Il taglio di 40 mila operatori sanitari in due anni

di Gianluca Cicinelli

Sul piatto della sanità pubblica già martoriata c’è il taglio di 40 mila operatori sanitari nei prossimi due anni. Sulla sanità il governo prevede un aumento di 2 miliardi per tre anni per il SSN, 1 miliardo e 850 milioni per l’acquisto dei vaccini anti covid-19 e 2 miliardi e 354 milioni per finanziare le borse di studio dei Medici Specializzandi. Secondo la Fiaso, la Federazione italiana delle aziende sanitarie e ospedaliere – che ha chiesto alle istituzioni l’assunzione dei precari impegnati in prima linea durante la pandemia – la stabilizzazione dei volontari arruolati nel pieno dell’epidemia proposta nella Finanziaria per il 2022 dovrebbe essere di 53 mila operatori sanitari, medici e infermieri in maggioranza. Rientrerebbero quindi nel progetto di stabilizzazione tutti quelli che tra il 2020 e 2021 hanno lavorato almeno 6 mesi. Si tratta quindi di una stabilizzazione extra-concorsuale. Un progetto solo per i lavoratori che sono stati impiegati con contratti a tempo determinato, esclusi quindi Cococo e partite iva. A denunciare la situazione è il S.I. Cobas di Genova.

L’Anao (medici ospedalieri) invece calcola in 20mila i precari da stabilizzare e tra loro solo 4 mila medici rientrerebbero nel progetto. L’operazione si inquadra nel tentativo di contenere l’esodo pensionistico che vedrà da qui al 2024 l’uscita di 35 mila medici e 58 mila infermieri, sempre secondo una stima della Fiaso. La stima dell’Anao – che riguarda tra i 20 mila precari 5 mila specializzandi e altri 5 mila laureati più una quota imprecisata di lavoratori a chiamata – calcola che il resto delle figure sanitarie stabilizzabili riguarderebbe circa 8500 persone. Anche prendendo per buona la stima della Fiaso – calcola il S.I. Cobas – quindi 53 mila assunzioni a tempo indeterminato di operatori già con contratto a tempo determinato, a fronte di 35 mila medici più 58 mila infermieri pronti alla pensione tra due anni, il personale sanitario si ridurrà di 40 mila unità. Non solo. Va calcolata anche la Sanità fuori dall’ospedale e la Fnopi, federazione infermieri, calcola che sul territorio serviranno tra i 20 e i 25 mila infermieri di famiglia, come parte dei 60 mila infermieri complessivi che mancano all’appello. La manovra dovrebbe quindi prevedere anche assunzioni sul territorio, oltre a un nuovo piano sulle liste d’attesa per recuperare le cure saltate a causa del Covid e la revisione del tetto della spesa farmaceutica ospedaliera, che dovrebbe essere alzato.

Il ministro Brunetta ha già chiarito di voler procedere indipendentemente dai concorsi. Un meccanismo che rende le stabilizzazioni soggette, fra chi ha rischiato la pelle nella prima ondata pandemica, a una lotta tra precari: lotta che non avrebbe motivo di esistere perché il personale necessario per una sanità appena decente dovrebbe vedere ben altri numeri di effettivi. Basti ricordare che modelli sanitari come quello francese o tedesco – pur lontani da una sanità universale e centrata sulla cura della salute e non della malattia – presentano un numero di infermieri rispettivamente due e tre volte superiore a quello italiano. Anche perchè alla riduzione del personale si accompagna la privatizzazione di quello che ancora non è stato svenduto, la chiusura dei servizi, un processo attuato negli anni sottofinanziando il Servizio sanitario nazionale.

La pioggia di soldi annunciata dal governo Draghi sembrerebbe tornare a finanziare adeguatamente il servizio pubblico con il Pnrr ma già con le lunghe lista d’attesa, formatesi in seguito all’epidemia, si acquisteranno più prestazioni dai privati e si ricorrerà all’impiego negli ospedali di medici come liberi professionisti. Il rischio, suffragato da decenni di distrazione di risorse dalla sanità pubblica a quella privata, è di alimentare ulteriormente con scelte politiche e non soltanto economiche la sanità legata al mercato.

ciuoti

3 commenti

  • Mariano Rampini

    Eccomi ancora qui ad affrontare un tema sul quale ho speso molto tempo e molte energie in passato ma che mi rimane caro: la sopravvivenza del Servizio sanitario nazionale (oggi meglio definirlo regionale per non incorrere in errori di valutazione del fabbisogno di personale medico, infermieristico e di supporto). Che ci sia in prospettiva un’emergenza dovuta al passaggio alla pensione di decine di migliaia di operatori è cosa nota da tempo: già almeno undici anni fa (cioè nel periodo in cui ho iniziato a scollegarmi dalle mie redazioni) si parlava del 2050 come di un anno nel quale il numero dei medici sarebbe sceso a dismisura a causa di pensionamenti e prepensionamenti (questi ultimi dovuti in gran parte alle dismissioni di interi reparti se non di interi complessi ospedalieri in realtà ospedaliere più piccole). Il numero chiuso delle facoltà di Medicina già da allora sembrava una sorta di insormontabile diga che avrebbe impedito il necessario ricambio generazionale, così come il passaggio di molti medici in realtà sanitarie straniere (n Inghilterra, ad esempio, furono necessari molti ingressi di medici non inglesi per tamponare un’emergenza assai simile a quella ancora da venire in Italia). In tutto questo c’è un paradosso di cui spesso si parla poco: il rapporto tra medici e infermieri professionali nel nostro sistema sanitario, del tutto sbilanciato verso i primi. A fronte di 300 mila e passa infermieri (dato non recentissimo quindi bisognoso di un ritocco verso l’alto) esistevano quasi altrettanti medici. E mentre in altri sistemi sanitari dove tra Ip (infermiere professionale) e medici c’era un rapporto almeno di 4 a 1, da noi il rapporto saliva da 2 a 1. In altre parole, troppi medici e troppo pochi infermieri. La categoria di quest’ultimi lottò a lungo per l’abolizione del mansionario, cioè delle indicazioni restrittive della loro attività che finivano per essere svolte dai medici in soprannumero, così come ci fu una dura lotta per ottenere che il titolo abilitante alla professione di infermiere passasse dalle scuole provinciali trasformandosi in laurea breve (non tragga in inganno: il corso di studi in ambito universitario, affidato in genere a docenti medici era serio e pesante). Anche il passaggio da Collegi professionali a Ordini degli Ip non ebbe vita facile ma oggi le cose, almeno su questo fronte, dovrebbero essere un poco cambiate (sono, lo ammetto, poco informato perché proprio in quegli anni abbandonavo l’attività fissa di giornalista e ho “perso” qualche pezzo per strada). Oggi dunque sembra essere arrivati a una sorta di “redde rationem”: il futuro passaggio alla pensione di medici e infermieri sembra accendere un segnale di pericolo sulla tenuta del Ssn. però mi farebbe piacere se tra i dati citati ci fosse una loro disaggregazione: quali sono le Regioni dove sui farà maggiormente sentire la mancanza di personale? In quali Regioni limitrofe, al contrario, c’è abbondanza di personale (costretto magari alla libera professione perché non trova posto nel Ssn)? Come favorire in quelle Regioni il blocco del numero chiuso in Medicina e chirurgia in modo da fornire nuovi laureati ma nell’ambito di una sanità regionale, senza creare disoccupati costretti a spostamenti onerosi e forieri di burn out? In che modo i sindacati si stanno attrezzando per fare questa analisi del sistema e, altrettanto, in che modo collaborano con le organizzazioni ordinistiche? Quali sono i blocchi o le contrapposizioni da superare? Il problema è grave ma una giusta programmazione delle fuoriuscite e dei nuovi ingressi potrebbe porre rimedio a questa situazione? Sonoi forse domande semplicistiche ma che, a mio modestissimo avviso meritano una risposta…

  • Francesco Masala

    – chi muore da solo senza cure non fa rumore:

    https://www.unionesarda.it/news-sardegna/sanita-fuga-dalle-liste-dattesa-infinite-in-sardegna-e-record-di-rinunce-jvmy7vhq

    – nessuno ha proposto in questi anni (anche per via del covid) di tornare a un sistema sanitario nazionale, unico, e non alla somma di 20 sistemi sanitari regionali, ognuno per conto suo?

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