Il sionismo e le sue vittime ebree
Bruno Lai rilegge il testo di Ella Shohat Le vittime ebree del sionismo
Il sionismo e le sue vittime ebree
«Ho cominciato a lavorare sulla questione degli ebrei orientali stabiliti in Israele – afferma Ella Shohat intervistata da Cinzia Nachira e Nicola Perugini – perché volevo inserire nel dibattito su Israele e Palestina le modalità usate dai sionisti per imporre il silenzio sia nei riguardi dei palestinesi sia, come corollario, nei riguardi degli ebrei orientali».
Ho preso la frase di Ella Shohat dal suo libro Le vittime ebree del sionismo, Introduzione di Vera Pegna, a cura di Cinzia Nachira, Edizioni Q, 2015. Pubblicato ormai dieci anni fa, a mio parere questo libro conserva la sua importanza perché mette in luce aspetti forse meno noti della storia del sionismo e di Israele.
Siamo abituati a pensare che le principali vittime innocenti della creazione dello Stato di Israele in Palestina, senza la consultazione né il consenso dei palestinesi, siano stati appunto gli abitanti di quella terra, i palestinesi. Edward Said aveva definito i palestinesi «vittime delle vittime».
È così, ma ci sono altre vittime del sionismo, anche sorprendenti: gli ebrei “orientali”, o “ebrei arabi”, i “sefarditi”, che sono stati sfruttati, impiegati sistematicamente nei lavori più faticosi e meno remunerati, mandati a vivere nelle aree più pericolose di Israele, spesso nelle case di palestinesi appena sloggiati con la violenza.
L’autrice, Ella Shohat, è una studiosa di Studi Culturali, professoressa alla New York University, che ha approfondito soprattutto il postcolonialismo, il multiculturalismo e le tematiche di genere. Di genitori iracheni, ma nata in Israele nel 1959, si definisce una “ebrea araba”. Ha scritto e tenuto conferenze sull’eurocentrismo, l’orientalismo e le culture diasporiche, in particolare approfondendo la condizione degli “ebrei Mizrahi” (ebrei arabi) in Israele.
Il saggio I sefarditi in Israele: il sionismo dal punto di vista delle sue vittime ebree, offerto al pubblico italiano in questo libro, risale al 1988. In esso l’Autrice racconta «del furto colonialista della storia costituito dalla rappresentazione, endemica nel sionismo, degli ebrei orientali come culturalmente inferiori». La storiografia sionista, che l’Autrice contesta, travisa l’immigrazione in Israele di comunità ebraiche mediorientali, «considerandola come la fine di una lunga storia di antisemitismo e come impegno ideologico e devozione religiosa». In realtà, la vicenda è più complessa e include interessi economici «che spinsero i sionisti a trasferire i sefarditi in Israele/Palestina, nonché gli incentivi finanziari concessi ad alcuni regimi arabi per agevolare la loro partenza». Inoltre, punto non meno importante: «la questione arabo-ebraica è l’altra faccia del ‘Giano bifronte’ costituito dalla questione palestinese».
Ancora dall’intervista a Ella Shohat: «Quando ho scritto il mio saggio Il sionismo dal punto di vista delle sue vittime ebree speravo di aggiungere una nuova dimensione alla discussione. Il titolo del mio saggio alludeva al titolo di un altro saggio, Il sionismo dal punto di vista delle sue vittime, scritto dal mio amico Edward Said». Citando Said, Ella Shohat intende fare riferimento a tutto un insieme di studiosi anticolonialisti, che in Israele sono stati tradotti con notevole ritardo. «L’assenza di traduzioni di testi di base anticoloniali indica la reticenza ad elaborare una teoria della dimensione coloniale del sionismo». Ancora: «In contrasto con altre situazioni, gli intellettuali israeliani non si sono misurati con i testi anti-coloniali di Césaire, Fanon e Cabral – che per decenni sono rimasti inediti in ebraico – neppure quando i maggiori dibattiti sull’anticolonialismo erano al loro apice». Gli autori che sono stati tradotti in ebraico con grave ritardo sono William Edward Burghardt Du Bois, Cyril Lionel Robert James, Amílcar Cabral, Aimé Césaire, Léopold Sédar Senghor, Maxime Rodinson, Frantz Omar Fanon ed Albert Memmi, oltre al già citato Edward Wadie Said. Di questi importanti autori, la curatrice Cinzia Nachira fornisce in nota alcune interessanti schede di presentazione.
Di modeste dimensioni, il libro è ricco di contenuti.
È introdotto da un lungo e denso scritto di Vera Pegna, intitolato Ricordi di una vita felice in Egitto, prima di Israele.
[Questo saggio mi è particolarmente caro perché ho avuto modo di ascoltare Vera Pegna qui in Sardegna, a Sestu, dove ha vissuto una parte della sua vita militante.]
Il libro è arricchito da un’interessantissima intervista a Ella Shohat curata da Cinzia Nachira e Nicola Perugini.
Nel suo saggio, Ella Shohat affronta temi che la sua famiglia di origine ha vissuto sulla propria carne ed analizza il ruolo e la funzione della componente ebraico-araba nella costruzione della società israeliana.
Al di là della propaganda sionista, l’obiettivo dell’istituzione dello Stato di Israele era, in realtà, quello di creare uno Stato omogeneo, annullando le diverse appartenenze geografiche e culturali degli ebrei arrivati da varie parti del mondo. La cruda ricostruzione dell’arrivo degli ebrei arabi in Israele fa emergere come questi siano stati “vittime” del processo di omologazione sionista, subendo una sorta di “orientalismo interno” e discriminazione rispetto agli ebrei ashkenaziti (di origine europea).
Non sono stati soltanto i palestinesi a subire un «furto della storia», un “memoricidio”: le classi dominanti israeliane, costituite da euro-israeliani, hanno sistematicamente cancellato la cultura degli ebrei arabi.
Scrive Ella Shohat: «Il sionismo si presenta come un movimento di liberazione di tutti gli ebrei e gli ideologi sionisti si sono sforzati al massimo per rendere sinonimi i due termini, ‘ebreo’ e ‘sionista’. In realtà, il sionismo è stato in primo luogo un movimento di liberazione […] per gli ebrei europei e più precisamente per l’esigua minoranza degli ebrei europei oggi stabiliti in Israele. Benché il sionismo pretenda di offrire una patria a tutti gli ebrei, le porte di questa patria non sono state aperte a tutti con la stessa generosità. […] gli ebrei orientali sono stati indotti a trasferirsi in Israele. Ma una volta sul posto sono stati vittime di una sistematica politica discriminatoria da parte del potere sionista».
«Gli arabi di religione ebraica e quelli di religione musulmana – sottolinea Vera Pegna nella sua Introduzione, – erano partecipi di un’unica cultura».
La doppia menzogna sionista sintetizzata nel noto slogan «Una terra senza popolo per un popolo senza terra» è smentita da diversi fatti, secondo Ella Shohat. La “creazione” di Israele è stata la realizzazione di un “progetto anomalo” «in cui lo Stato ha creato la nazione – non solo nel senso metaforico della sua invenzione, ma anche nel senso proprio, organizzando dei trasferimenti di popolazioni provenienti da tutto il mondo. E per assicurare la riuscita di tale impresa gli ebrei dovevano essere percepiti in modo nuovo, in modo da collocare i palestinesi e gli ebrei sionisti europei ai poli opposti dello scontro di civiltà». Per l’ideologia sionista gli ebrei arabi costituivano una contraddizione della loro illusione di un popolo ebraico omogeneo e superiore, contrapposto all’inferiorità degli arabi: gli ebrei arabi erano tanto ebrei quando arabi. Da qui l’intenzione di de-arabizzarli, dopo il loro arrivo in Palestina/Israele.

Arabi ed ebrei insieme in un mercato di Tiberiade (data sconosciuta). Naftali Oppenheim Collection “Bitmuna”. da Invicta Palestina
Eppure gli ebrei arabi non stavano affatto male prima di immigrare in Israele: «in realtà e tutto sommato, i sefarditi vivevano senza difficoltà maggiori nella società arabo-musulmana». [Il termine “sefardita” indicava in origine l’ebreo di Spagna, “Sefarad” in ebraico. Dopo l’espulsione dalla Spagna, nel XV secolo, i sefarditi si diffusero in Europa, in Africa e nei territori dell’Impero Ottomano. Oggi vengono chiamati “sefarditi” ebrei orientali ed ebrei arabi. Gli stessi, in Israele, da metà del secolo scorso sono definiti “mizrahim”.] Le comunità ebraiche irachene «avevano totalmente arabizzato le loro tradizioni e usavano l’arabo perfino nei loro inni e nelle loro cerimonie religiose». «I sefarditi stabiliti in Medio Oriente e in Africa del Nord da millenni (spesso prima della conquista araba) semplicemente non desideravano trasferirsi in Palestina». Mancava loro un movente fondamentale, che Vera Pegna sottolinea con forza: «Gli arabi di religione ebraica non conobbero persecuzioni, ghetti o pogrom», come dimostra anche l’assenza di una parola araba che esprima tali concetti. Inoltre, prosegue Vera Pegna: «La cultura degli arabi di religione ebraica era certamente più affine a quella dei musulmani che non a quella degli europei ashkenaziti ed è, appunto, tale affinità che ha rappresentato e rappresenta tutt’oggi una minaccia al concetto sionista di una nazione ebraica omogenea e, naturalmente, di impronta occidentale».
Addirittura, ricorda Ella Shohat, nei Paesi arabi i sefarditi avevano raggiunto un peso politico superiore a quello concesso loro in Israele. «In Egitto, in Siria, in Libano, in Iraq e in Tunisia, alcuni ebrei sono stati eletti in parlamento e nei consigli municipali, nominati in ambito giudiziario e hanno occupato anche delle cariche in campo economico. In Egitto, negli anni ’40, il ministero delle finanze fu affidato a Ishak Sasson e in Iraq la stessa carica era coperta da Jamas Sanua – funzioni che, paradossalmente, erano ben più elevate di quelle cui hanno potuto aspirare i sefarditi nello Stato ebraico».

Un immigrato bulgaro chiacchiera con un arabo a Jaffa, 1949. Zoltan Kluger-GPO, da Invicta Palestina
I sionisti avevano fortissimi interessi economici a far arrivare in Palestina/Israele i sefarditi. E, per indurre gli ebrei arabi a trasferirsi in Israele, ricorsero ad una strategia che essi stessi denominarono “sionismo crudele”: «ricorrere alla violenza per sradicare gli ebrei dal loro ‘Esilio’».
Ne è un esempio l’attentato che i servizi segreti israeliani realizzarono nel 1951 in Iraq. Lo scopo era di seminare terrore tra gli ebrei iracheni per farli emigrare verso Israele. «Il gennaio 1951 un ordigno esplose nel cortile della sinagoga Mas’oudah Shemtov di Bagdad, mentre centinaia di fedeli vi si trovavano riuniti. L’attentato provocò quattro morti, tra cui un ragazzo di 12 anni, e una ventina di feriti». Nella sua lunga e densa Introduzione, Vera Pegna ricorda alcuni altri attentati terroristici organizzati dai servizi segreti israeliani ai danni di ebrei arabi, con lo scopo di terrorizzarli e indurli a rifugiarsi in Israele, la “patria di tutti gli ebrei”.
I sionisti ricorsero al “sionismo crudele” soprattutto quando si esaurì il flusso di immigrazione degli ebrei europei in Palestina, prima ancora della nascita di Israele. Anche Vera Pegna ricorda che «le comunità di arabi di religione ebraica vivevano in armonia con le popolazioni musulmane locali. Tuttavia, con l’inizio dell’impresa sionista la convivenza tra ebrei e musulmani si incrinò. […] La situazione andò peggiorando nel 1946 e 1947 quando i terroristi delle bande Irgun e Stern si lanciarono in un’orgia di assassini, di catture di ostaggi, di rapine a diverse banche e di altri crimini in Palestina; uccisero il mediatore ONU Folke Bernadotte che denunciava i loro soprusi, fecero saltare in aria l’albergo King David il 22 luglio 1946 e, un mese prima della proclamazione dello stato di Israele, compirono il massacro di Deir Yassin, due atrocità documentate dall’allora capo dell’Irgun Menachem Begin, che sarebbe diventato primo ministro nel 1977. La proclamazione dello Stato di Israele, preceduta dalle attività sovversive delle bande sioniste in Palestina, segnò l’inizio della tragedia degli ebrei orientali che divennero le involontarie pedine di un conflitto che non li riguardava. In Egitto, come in Iraq, nello Yemen come in altri Paesi arabi arrivarono agenti segreti israeliani con il compito di convincere, con le buone o con le cattive, le comunità ebraiche a trasferirsi in Israele».
Che cosa significhi «con le buone o con le cattive», lo spiega sempre Vera Pegna raccontando fatti documentati. Siamo nel luglio 1954, in Egitto. Gli agenti sionisti hanno già provato a convincere gli ebrei egiziani a trasferirsi in Israele, ma questi si trovavano bene in Egitto e non apparivano entusiasti all’idea emigrare. Allora gli agenti del Mossad passarono alle “maniere forti”. Uno di loro, Philip Natanson, venne catturato perché gli esplose in tasca una bomba che intendeva usare per un attentato al cinema Rio, frequentato da molti ebrei. Il governo israeliano intendeva spaventare la comunità israelitica egiziana, facendo cadere però la responsabilità sugli egiziani.
Anche in Iraq i sionisti organizzarono attentati contro gli ebrei iracheni per indurli a sentirsi in pericolo ed a trasferirsi in Israele.
Giunti in Israele, però, gli ebrei arabi non vennero affatto accolti bene. Ella Shohat è categorica: «Lo stesso processo storico che aveva portato alla spoliazione dei palestinesi dei loro beni, delle loro terre e dei loro diritti civili, era connesso a quello che privava i sefarditi dei loro beni, delle loro terre e delle loro radici nei Paesi arabi (e, giunti in Israele, della loro storia e della loro cultura)».
Quanto sia stato traumatico il trasferimento di molti “arabi di religione ebraica”, come preferisce denominarli Vera Pegna, lo descrive l’attivista e scrittrice italiana riportando un brano dello studioso Naim Giladi, ebreo iracheno che, come Ella Shohat, ha poi lasciato Israele. Giladi descrive l’arrivo in Israele di circa venti giovani coppie ebree irachene:
«La partenza era stata fissata per il 14 maggio 1950. Quel giorno, avevamo indossato i nostri abiti più belli, di foggia europea, e le donne del gruppo si erano addobbate per festeggiare l’evento. Ma, una volta sbarcati dall’aereo, ecco lo stupore e l’umiliazione: vedemmo arrivare due grosse braccia che portavano una pompa enorme montata su ruote. Si avvicinarono rapidamente e, prima che potessimo reagire, ci alzarono le vesti e cominciarono a cospargerci di una sostanza polverosa… Le donne incinte furono colte da vomiti violenti… Ne seguì un parapiglia furioso e un impiegato dell’Agenzia ebraica disse: ma che cosa vi prende, perché vi arrabbiate? Venite da un Paese arretrato e pieno di epidemie!.. Il DDT fu la prima bruciatura e la prima umiliazione inflittaci dalla nostra patria».
Oltre che con il DDT, gli ebrei iracheni venivano accolti con innumerevoli menzogne. Veniva loro assicurato che sarebbero stati mandati a vivere in luoghi vicini, invece spesso, «dopo ore di viaggio nel deserto senza cibo e senza acqua, [arrivavano] in un sito dove c’erano solo tende». Vera Pegna cita di nuovo il racconto di Naim Giladi:
«Rifiutammo di scendere… l’autista allora fece ribaltare il fondo del camion… e cascammo tutti uno sopra l’altro su letti e bagagli, con le donne incinte, i bambini e i vecchi…».
Anche gli ebrei marocchini erano stati accolti nello stesso modo, come testimonia Mordecai Soussan. Si trattava proprio di una tecnica di accoglienza deliberata. Vera Pegna cita infatti Simone Bitton, inviata di “Le Monde Diplomatique”:
«Il deputato laburista Lioba Eliav, nota personalità nel “campo della pace” aveva inventato da giovane una tecnica di colonizzazione molto ingegnosa: migliaia di immigrati marocchini recalcitranti venivano convogliati in camion attrezzati con una piattaforma ribaltabile azionata da una leva e rovesciati sulla sabbia e sulla terra rocciosa in luoghi desertici dove il governo aveva deciso di far loro costruire città e villaggi».
Erano soltanto gli “ebrei orientali” ad essere lasciati senza alloggi: quelli europei, appena arrivati, si vedevano offrire appartamenti in città.
«Al contrario degli immigrati ashkenaziti, i sefarditi subivano un trattamento disumano nei campi di transito che i sionisti avevano costruito per loro nei Paesi d’origine e durante il loro trasferimento». [Il termine “ashkenazita” in origine indicava le comunità ebraiche medioevali della valle del Reno, “Ashkenaz” in ebraico. Ella Shohat utilizza tale termine per indicare gli ebrei europei di lingua Yiddish, nonché altre comunità ebraiche diffuse in Nord America ed in altre parti del mondo.] Le cattive condizioni di alloggio e la malnutrizione a cui erano sottoposti i sefarditi provocarono la morte di molti bambini. «Quando le informazioni sulla discriminazione dei sefarditi in Israele raggiunsero il Nord Africa, l’emigrazione da quest’area rallentò. Alcuni candidati alla partenza abbandonarono i campi di transito per tornare in Marocco, mentre altri, come riconobbe un emissario dell’agenzia ebraica, dovettero praticamente “essere imbarcati con la forza a bordo delle navi”. In Yemen, la difficile traversata del deserto, peggiorata dalle insopportabili condizioni di vita nei campi di transito sionisti, provocarono fame, malattie e una vera e propria ecatombe: una forma brutale di ‘selezione naturale’. Itzhak Refael (membro del Partito nazionale religioso) si affrettò a rassicurare i suoi colleghi dell’Agenzia ebraica che temevano che gli yemeniti malati fossero un fardello:
“
Non c’è motivo di temere l’arrivo in gran numero di malati cronici perché avranno bisogno di marciare per circa due settimane. Quelli ammalati più gravemente non saranno in grado di camminare”».
Il sostanziale disprezzo che gli ashkenaziti provavano nei confronti degli ebrei orientali è confermato dallo squallido episodio dei ‘rapimenti di bambini yemeniti’. «Traumatizzati dal rigore della vita in Israele, alcuni sefarditi, in gran parte yemeniti, caddero nella trappola di alcuni medici, infermieri e assistenti sociali senza scrupoli che rapirono diverse migliaia di bambini per farli adottare da famiglie ashkenazite (a volte fuori da Israele, soprattutto negli Stati Uniti), dicendo ai genitori che i loro bambini erano morti.
Questa enorme cospirazione era stata perfettamente pianificata: furono redatti dei falsi certificati di morte con i nomi dei bambini adottati e, per diversi decenni, alcune agenzie governative si dettero da fare per mettere a tacere le richieste di inchieste di genitori sefarditi ed anche per censurare le informazioni relative a queste inchieste».
A proposito di questo gravissimo e tragico episodio, Vera Pegna riporta alcune valutazioni di «Reuben Abarjel, attivista israeliano di origine marocchina:
“In tutti i casi, nessuna istituzione governativa araba ha mai esercitato sulla popolazione mizrahi una violenza simile a quella del regime sionista askenazita: che ne ha rapito e venduto i bambini per darli in adozione; che ne ha reso sterili le donne senza consenso informato perché considerate incapaci di migliorare il ‘parco geni’ del ‘genio ebraico’; che ne ha sottoposto i figli ai raggi X, con l’appoggio degli Stati Uniti, in trattamenti sanitari fittizi; che ne ha distrutto la struttura familiare estesa; che li ha resi poveri negandogli una buona educazione e, quindi, l’accesso a impieghi redditizi”». (Dal libro AA.VV., Ebrei arabi: terzo incomodo?, a cura di Susanna Sinigaglia, Zambon Editore, 2012).
Giunti in Israele, gli ebrei orientali hanno subito ulteriori discriminazioni etniche. Le comunità sono state separate e disperse, a volte perfino le famiglie. Spesso i sefarditi sono stati inviati in villaggi di frontiera, da cui erano stati appena sfollati gli abitanti palestinesi, al fine esplicito di «rafforzare le frontiere»: così le famiglie sefardite appena giunte in Israele finivano spesso sotto attacco da parte dei palestinesi. Rarissimamente nei villaggi di frontiera, più “pericolosi”, venivano mandate famiglie ashkenazite. Anche nel caso delle colonie agricole, ai sefarditi erano destinate quelle meno fertili.
«Alcuni documenti, resi pubblici alla fine degli anni ’80, hanno rivelato che queste discriminazioni rispondevano a scelte politiche e alla volontà di privilegiare gli immigrati europei, cosa che ha dato origine ad alcune anomalie: i sefarditi istruiti divennero lavoratori non qualificati, mentre gli ashkenaziti, molto meno competenti, ebbero accesso ad alte funzioni amministrative. In Israele il modello classico dell’immigrazione, associato a un desiderio di miglioramento individuale, famigliare e comunitario, è stato totalmente capovolto per gli ebrei orientali. Ciò che per gli immigrati ashkenaziti della Russia o della Polonia è stata una vera e propria aliya (letteralmente ‘ascesa’), per gli ebrei dell’Iraq o dell’Egitto è stata una yerida (una ‘discesa’). Ciò che per le minoranze ashkenazite perseguitate costituiva senza dubbio una liberazione e il recupero di una cultura, per i sefarditi ha rappresentato l’annientamento totale del loro patrimonio culturale, la perdita di identità e il declino sociale ed economico».
Il motivo principale, per cui i sionisti volevano incentivare l’immigrazione di ebrei arabi in Israele, ricorda Ella Shohat, era che per i sionisti i sefarditi erano manodopera a buon mercato, con cui sostituire i contadini “arabi”, ossia palestinesi. «La struttura economica che opprime gli ebrei orientali in Israele è stata messa in atto fin dall’inizio dello Yishuv (la colonizzazione sionista in Palestina prima della creazione dello Stato ebraico) Tra i principi fondanti del sionismo socialista dominante vi era la doppia nozione di avoda ivrit (lavoro ebraico) e di avoda atzmite (lavoro indipendente), che imponeva ad ogni individuo e ad ogni comunità di guadagnarsi il pane con il proprio lavoro e non grazie a quello altrui. […] La strategia dell’avoda ivrit ebbe tuttavia delle conseguenze tragiche e causò tensioni politiche non solo tra ebrei e arabi, ma anche tra gli ashkenaziti e i sefarditi, nonché tra questi e i palestinesi». Questi problemi tra ebrei ashkenaziti e sefarditi, ovvero tra ebrei europei ed ebrei arabi, anticiparono la stessa nascita di Israele e risalgono alla precedente colonizzazione ebraica della Palestina. Se all’inizio il ‘lavoro ebraico’ consistette nel mettersi in concorrenza con i palestinesi, tentando di sostituirsi a loro presso datori di lavoro ebrei già presenti in Palestina, fu cioè un «boicottaggio del lavoro arabo», la svolta peggiore si ebbe quando ebrei poveri russi, ashkenaziti, preferirono trasferirsi in America piuttosto che in Palestina. «Solo dopo il fallimento dell’immigrazione askenazita le istituzioni sioniste decisero di far arrivare gli ebrei arabi». L’intenzione dell’Ufficio di Eretz Yisrael era esplicito: «fare immigrare i sefarditi per “sostituire” i contadini arabi», «reclutare ‘ebrei che servissero da arabi’», ovvero che fossero disposti, o obbligati, a lavorare in condizioni pesanti e per paghe misere.

Manifestazione di Pantere Nere Israeliane (HaPanterim HaShhorim): da Pagine esteri, aprile 2021
Che si trattasse di un interesse meramente economico lo rivelano le «lettere di Shmuel Yavni’eli, emissario in Yemen, quando spiega chiaramente che il suo obiettivo è solo quello di scegliere come candidati all’immigrazione unicamente “persone giovani e in buona salute”». Una volta giunti in Palestina, gli ebrei arabi, selezionati anche su basi vicine all’eugenetica, «furono assunti in gran parte come lavoratori giornalieri nelle piantagioni agricole, in condizioni estremamente dure», a cui non erano abituati. «La malnutrizione e le deplorevoli condizioni sanitarie causarono epidemie che provocarono numerose vittime, soprattutto tra i bambini in tenera età. L’associazione sionista dei datori di lavoro, i proprietari terrieri ashkenaziti e i loro capisquadra trattavano gli ebrei yemeniti con brutalità, fino ad arrivare ad abusare delle donne e dei bambini che lavoravano oltre dieci ore al giorno. Agli inizi del sionismo, alla divisione etnica del lavoro si aggiungeva una ripartizione dei compiti tra uomini e donne». Lo spiega bene Ya’cov Tehon, dell’Ufficio di Eretz Yisrael, riferendosi alle donne ebree yemenite: «Impiegare come domestiche donne e ragazze [sefardite] per sostituire le donne arabe attualmente pagate molto in quasi tutte le famiglie dei coloni».
Coerentemente con il carattere coloniale dell’impresa sionista, lo sfruttamento economico e politico degli ebrei arabi era accompagnato da sentimenti razzistici di superiorità da parte degli ebrei europei. E la povertà dei sefarditi, che spesso non erano poveri prima di immigrare in Palestina/Israele, era frutto di precise scelte economiche, come quella di «escludere gli yemeniti dai programmi di acquisto delle terre e di adesione alle cooperative, relegandoli al livello di lavoratori salariati».
«Questi problemi che covavano sotto la cenere già prima della fondazione dello Stato ebraico, esplosero in seguito sebbene furono illustrati con una serie di razionalizzazioni e idealizzazioni più sofisticate. Lo stupefacente sviluppo economico di Israele negli anni ’50 e ’60 si è realizzato grazie ad una ripartizione dei profitti sistematicamente diseguale. La struttura socio-economica quindi è stata costruita in contrasto con l’immagine egualitaria che Israele ha cercato di darsi fino agli anni ’70. Le misure discriminatorie verso gli ebrei orientali sono entrate in vigore anche prima che questi arrivassero in Israele ed erano deliberatamente motivate con l’argomento che gli ashkenaziti, autoproclamatisi ‘sale della terra’, meritassero condizioni migliori e ‘privilegi speciali’».
Secondo Ella Shohat, in Israele gli ebrei europei, pur essendo in minoranza, costituiscono una élite dominante che opprime sia i palestinesi (circa il 20% della popolazione israeliana), sia gli ebrei orientali o sefarditi (circa il 50%), provenienti da varie parti del mondo (Marocco, Algeria, Egitto, Iraq, Iran, India).
Studiosa di colonialismo ed anticolonialismo, Ella Shohat dichiara il suo debito nei confronti di alcuni giganti del settore: Frantz Fanon, Aimé Césaire e, soprattutto, Edward Said.
«Il colonialismo si caratterizza essenzialmente per la distorsione, fino alla negazione, della storia del colonizzato». E questo, secondo Shohat, vale sia per i palestinesi, sia per gli ebrei arabi, i sefarditi. Nella distorsione che ne fa la storiografia sionista, «Il punto di partenza della storia moderna degli ebrei orientali corrisponderebbe, quindi, all’inizio delle operazioni ‘tappeto volante’ e ‘Ali Baba’ (la prima si riferisce alla ‘importazione’ in Israele degli ebrei dello Yemen, nel 1949 e nel 1950, la seconda a quella degli ebrei dell’Iraq, nel 1950 e nel 1951)». La loro storia precedente è cancellata sistematicamente.
Agli ebrei arabi, una volta arrivati in Israele fu imposto l’yiddish, idioma tipico degli ebrei europei ashkenaziti: «“coloro che non parlano yiddish non sono ebrei”, tagliò corto un giorno Golda Meir». Subito dopo Ella Shohat aggiunge: «Per un capriccio della storia, l’yiddish rappresenta ormai per i sefarditi la lingua dell’oppressore».
La discriminazione nei confronti degli ebrei arabi risale a prima della nascita di Israele e prosegue nei primi decenni, quando il nuovo Stato era governato da partiti che si proclamavano socialisti. «Le grandi istituzioni, in particolare l’élite sionista ‘socialista’, hanno di fatto condannato i sefarditi al sottosviluppo». I governi di destra proseguirono con le medesime politiche discriminatorie.
E la situazione non è migliore per le nuove generazioni (Ella Shohat scriveva nel 1988): «Il sistema educativo israeliano, altrettanto segregante e ineguale, riproduce la divisione etnica del lavoro attraverso un sistema di orientamento che sistematicamente prepara gli allievi ashkenaziti a coprire prestigiosi ruoli di direzione esigendo una solida formazione universitaria, mentre gli allievi sefarditi sono spinti verso il basso e destinati al lavoro in fabbrica. […] Le scuole dei quartieri ashkenaziti hanno strutture migliori, professori più preparati e godono di buona reputazione. Gli ashkenaziti fanno in media tre anni in più di studio rispetto ai sefarditi».
«La ‘modernità’ askenazita è stata possibile solo grazie alla manodopera fornita dall’immigrazione in massa degli ebrei orientali».
I sionisti hanno sempre concepito Israele come uno Stato europeo in Medio Oriente. Ben Gurion lo pensava come una “Svizzera del Medio Oriente”, e lo stesso Theodor Herzl «preconizzava un mini-Stato capitalistico e democratico di tipo occidentale». «Paradossalmente solo in Medio Oriente gli Ost-Juden, sistematicamente marginalizzati in Europa, hanno potuto realizzare il loro sogno di diventare europei, ma hanno potuto raggiungere il loro obiettivo solo emarginando a loro volta i propri Ost-Juden, ossia gli ebrei orientali». [Ost-Juden, o “ebreo dell’Europa orientale”, era l’espressione dispregiativa con cui i razzisti tedeschi denominavano gli ebrei.]
«Il particolarismo culturale sefardita era un elemento di disturbo soprattutto per quel sionismo laico che pretendeva di rappresentare un unico popolo ebraico in cui prevalessero una tradizione religiosa e una nazionalità comuni. Gli stretti legami culturali e storici dei sefarditi con il mondo arabo e musulmano – rapporti ben più stretti di quelli che avevano con gli ashkenaziti – compromettevano la costruzione di una nazione omogenea paragonabile a quelle che avevano ispirato i movimenti nazionalisti europei».
«In Israele, i sefarditi sono stati indotti a rifiutare la propria pelle olivastra, la propria lingua gutturale, i quarti di tono della loro musica ed anche le loro tradizioni di ospitalità».
«Gli ebrei non europei hanno ‘imparato’ a odiare la loro condizione di orientali dagli ashkenaziti che, a loro volta, l’hanno appresa tra gli europei».
Sfruttati e sottomessi entrambi dai sionisti, palestinesi ed ebrei arabi hanno destini simili: «La segregazione fra i due gruppi fa sì che l’immagine che i sefarditi e i palestinesi hanno gli uni degli altri – essendo pochi i contatti tra i due gruppi – è quella trasmessa dai media controllati dagli ashkenaziti; per cui i sefarditi hanno imparato a percepire i palestinesi come ‘terroristi’, mentre i palestinesi imparano a considerarli dei ‘fanatici kahanisti’» [estremisti politici religiosi di destra].
Oppressi e discriminati, «i sefarditi non hanno mai smesso di ribellarsi e di resistere». Numerosi sono gli episodi di ribellione sefardita che costellano la storia di Israele.
In sintesi, secondo Ella Shohat «L’attuale regime israeliano ha ereditato dall’Europa una profonda avversione per il rispetto del diritto all’autodeterminazione dei popoli non europei».
Il sionismo si presenta come movimento di liberazione di tutti gli ebrei ed Israele come “patria” di tutti gli ebrei. Ma sono stati numerosi i rabbini ed i movimenti ebraici che si sono dichiarati contrari al sionismo, prima e dopo la nascita di Israele. Vera Pegna riporta le parole di Moshe Menuhin, rabbino e padre del grande violinista Yehudi. Moshe Menuhin interpreta il sionismo come una decadenza del giudaismo:
«I barbari tribali come Ben Gurion, Moshe Dayan e l’intera banda militare che ha traviato Israele hanno trasformato l’Agenzia ebraica e le organizzazioni sionistiche nel mondo intero in organi del governo di Israele con la stessa ideologia razziale degli antisemiti. Ho il cuore spezzato dalle prove di decadenza continua del giudaismo attuale» (Moshe Menuhin scriveva nel 1965).
Citando la comunità di cui fa parte anche la sua famiglia di origine, Ella Shohat aggiunge: «Gli ebrei iracheni […] sono stati costretti ad abbandonare tutto e a rinunciare alla cittadinanza irachena. […] Il concetto pervasivo degli ebrei come ‘un unico popolo’ riunito nell’antica patria ha volutamente delegittimato qualsiasi memoria affettiva della vita delle comunità ebraiche nel mondo arabo, antecedente alla creazione dello Stato di Israele. La nostra creatività culturale in ebraico, aramaico, arabo, farsi, ladino e turco non era favorita nelle scuole di Israele e quindi dovevamo sempre confrontarci con una narrazione storica distorta che cancellava le realtà effettive e il ricordo collettivo delle nostre vite».
I sionisti hanno rappresentato il trasferimento, spesso forzato nel caso di arabi di religione ebraica e sefarditi, di popolazioni in Palestina/Israele come un ritorno «nell’antica patria, Eretz Yisrael». «L’idea del ritorno ebraico, che dopo la creazione di Israele è stato tradotto in linguaggio giuridico, garantendo a tutti gli ebrei immediato accesso alla cittadinanza israeliana, si è intrecciata con la raffigurazione della Palestina come una ‘terra vuota’». Qui Ella Shohat si riferisce alla «legge israeliana del ‘ritorno’», che il parlamento del giovanissimo Stato israeliano emanò nel 1950. «Questa legge garantisce la cittadinanza israeliana a tutti coloro che sono di ascendenza ebraica e pone due condizioni a chi ne vuole usufruire: vivere in Israele e fare il servizio militare (per i maschi tre anni e per le femmine due)» [N.d.t.]. Il che significa, aggiungo io, essere disposto a farsi mandare a commettere crimini, come spesso fa l’IDF, l’esercito di occupazione israeliano, fin dalla sua nascita. Va sottolineato – sono ancora considerazioni mie – che nell’IDF confluirono organizzazioni sioniste terroristiche come l’Irgun e la Banda Stern, e che almeno due ex terroristi provenienti da queste organizzazioni paramilitari sono poi diventati primi ministri di Israele (Menachem Begin, dell’Irgun, e Yitzhak Shamir, della Banda Stern). Se Israele riconosce un presunto “diritto al ritorno” a persone di religione ebraica nate in diverse regioni del mondo e che con la Palestina non hanno mai avuto a che fare, nega lo stesso diritto ai palestinesi che ne furono cacciati con la violenza in occasione della Nakba (1948) o della guerra dei sei giorni (1967). Israele – sono ancora considerazioni mie – non ha mai riconosciuto la Risoluzione n. 194/1948 dell’ONU, che attribuisce tale diritto al ritorno ai palestinesi cacciati dalla loro terra ed ai loro discendenti.
«Il sistema educativo ha continuato a produrre tra gli ebrei orientali il rifiuto di sé. Il trauma dell’esilio dalla civiltà musulmana è stato accompagnato da un’estraniazione dal proprio corpo. I principali media israeliani hanno diffuso l’estetica dominante ereditata dalla tradizione colonialista, un’estetica che separa gli ebrei non-europei dai loro stessi corpi. Euro-Israele ha diffuso la valorizzazione filosofica di lunga data del candore, fondata su un’estetica eurocentrica, al fine di rendere omaggio all’ideale dell’aspetto bianco e non semitico. L’egemonia di questo sguardo eurocentrico spiega perché sino ad oggi in Israele le donne di carnagione scura si tingono i capelli di biondo, perché la pubblicità televisiva israeliana evoca più la Scandinavia che non un Paese a maggioranza non europea come Israele e perché le donne fanno ricorso alla chirurgia plastica per poter apparire più europee».
Per quanto possa sembrare paradossale oggi, mentre Israele attua un feroce genocidio, dieci anni fa, intervistata da Cinzia Nachira e Nicola Perugini, Ella Shohat esprimeva anche qualche auspicio per un futuro di pace per Israele. Ricordando i tempi della sua adolescenza, affermava: «Israele poteva essere una terra di migranti ed esuli di diversa origine, ma non era per nulla una democrazia multiculturale, neanche per gli ebrei. Piuttosto era, e continua ad essere, uno Stato-nazione centralizzato e militarizzato che ha favorito e rafforzato delle narrazioni eurocentriche di appartenenza». «Israele non è per nulla una democrazia multiculturale, neanche per i propri cittadini ebrei. Per il bene di tutti, anche di questi ultimi, Israele dovrebbe ‘ripartire da zero’ e pensare di prendere una nuova strada, in direzione praticamente opposta a quella che ha rigidamente seguito. Non è mai troppo tardi per riconoscere il male che Israele ha fatto ai palestinesi». Se fino ad oggi Israele è stato un Paese retto sulla discriminazione sistematica della maggioranza della sua popolazione, ebrei arabi e palestinesi; ebbene, secondo Ella Shohat «Israele dovrebbe smettere di essere uno Stato canaglia despotico e diventare lo Stato di tutti i suoi cittadini».
Le valutazioni di Ella Shohat sono molto nette: «Per molti versi Israele è uno ‘Stato fallito’, anche riguardo a quelle che erano le sue aspirazioni dichiarate. Il sionismo aspirava a creare un paradiso sicuro per gli ebrei, eppure Israele è probabilmente il posto più pericoloso al mondo per gli ebrei». Ovviamente, Ella Shohat non offre soluzioni semplicistiche al problema del futuro di Israele, però sottolinea la necessità di un cambiamento radicale: «Israele può raggiungere la pace solo passando dai diktat e dagli assedi al dialogo e ai negoziati, dalle punizioni collettive al riconoscimento reciproco, dall’arroganza all’interlocuzione».
Bruno Lai
Ella Shohat, Le vittime ebree del sionismo, Introduzione di Vera Pegna, a cura di Cinzia Nachira, Edizioni Q, 2015.