Il suicidio dell’Europa
di Marco Revelli (*)
Cosa diavolo avessero in testa i cinque leader europei, quando hanno deciso di convocare il loro minivertice sulla “sicurezza” in quel villaggio ghiacciato della Lapponia dal nome impronunciabile – Saariselkä -, è difficile immaginarlo.
Certo è che se si voleva proporre una metafora dello stato presente dell’Europa, una più efficace – e tremenda – di questa non si sarebbe potuta trovare: un lembo di terra sepolto nella neve e nel buio della notte polare – lì, tra il 6 di dicembre e il 7 di gennaio, non sorge mai il sole -, agli estremi confini del continente (e del mondo), 230 kilometri a nord del Circolo polare artico, temperatura media in questa stagione mai sopra i dieci sotto zero, 350 anime e cinque hotel di superlusso…
Cattivi presagi
Sul piano del simbolico, suona come una sorta di gelido e oscuro presagio, sul destino di un continente in preda alle pulsioni suicide di una delle classi politiche peggiori che si possano immaginare, qui rappresentata da cinque esemplari che non si sa se usciti da un cartoon natalizio (gli abbracci di rito al patetico Babbo Natale in divisa d’ordinanza che li accoglieva all’ingresso dello chalet) o da un racconto di Lovecraft (quelle facce livide per il freddo, vagamente spettrali)…
Tre provenienti dal Grande Nord, due dal Profondo Sud, in mezzo niente visto il crack sull’asse di crisi che va da Parigi a Berlino, fino a ieri contrapposti – i cinque! – dalla questione dell’austerità e del rigore, oggi accomunati dalla guerra ai migranti e a Putin. Tutti/e di destra o di estrema destra. Leggetevi i curricula, per capire chi siano e cosa ci dicano.
L’estone Kaja Kallas, la più alta in grado, si porta dietro il viluppo di passioni tristi della tormentata storia del suo Paese: da una parte la vergogna per i periodi in cui servì la peggiore Germania (subito dopo la fine della Prima guerra mondiale quando gli estoni combatterono con i Frei Korps proto-nazisti contro l’armata rossa, poi durante la seconda guerra mondiale quando, occupata dai tedeschi, l’Estonia si classificò come primo Paese dell’Asse a essere dichiarato Judenfrei grazie anche all’attiva collaborazione della popolazione); dall’altra parte la voglia di vendetta per la durezza della successiva occupazione sovietica con la deportazione di un buon numero di famiglie, tra cui quella della Kallas stessa.
E ci si chiede se fosse davvero il caso di affidare l’impegnativa gestione della politica estera dell’Unione alla rappresentante di un paese così marginale e dalla vita democratica tanto breve e tormentata.
Poi il padrone di casa, Petteri Orpo, “Ministro Capo della Finlandia”, che dall’estate del ’23 guida un governo di coalizione di cui fa parte, con peso, anche il Perussuomalaiset, il partito dei “Veri Finlandesi”, esplicitamente di estrema destra, nazianal-conservatore, violentemente anti-immigrazione, a lungo euroscettico. Un governo – quello di Orpo, definito come quello “più a destra nella storia del suo Paese” – – che infatti si è distinto particolarmente per la chiusura delle frontiere settentrionali e per la pratica sistematica dei pushback, i respingimenti di persone con diritto alla protezione internazionale ai confini dell’Unione Europea, per permettere i quali ha anche modificato la Costituzione e sfidato l’Unione europea.
Secondo Lord dell’”asse del Nord” è il primo ministro svedese Ulf Kristersson, che guida un governo di coalizione in piedi grazie al sostegno esterno dei cosiddetti “Democratici svedesi”, formazione di ultradestra nei confronti della quale aveva funzionato fino al 2018 un unanime “cordone sanitario” dovuto alle posizioni visceralmente oltranziste dei suoi leader, che però proprio Kristersson aveva cancellato per vincere le elezioni del ’22 e insediarsi al governo. Severa austerità verso le cicale del sud e chiusura delle frontiere ai migranti ne sono i punti forti.
Al sud, infine, la coppia formata dalla ben nota Meloni (che lì aveva in testa l’unico obiettivo di portarsi a casa l’OK alla politica di deportazione in Albania…) e dal greco Kyriakos Mītsotakīs, l’uomo delle grandi banche globali, della McKinsey e della destra economica europea, che si vanta di aver smantellato le politiche sociali avviate dal governo di Alexis Tsipras e di aver riconquistato i voti dei neofascisti di Alba dorata (non per nulla ha inzeppato il proprio governo di ministri provenienti dalla estrema destra autoritaria e xenofoba, orientandolo in senso ultranazionalista e vessatorio verso i migranti).
Un bel quintetto di anime nere, verrebbe da dire. Che, maestri nell’arte della sineddoche, pur costituendo una piccola parte degli Stati dell’Unione parlano come se fossero il tutto (“L’Europa è con noi” ha proclamato al ritorno Giorgia Meloni a proposito della sua aberrazione albanese). E verrebbe da denunciarli per appropriazione indebita, se non fosse che forse siamo noi, che ce ne indignamo, a soffrire di un’illusione ottica, mentre loro, nella loro impudenza, già esprimono, o quantomeno anticipano, la realtà della nuova Europa che ci è venuta mutando sotto i piedi, prima lentamente, poi sempre più veloce. Ciò che Livio Pepino, sulle pagine di Volere la Luna, chiama “La fine del sogno europeo”.
Un’Europa ex origine asociale
In effetti l’ultima volta che, nella nostra area politico-culturale, abbiamo ragionato a fondo sulla vera natura dell’Unione Europea e sui suoi limiti è stato nel 2015, sotto l’effetto dello shock prodotto dall’esecuzione sommaria per strangolamento delle aspirazioni del neonato governo di sinistra in Grecia, come ricordiamo tutti: le riserve monetarie prosciugate dalla Bce per mano di Mario Draghi, i pensionati in fila davanti ai bancomat vuoti, gli ospedali senza medici e medicine, il referendum con cui a grande maggioranza i greci avevano detto no ai diktat della Troika considerato non un diritto politico ma una colpa di lesa maestà…
Allora capimmo perfettamente come l’Europa nata a Maastricht dal primato del Mercato più che della Politica, non solo aveva assunto come propria costituzione materiale i principii di quel neoliberismo che andava sorgendo un po’ovunque in Occidente sulle ceneri del precedente grande “patto socialdemocratico”, ma che li aveva poi sviluppati nel tempo su una matrice per molti versi più rigida e socialmente feroce.
Quella che va sotto il nome di “Ordo-liberismo”, in cui le logiche rigorosamente privatistiche delle relazioni sociali vengono garantite e rafforzate dall’intervento del potere pubblico che se ne fa garante ed esecutore, con una tipologia di “azioni” assai ampia, da parte di istituzioni e attori diversi, dalla Banca centrale, ai singoli Commissari dotati di rilevanti poteri, alla Commissione e al Consiglio, tutti comunque accomunati dalla scarsa anzi pressoché nulla responsabilità di fronte ai cittadini e agli elettori.
Tutto ciò colpiva al cuore, con tutta evidenza, quello che era stato un pilastro fondamentale dell’idea di un’Europa Unita così come era stata formulata in quello che a ragione è indicato come il suo documento costituente – il Manifesto di Ventotene, del 1941: il principio fondate della giustizia sociale.
Del contrasto all’ineguaglianza e all’ ingiustizia. O, come scrissero appunto allora Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi – l’affermazione secondo cui “le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma — come avviene per le forze naturali — essere da loro sottomesse, guidate, controllate nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne sieno vittime”. Un tradimento delle origini di cui eravamo perfettamente consapevoli.
La fine della pax europea
Rimaneva tuttavia ancora in piedi – o così poteva allora sembrare – almeno un pezzo, o una traccia, del secondo pilastro indicato dai padri fondatori, e cioè il contrasto alla Guerra. Un’Europa unita in forma federale come antidoto alle sue antiche pulsioni militariste e belliciste. Un’Europa fattrice e fautrice di Pace, dopo tanto sangue versato sul proprio territorio.
In effetti fino al 2014 l’Europa aveva svolto un ruolo di mediazione e di moderazione dei tentativi americani di usare l’espansione della Nato verso est al fine di destabilizzare e indebolire la Russia, preferendo una politica di “raffreddamento” delle tensioni alimentate soprattutto dai new members baltici ed est-europei.
Ancora al vetrice NATO di Bucarest dell’aprile 2008 – definito il più importante del dopoguerra – Bruxelles si era opposta alla proposta USA di invitare l’Ucraina nell’Alleanza, consapevole del carattere di “provocazione” che ciò avrebbe rappresentato (allora il Paese era violentemente agitato dalla lunga coda della “rivoluzione arancione”).
E poi, nel 2014, nel corso degli eventi, tanto tragici quanto oscuri, di piazza Maidan a Kiev, si era posta in una posizione di dissociazione, sia pur tacita, rispetto alla forzatura americana verso quello che si sarebbe configurato come un vero colpo di stato. Esemplare l’espressione volgare di Victoria Nuland nella telefonata con l’ambasciatore Pyatt, diventata virale dopo la sua pubblicazione su YouTube: “Fuck the EU” (gli europei vadano a farsi fottere).
La Nuland non era una qualsiasi cafona di passaggio, era la plenipotenziaria per le questioni dell’Est e in particolare per l’Ucraina da parte dell’amministrazione americana.
E quella telefonata non testimoniava solo della tradizionale ostilità e diffidenza degli americani nei confronti degli europei considerati non abbastanza affidabili e determinati, e mal sopportati fin dal momento della nascita dell’Euro vissuta come minaccia al monopolio del dollaro (su L’ America e noi si veda su Volere la Luna la serie di articoli sul Tradimento 1 e 2). Ma metteva anche a nudo il ruolo di vera e propria cabina di regia svolto dalla coppia Nuland-Pyatt nella catena di eventi che dalle manifestazioni antigovernative in Piazza Maidan, passando per la strage del 20 febbraio, fino alla destituzione del presidente in carica Viktor Janukovič, li vide particolarmente attivi nell’orchestrare l’azione di sostituzione della leadership a Kiev.
Un impegno condotto fin nei particolari, che va dal coordinamento tra i gruppi di estrema destra presenti sulla piazza (i paramilitari di Pravi Sektor e i neonazisti di Svoboda in prima linea), alla posizione da assegnare ai loro leader (Oleh Tyahnybok in particolare, alcuni dei cui uomini saranno in seguito sospettati di aver fatto parte del gruppo di cecchini che compì la strage), fino alla scelta del successore Arseny Yatsenyuk chiamato amichevolmente Yats nella conversazione (un’accurata ricostruzione nel saggio accademico del prof. Ivan Katchanovski dell’Università di Ottawa).
Se si considera che gli europei erano comunque orientati verso un’altra candidatura nel caso di sostituzione del presidente in carica, e soprattutto che tendevano ad attestarsi sull’accordo in dieci punti siglato nella notte del 21 febbraio tra Janukovič e i leader dell’opposizione alla presenza tre ministri degli esteri dell’Unione europea – il polacco Sikorski, il francese Fabius e il tedesco Steinmeier – accordo poi travolto dall’azione dal basso dei manifestanti più intransigenti che determinò la fuga del Presidente con molti suoi ministri e dal voto immediato del Parlamento che ne certificava la destituzione, si ha la misura di quanto l’Europa sia stata in effetti estromessa dalla gestione del punto più drammatico della crisi Ucraina. Dopo di allora, e la conseguente occupazione russa della Crimea, tutto sarebbe stato diverso.
L’ésprit de commerce tedesco
Il merito principale di questa politica europea di appeacement sul fronte nord-orientale, il più pericoloso nella prospettiva della precipitazione di un possibile conflitto generale (diverso il discorso sulla ex-Jugoslavia dove l’Europa ebbe invece un ruolo ben peggiore), è soprattutto della Germania.
Da decenni la potenza che geopolitica ed economia avevano posto come baricentro continentale, con responsabilità superiori alle altre, aveva assunto nei confronti dell’universo che si estende sul versante orientale un atteggiamento di cauta apertura e di progressiva cooperazione economica secondo una logica di coesistenza pacifica.
La spingeva in questa direzione non solo il più che giustificato senso di colpa per i misfatti compiuti dai propri eserciti negli anni quaranta, e il desiderio di cancellare l’immagine dei tedeschi come feroci aggressori da parte dei popoli che ne erano stati vittime, ma anche un ordine più complesso di ragioni, culturali, strategiche ed economiche.
In termini generali una sorta di sguardo stereoscopico ben radicato nello spirito tedesco, volto a bilanciare il fascino oceanico dell’Occidente con l’attrazione ctonia dei territori orientali. La diade mare-terra concettualizzata da Carl Schmitt. Velocità e profondità. Zivilization e Kultur, in un equilibrio simmetrico necessario per mantenere una propria autonomia strategica.
E poi, all’inizio, la preoccupazione, prevalentemente tattica, di aprire la strada alla possibile riunificazione delle due Germanie, che aveva prodotto l’Ostpolitik inventata da Willi Brandt fin dall’inizio degli anni ’70, proseguita poi dal cancelliere Schmidt e dallo stesso Helmut Kohl, convinti com’erano che un clima di buon vicinato con l’Unione Sovietica fosse necessario per favorire le proprie speranze.
Una prospettiva che tuttavia non si esaurì col raggiungimento dell’obbiettivo della riunificazione, ma proseguì con i successori Gerhard Schröder, e con la stessa Angela Merkel, nella convinzione, questa volta, che fosse nell’interesse dell’economia tedesca (e in subordine europea) una sia pur sorvegliata integrazione con i mercati, e soprattutto con la fornitura di materie prime e di energia di cui era ricca la Russia. Convinzione a sua volta, sostenuta dalla visione strategica del Wandel durch Handel (“cambiamento attraverso il commercio”) e di “una specifica consequenzialità fra commercio, creazione della classe media e democrazia” come veicolo di democratizzazione di quelle terre “irredente”.
Oltre che dall’evidenza empirica di una potenziale virtuosa sinergia tra l’abbondanza di capitali e di alta tecnologia tedesca e la disponibilità di risorse naturali a basso costo e di una domanda in possibile crescita dell’area russa: ciò che infatti ha permesso alla locomotiva tedesca di correre trainando buona parte dell’Europa.
L’ésprit de conquête atlantico
Tutto questo ha subito una brusca battuta d’arresto col 2014. Ed è crollato definitivamente nel febbraio del 2022, con l’invasione russa dell’Ucraina.
La Merkel, che nel 2008, subito dopo l’avvio della guerra in Ossezia del Sud, aveva invocato una linea moderata nei confronti di Mosca, e che nel giugno del 2010 aveva ricevuto nella residenza di Meseberg il presidente russo Medvedev per risolvere il conflitto in Transnistria, dovette accettare invece le sanzioni imposte alla Russia dopo l’invasione della Crimea.
Svolse ancora un ruolo di rilievo nella stipulazione degli accordi di Minsk, ma non poté far nulla per farli rispettare, e dovette rassegnarsi a vedersi passare sotto il naso i massicci flussi di armamenti con cui la Nato preparava l’Ucraina al successivo conflitto.
Mentre spetterà al suo successore Viktor Scholz, subito dopo il famigerato 24 febbraio ’22, contribuire a smantellare l’intera infrastruttura di accordi, rapporti politici e culturali, contratti di collaborazione industriale e commerciale (alcuni estremamente vantaggiosi) che si erano stratificati nel tempo, cancellando in un attimo cinquant’anni di politica tedesca.
E’ difficile capire che cosa avesse in testa la leadership europea quando in un batter d’occhio ha deciso di buttare a mare tutt’intera la tradizione tendenzialmente pacifica del proprio continente. Intendo la leadership dei principali Paesi europei, quelli fondatori (per baltici, scandinavi e polacchi non poteva esserci di meglio), che si è lasciata afferrare, senza la minima resistenza, dal maelstrom della guerra, rinunciando a svolgere un qualsiasi ruolo autonomo (per impedirne l’esplodere, prima, per tentare ogni via diplomatica per fermarla, poi), accettando di fatto che l’intera Unione europea fosse assorbita pressoché senza residui da un’alleanza militare come la Nato, a indiscutibile egemonia americana.
Piegandosi all’esclusiva logica delle armi, del “sempre più armi” come segno di fedeltà. Allineandosi a una politica di sanzioni senza precedenti per estensione e durezza, incuranti degli effetti boomerang di esse. In pratica cancellandosi come player non solo sullo scacchiere globale ma nell’ambito della propria stessa area continentale: quella che della guerra era ed è destinata a pagare il prezzo più alto, in termini sia di sviluppo economico che di rischio militare.
Certo, l’assunzione di una decisione così grave e gravida di conseguenze nefaste senza la minima consultazione popolare e la considerazione della volontà dei propri cittadini, è stata resa possibile e facilitata dall’architettura scombinata delle istituzioni europee, sbilanciate fortemente sull’autonomia degli esecutivi.
Sono infatti i governi dei singoli Paesi a comporre il Consiglio il quale a sua volta indica il nome del Presidente della Commissione europea che dovrà poi essere approvato dal Parlamento ma nell’esercizio del proprio mandato dovrà rispondere minimamente delle proprie decisioni.
Ed è ancora il Consiglio a nominare l’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, che è anche vicepresidente della Commissione, mentre i nomi dei Commissari sono indicati dai singoli governi (ancora gli esecutivi!) e le deleghe assegnate dalla Presidente della Commissione. Dunque una struttura solo in minima parte controllata e controllabile “dal basso”, sostanzialmente in mano alle élites di governo.
Tutto vero. Ma ciò non fa che rendere più drammatica la domanda di cui sopra: cosa passava per la testa di quell’élite, che per definizione dovrebbe essere meno propensa alle ondate emotive e più “razionalmente calcolante”?
Quali argomenti possono averne suggerito la logica suicidaria che l’ha portata prima ad astenersi dal minimo tentativo di evitare il precipitare della situazione e poi, dopo la decisione criminale e altrettanto sucida della leadership russa di varcare il Rubicone dell’invasione, a escludere ogni possibile ruolo di mediazione per fermare le ostilità o quantomeno limitarne l’incrudelimento, come ci si sarebbe potuto aspettare dalla tradizione europea? E anzi ci si è gettati a corpo morto nell’escalation che ne è seguita. (Continua)
***