore statunitense alla stregua di una partita di scacchi); da quello che era stato il primissimo tentativo di trasferire una partita di scacchi nell’azione di un romanzo: «Alice attraverso lo specchio» di Lewis Carroll fino a «The Chess Garden» di Brooks Hansen (un fantasy inedito in Italia in cui uno scrittore narra di un mondo di scacchi viventi, mentre i suoi lettori trovano i pezzi degli scacchi nel loro giardino).
Molti altri romanzi e racconti fantastici hanno sfruttato la potenzialità simbolica del gioco degli scacchi per travestire altrimenti le loro concezioni filosofiche o politiche, ed è questa probabilmente una delle ragioni principali del successo goduto da questo gioco – semplice nelle regole ma tremendamente complesso nelle dinamiche – nel mondo letterario fantastico. Certamente non tutto può esaurirsi in questa spiegazione dal momento che ben altri possono essere gli obiettivi cercati da uno scrittore nell’ambientazione scacchistica di una sua storia. Per esempio, quello satirico, come avviene in «I giocatori di scacchi» di Charles Harness, dove i soci di un circolo scacchistico restano abbastanza indifferenti di fronte a un topo che gioca, perché questi non pare abbastanza bravo!
Scacchi e alieni
Un altro filone, sfruttato in particolare dagli scrittori di fantascienza pura, è quello dell’utilizzo degli scacchi come mezzo di comunicazione fra l’uomo e l’alieno: la funzione rivestita dal gioco in questi frangenti è duplice, in quanto pone gli scacchi come elemento accomunante fra due razze e due culture altrimenti estranee (una sorta di stele di Rosetta ludica, di traduttore simultaneo concepito per simboli e schemi mentali) ma anche come indicatore del livello di intelligenza. Possiamo qui registrare «Oltre Plutone» di Angelo De Ceglie, dove un telepatico umano in viaggio su un’astronave si mette in contatto con degli extraterrestri proprio mediante gli scacchi; e il delizioso «La variante dell’Unicorno» di Roger Zelazny, in cui un ex giocatore vagabondo di nome Martin si trova a giocare contro un unicorno una partita che ha come posta la permanenza della razza umana quale dominante della Terra o il subentro degli unicorni agli uomini. Anche Zelazny ha utilizzato una partita storica: Halprin-Pilsbury, Monaco 1900 (comunicazione dell’autore a Pizzo, lettera privata del 29/01/1987).
Nell’inedito «The Board in the OtherDirection» di Ruth Berman, gli scacchi sono visti come elemento necessario per raggiungere l’integrazione della Terra con i pianeti capaci di viaggi interstellari. Ancora «La seconda partita» di De Vet & McLean vede un agente terrestre infiltrato sul pianeta Velda – cui abitanti umanoidi rifiutano ogni contatto con la Federazione Galattica – usare proprio la variante locale del gioco degli scacchi (che è molto più di un gioco: una componente essenziale della cultura veldiana) per stabilire il contatto. L’idea del gioco quale costituente primario di una società viene sviluppata anche in altri racconti, da «I veri scacchi» di Voicu Bugariu all’inedito «A Game of Vlet» di Joanna Russ. In questo filone rientra anche il bellissimo romanzo di Lino Aldani «La croce di ghiaccio» dove un missionario gesuita, che aveva rinunciato agli scacchi perché lo avevano fatto peccare d’orgoglio, è condotto dalla Provvidenza a riprenderli per potere comunicare con gli alieni di un pianeta da convertire. Notiamo a questo proposito che il romanzo del citato Paolo Maurensig (scrittore che esordì con il romanzo scacchistico «La variante di Lüneburg», 1993) «L’ultima traversa» del 2012 ha una trama assai simile, benché non sia fantascientifico. Anche qui il protagonista è un religioso appassionato di scacchi, dai quali è addirittura ossessionato e ai quali infine soccombe, finendo per rinunciare sia alla tonaca che al gioco.
I romanzi di Aldani e di Maurensig fanno compagnia a quelli già citati di Nabokov e di Zweig nel descrivere protagonisti che dedicano al gioco l’intera loro esistenza, e nella fantascienza ritroviamo ancora almeno altri due esempi. Uno è «Pianeta Morphy» (1974) di Adrian Rogoz, dove un ragazzino abilissimo, Dav, dopo aver battuto tutti i maggiori giocatori dell’universo, e dopo aver rigiocato – rivincendole! – tutte le partite più classiche della storia, sfida un pianeta pensante, scoprendo che in fondo si gioca sempre solo contro se stessi. L’altro è «La regina degli scacchi» (noto anche come «Il gambetto di regina») di Walter Tevis, che segue la vita di una ragazzina nel passaggio fino all’età adulta, vita condita appunto dagli scacchi con una serie impressionante di successi che la portano fino al titolo mondiale (questo l’aspetto fantascientifico del romanzo, perché nella realtà nessuna donna ha mai vinto il campionato mondiale) a scapito però delle vicende sentimentali e delle relazioni umane.
Scacchi come duelli
Alla sottocategoria dei rapporti con gli alieni di cui dicevamo appartengono però anche racconti in cui il ricorso agli scacchi è decisamente di tipo bellico o comunque violento. Si tratta di racconti quali «Senza pensiero» di Saberhagen o «Scacco matto» di Sheckley o ancora «Scacco alla Regina» di Janifer Janis, dove gli abitanti di un mondo parallelo sono condizionati dalle nostre partite, e muoiono ogni volta che un pezzo equivalente viene “mangiato”.
In «Senza pensiero» (1963) di Fred Saberhagen – altro scrittore appassionato del gioco, tanto da aver curato un’antologia di racconti in tema, Pawn to Infinity del 1982 – un astronauta si trova a combattere contro un temibile “berserker”, un’astronave aliena programmata per distruggere tutto ciò che incontra: riuscirà a cavarsela impegnando il berserker in una partita a dama (gli scacchi favorirebbero l’abilità dell’avversario) contro il computer della sua cosmonave. Qui Saberhagen deve essersi ricordato di una asserzione dell’Auguste Dupin di Edgar Poe, all’inizio del racconto «I delitti della via Morgue», il quale sostiene che è più significativo battere un avversario a dama e non a scacchi, perché questi ultimi hanno infinite possibilità mentre quelle della dama sono molto più limitate e quindi lasciano emergere l’intelligenza e l’abilità superiori. In «Scacco matto» (1953) di Robert Sheckley (che, a rigore, non parla del vero e proprio gioco) abbiamo due flotte di astronavi, una umana e l’altra aliena, che si affrontano nello spazio in una battaglia decisiva. I rispettivi computer bellici hanno calcolato tutte le possibilità e dunque i due schieramenti si trovano in posizione di stallo, perché ad ogni mossa corrisponderebbe un’opportuna contromossa. A questo punto un operatore terrestre, impazzito per la tensione, comincia a premere a caso i pulsanti del computer, portando i terrestri alla vittoria grazie all’imprevedibilità delle mosse. Il tema di fondo non cambia: la mente umana sarà sempre superiore, anche se in preda alla follia, alla macchina.
Lasciando perdere gli alieni, l’idea della partita come sfida o come duello (si tratta, comunque, sempre di un contatto) è contenuta in tante altre opere: lotta fra due dèi della cosmologia zoroastriana (AngraMainyu contro Ahura Mazda) per il possesso della Terra in «La sfida» (1966) di Lino Aldani, tra l’uomo e la sua mente in «Il gambitto di Von Goom» di Victor Contoski (dove il sacrificio di un pezzo porta alla pazzia) e soprattutto tra uomo e società. In questo ambito, oltre al succitato «La scacchiera» di Brunner, ci sono da segnalare dei veri capolavori. Nello splendido «Scacco doppio» (1972) Lino Aldani ci racconta della partita fra un essere umano e il suo terminale domestico Mark 5, giocata in attesa che la moglie del protagonista rientri (anche questo racconto è basato su una partita realmente giocata, tra Lasker e Delmar nel 1912). Mano a mano che nel giocatore crescono le difficoltà di gioco, in lui si fa strada la consapevolezza che la moglie, convocata dalle autorità, non ritornerà: lo scacco matto subìto alla fine è anche lo scacco dell’individuo vittima di una società totalitaria. In «L’ultima mossa» di James G. Ballard troviamo un condannato a morte, Constantin – cui è concesso in attesa dell’esecuzione di vivere in una villa isolata ma dalla quale è impossibile fuggire – e il suo carceriere Malek. I due passano il tempo giocando a scacchi e le partite si trasformano in una competizione psicologica tra la visione di Constantin che proclama la sua innocenza e quella di Malek che compie il suo dovere. La “ultima mossa” – Malek commette un errore – fa credere a Constantin di aver trionfato… ma non sarà così. Un’altra partita altamente drammatica è quella di «All the king’s horses» di Kurt Vonnegut (1970), stranamente inedita in Italia nonostante la celebrità dell’autore. Vi si racconta di un gruppo di militari statunitensi prigionieri in un imprecisato campo di concentramento asiatico, il cui comandante è fanatico degli scacchi fino all’ossessione. Costui offre al comandante degli americani di giocarsi la vita e la libertà in una partita che ha però una regola particolare: mentre l’orientale giocherà con i normali pezzi, l’americano dovrà usare i suoi uomini e la sua famiglia, e ogni volta che un suo pezzo viene “mangiato” il suo corrispondente umano sarà ucciso. Cosa farà quando in gioco ci sarà la vita del figlio?
L’uomo contro la macchina
A proposito di sfide, quella tra uomo e macchina (pensante) costituisce un altro vero e proprio filone dell’argomento che stiamo trattando. Anzi, è proprio con questo tipo di protagonista che la tematica del “nobil giuoco” fa il suo ingresso nella letteratura fantastica, in particolare fantascientifica, con i racconti di Poe e di Bierce citati più avanti. Inoltre, è stato proprio il gioco degli scacchi, certamente molto complesso ma più schematizzabile di altri in parametri comprensibili e sfruttabili dal computer, la prima applicazione ludica a essere stata inserita in una macchina calcolatrice, con risultati sempre migliori.
Non sono pochi gli autori di fantascienza che si sono cimentati nel narrare storie incentrate sulle macchine capaci di giocare a scacchi, che negli esempi più vecchi sono macchine antropomorfe. Il primo racconto in assoluto è «Il padrone di Moxon» di Ambrose Bierce, scritto alla fine dell’Ottocento, che fu anche la seconda opera statunitense (la prima era stata mezzo secolo prima un racconto di Melville) che coinvolgeva una macchina senziente. Il padrone del titolo è un automa che gioca a scacchi ma viene sconfitto dal suo costruttore Moxon: per vendetta finirà per ucciderlo, sgozzandolo con una violenza assolutamente ingiustificata. Una trama simile, come anche il titolo, ha il racconto di Lord Dunsany «Il nuovo padrone»: anche in questo caso il robot uccide il suo creatore, ma non si tratta di una vendetta cieca, piuttosto di invidia e di gelosia per il cervello umano, duttile e in grado di occuparsi di infinite cose, da parte di un essere meccanico condannato a potersi dedicare solo agli scacchi. In entrambi i casi (i due racconti sono paradigmatici di tutti quelli che seguiranno sull’argomento) Dunsany e Bierce sembrano volerci mettere in guardia contro le macchine troppo evolute. A Dunsany si devono anche altri due racconti scacchistici, anche se il legame con il gioco è più sfumato: «Cruciverba incompleto» e «Il gambetto dei tre marinai». Notiamo incidentalmente quanto spesso compaia il termine “gambetto” (o “gambitto”) nei titoli: evidentemente questa mossa particolare degli scacchi, che consiste nel sacrificare un pezzo per ottenere un vantaggio territoriale, esercita un fascino particolare sugli scrittori.
Una divertente variante del tema uomo contro robot è contenuta nel racconto «Scacco matto» (1954) di Roger Wilson: due anziani pensionati del futuro si sfidano a scacchi per interposta persona, cioè programmando ciascuno un robot scacchista. Anche qui, volendo, c’è una critica all’eccessivo uso delle macchine; peccato che il racconto sia tutto sommato solo un’ingenua “sit-com” scritta con un linguaggio sciatto. Più tradizionale invece la visione di Giuseppe Arabito nel fantahorror «Lo strumento» (1998), racconto in cui il protagonista gioca la sua vita contro la Morte, che per l’occasione agisce tramite il programma di un personal computer. Ancora un computer domestico, o un terminale, è presente in «Folle controllo di notte» di Flavio Casella: in questo caso è l’uomo a vincere, ma ancora una volta il computer, collegato con altre apparecchiature, è in grado di vendicarsi fisicamente.
Una citazione a sé merita «Il giocatore di scacchi di Maelzel» (1836) di Edgar A. Poe: più che un racconto è un saggio in cui lo scrittore americano riesce a svelare – senza averlo mai visto e prima che si scoprisse la verità storica – il mistero del “Turco”, un automa scacchista portato in giro per le corti d’Europa, dove sconfisse anche Napoleone, da un sedicente barone Von Kempelen. Dentro la macchina, come Poe intuì, era nascosto un nano. Il caso, divenuto proverbiale, ha anche ispirato un racconto di fantascienza contemporaneo, l’inedito «The marvelous Brass Chess-playingAutomaton» di Gene Wolfe.
I racconti più moderni abbandonano la figura del robot antropoide in favore del computer vero e proprio, e se oggi abbiamo macchine informatiche che partecipano ai tornei, questo aspetto era stato anticipato da Fritz Leiber nel racconto «Incubo a 64 caselle»: vi si immagina, con la cura del dettaglio e dell’ambientazione possibili soltanto a un grande appassionato del gioco, il primo campionato mondiale di scacchi che veda la partecipazione di un elaboratore elettronico. Lo scrittore statunitense è abilissimo nel narrare lo svolgimento del torneo e nel dare il giusto equilibrio fra l’elemento allora fantastico della partecipazione dell’elaboratore e le reazioni psicologiche dei giocatori in carne ed ossa. Leiber si diverte a parodiare i più noti Campioni dell’epoca, storpiandone i nomi (Botvinnik diventa Votbinnik, e Fisher diventa Angler: entrambi in inglese stanno per “pescatore”). Sarà proprio Angler a riuscire a sconfiggere l’elaboratore, sia pure con un trucco: adotta una apertura che nei manuali contiene un errore di stampa, così la macchina – che ha nei suoi banchi di memoria tutte le aperture – sbaglia giocata!
Nel caso dei computer scacchisti le variazioni non si contano. Una tra le più interessanti è quella de «Il gioco immortale» (1954) di Poul Anderson che racconta di un esperimento di Intelligenza Artificiale, consistente nel collegare tra di loro una serie di computer scacchisti in cui ciascuno controlla un singolo pezzo per vedere se l’insieme dia risultati maggiori che non il singolo apparecchio. Sembrerebbe di sì, visto che i cervelli artificiali riescono nientedimeno che a riprodurre, senza volerlo, le mosse di una partita talmente bella da essere stata soprannominata l’Immortale, giocata nel 1851 a Londra da Anderssen contro Kieseristky. In ambito ormai decisamente fantascientifico si possono collocare romanzi come i già citati «Pianeta Morphy» di Adrian Rogoz e «Scacchiera fra le stelle» ancora di Poul Anderson, che utilizzano in ambito scacchistico gli stilemi abbastanza diffusi del pianeta/computer o pianeta/essere senziente, che sono stati sfruttati anche da altri autori (come Stanislaw Lem in «Solaris» e John Varley nella trilogia di Gea): in entrambi i romanzi si prospetta l’esistenza di questi immensi cervelli elettronici, non dissimili per vastità a veri e propri pianeti, la cui passione principale è il gioco degli scacchi.
Il che ci riporta a quanto abbiamo detto più sopra: la possibilità che gli scacchi, gioco di pura astrazione (come pura astrazione è la musica di «Incontri ravvicinati del terzo tipo», che serve allo stesso scopo) possano essere il mezzo di comunicazione tra esseri diversi.
Sullo schermo
In campo cinematografico, anche e soprattutto non di genere, non si contano i film in cui compare una partita o una scacchiera, ma sono soprattutto elementi di contorno, scenografici o comunque inessenziali a fini della storia nel suo complesso (spesso vogliono solo mostrare l’abilità di un personaggio, ma restano confinati a quella scena). Le pellicole basate essenzialmente sugli scacchi sono pochissime: possiamo citare «La partita – La difesa di Luzhin» diretto da Marleen Gorris e tratto dal romanzo di Nabokov; «Scacco mortale» interpretato da Christopher Lambert; e «La tavola fiamminga» (noto anche come «Scacco matto», 1994), tratto dall’omonimo romanzo di Arturo Perez-Reverte (1990) che è forse il poliziesco meglio riuscito nel basare la sua soluzione sugli scacchi e che abbina le azioni dei protagonisti alle mosse di una partita, per la verità con meno successo di quanto fa Brunner ne «La scacchiera». E ovviamente la partita tra il Cavaliere e la Morte ne «Il settimo sigillo» di Bergman, la cui valenza allegorica non può sfuggire a nessuno.
Nel cinema di fantascienza è ormai un luogo comune quello di mostrare una partita a scacchi contro un computer, sia esso il passatempo forzato di un elicotterista in una base scientifica antartica (Macready/Kurt Russell ne «La Cosa» di John Carpenter) o sia un momento di fondamentale importanza per la comprensione della psicologia del sofisticato elaboratore HAL 9000 nel capolavoro di Stanley Kubrick «2001: Odissea nello spazio». Si tratta di due esempi celebri, in uno scenario che certamente ne comprende altri, emblematici dello stretto rapporto che intercorre fra il gioco degli scacchi e le macchine giocatrici nel panorama del fantastico.
Più significativa una curiosa citazione televisiva: si tratta del telefilm «Corte marziale», il quindicesimo episodio della serie «Star Trek», uno tra i più noti dell’intera serie di avventure dell’astronave Enterprise. Nell’episodio, il capitano Kirk è sottoposto alla corte marziale per aver causato la morte di un ufficiale a bordo di una navetta durante una tempesta galattica. Questo stando alla testimonianza visiva offerta dal computer di bordo e dalle sue registrazioni. In realtà, il computer è stato manomesso e riprogrammato per accusare Kirk dell’incidente. A scoprire il sabotaggio è il signor Spock, il logico vulcaniano, che, giocando a scacchi come è solito fare contro il computer che ha lui stesso programmato in tal senso, si avvede di riuscire a vincere con troppa facilità: questo è del tutto impossibile, come il primo ufficiale dimostrerà con logica inappellabile, poiché essendo lui stesso il programmatore (e per lo più vulcaniano con tutto quanto ne consegue) non gli sarebbe stato possibile ottenere altro che sconfitte o, al massimo, patte; ergo, il computer è stato alterato nei suoi programmi di base e quindi anche la registrazione incriminante è una contraffazione. Scacco matto.
Gli italiani
Gli scrittori di fantascienza italiani hanno da sempre avuto una particolare passione per l’ambiente scacchistico, che spesso hanno usato come tema o sottofondo per i loro racconti. Abbiamo citato abbondantemente Lino Aldani, scrittore che per la sua dedizione agli scacchi può essere considerato l’equivalente italiano di Leiber, al quale si deve anche la traduzione del romanzo di Rogoz già citato e almeno un altro racconto, il delicato «Spazio amaro» (1960), dove alcuni astronauti passano il tempo giocando in un bar dell’astroporto di Rotterdam (e utilizzano una apertura storica, la “Ruy Lopez”, classica ma da tempo inutilizzata).
Molto presenti anche Vittorio Catani e Eugenio Ragone, che in coppia o singolarmente hanno dedicato diversi racconti all’argomento. Fra quelli in coppia citiamo «Il grande gioco» (1988) in cui tre astronauti in una taverna spaziale (l’atmosfera è la stessa dell’appena citato racconto di Aldani) vengono sfidati da uno scacchista, con l’impegno però di far precedere ogni mossa da un racconto in tema, quindi un metaracconto che contiene sei diverse storie, visto che i malcapitati beccano quasi subito un matto affogato di cavallo. Quasi la stessa struttura in «Matto in cinque mosse» (1994), che descrive cinque diversi avvenimenti che accadono a un giocatore che tenta di scoprire una verità nascosta. Del solo Catani ricordiamo il satirico «U’Thor» (1995), mentre del solo Ragone, che è anche un Maestro di scacchi riconosciuto dalla Federazione, il romanzo breve «Teoria del grande gioco» (2006) a metà fra scacchi e Gȏ, dove l’inviato su un pianeta molto simile alla Terra tenta di scoprire le regole del Gioco che sembra impegnare costantemente gli indigeni. Maestro di scacchi è anche Mario Leoncini, al quale si deve il delicato «La scacchiera dei mondi» (1992), in cui un vecchio scacchista pensionato e solo, riprende a giocare con una misteriosa scacchiera giuntagli per posta, la quale si rivela un magico strumento di proiezione fisica in un mondo nuovo e vitale. A Leoncini si devono anche il debole «Lumi di Caissa» (1990) e il romanzo «I ribelli di Umaerth» (1991) in cui l’aggancio con il mondo scacchistico è dato solo da fatto che gli individui sono classificati all’interno della società del futuro con un sistema simile a quello usato nella realtà per i giocatori professionisti.
In «Autoscacco» (1984) Gian Filippo Pizzo racconta invece di una partita giocata fra un astronauta e il computer di bordo di una nave spaziale: la partita sarà talmente entusiasmante che il computer HAL 10000 ne sarà così assorto da non vedere un attacco improvviso da parte di un’astronave nemica. Lo scacco matto – stavolta subìto dal calcolatore (contrariamente agli altri scrittori, che attingono da famosi campioni, Pizzo ha qui utilizzato una partita realmente giocata da lui stesso in un torneo) – coincide con la raffica finale che distrugge l’astronave. Dello stesso autore c’è poi il brevissimo «Scacco galattico» in cui gli uomini, per sfidare una razza aliena, costruiscono un supercalcolatore sofisticatissimo, ma questo perde malamente contro un ragazzino che riesce a rifilargli il “matto del barbiere”. Raul Montanari ripropone l’idea della «Sfida» di Aldani in un racconto pieno di significati allegorici e denso di risvolti psicologici, «La vittoria segreta» (1997) dove a sfidarsi per una posta oscura sono nientedimeno che Dio e il Diavolo; a lui si deve un altro racconto, non fantascientifico ma anche più bello, «La sconfitta». E ancora significati metaforici troviamo in «Scacco al re» di Livio Horrakh (1978) in cui una coppia di astronauti – uomo e donna – per passare il tempo durante una lunga missione nello spazio prende a giocare a scacchi ma via via che il tempo passa il gioco si fa sempre più cupo come il loro umore e le partite sembrano giocate non tra di loro ma verso un avversario cosmico che alla fine darà scacco matto. Fra gli italiani ci sono ancora da citare almeno due scrittori, Daniele Ganapini e Roberto Gravina, che hanno collaborato per lungo tempo a riviste scacchistiche («Due Alfieri», «Eteroscacco» e altre) tenendo in ogni numero una rubrica contenente un racconto: troppi per poterli ricordare!
Conclusione
Naturalmente questo non può essere un panorama completo dell’argomento perché tanti altri fantascientisti hanno scritto di scacchi, da Arthur Clarke a Phillis Gotlieb («Maestro del meccano») a Ian M. Banks, ad altri narratori italiani. Lo stesso Robert Heinlein di cui abbiamo messo in epigrafe una frase, pur non avendo scritto nulla di imperniato sul gioco lo ha spesso citato nelle sue opere.
Resta comunque un problema: perché, come notavamo all’inizio, c’è questo rapporto così stretto fra scacchi e fantascienza? A nostro modesto parere c’è una similitudine fra queste due discipline, e cioè il fatto che ci si possa muovere con ampia libertà all’interno di entrambe, ma dovendo sottostare a regole precise. Negli scacchi è la limitatezza della scacchiera e l’obbligo di spostare i pezzi secondo le loro caratteristiche; nella Sf sono i concetti di estrapolazione dal reale e di verosimiglianza scientifica. Ma in entrambi i casi le soluzioni possono essere indeterminabili. Lo stesso avviene solo in un’altra disciplina, la musica, nella quale si possono avere infinite melodie ma bisogna sempre partire dal fatto che le note sono sette, o dodici.
E qui sta il fascino degli scacchi e della fantascienza.
L’IMMAGINE è di Jacek Yerka – nome d’arte di Jacek Kowalski – che qui in “bottega” amiamo molto (db).
Bella carrellata di storie scacchistiche. Aggiungerei il romanzo di Dan Simmons Danza macabra, in cui un ufficiale nazista gioca a scacchi usando come pedine i prigionieri del campo di concentramento (che muove con la mente) e quarant’anni dopo giocherà una partita simile, nella quale la posta in gioco è il mondo intero. Un’idea simile a quella del racconto di Vonnegut citato, ma con la variante dei poteri psichici di alcuni personaggi.
Ce ne sarebbero state tante altre di storie, si potrebbe fare un intero libro!
C’è un altro elemento del quale tenere conto: l’intelletto. Fantascienza e scacchi possono ambedue Essere letti come giochi intellettuali, attività umana fondata sul calcolo e sui simbolismi, sperimentazione di interminabili possibilità combinatorie.
Mi pare di averlo scritto, nella conclusione.
Complimenti, un articolo davvero splendido!
La sintesi perfetta sulla qualità ipnotica, dispotica degli scacchi si trova nella storia di quel monaco, ritenuto santo per i suoi lunghi esercizi di devozione, che in punto di morte confessò che tutte quelle ore le aveva passate a studiare il gioco… Non ricordo dove l’ho letta, ma è inarrivabile. Dagli scacchi bisogna difendersi.
Un caro saluto e complimenti ancora
Raul Montanari