«Il tempo non è denaro»

recensione di Gian Marco Martignoni al libro di Giorgio Maran

Fu con la Prima Internazionale a Ginevra (1866) che il movimento operaio avanzò nei suoi programmi l’obiettivo delle 8 ore di lavoro, poichè come puntualizzò Filippo Turati nel 1898 «i massimi vantaggi delle otto ore sono nel campo morale e senza di essa la democrazia è vano nome». Nel nostro Paese solo dopo l’autunno caldo del 1969 si passò dalle 2400 ore di lavoro all’anno degli anni sessanta alle 1750. A differenza della Francia e della Germania dove è proseguita la tendenza a ridurre ulteriormente la settimana lavorativa a 35 ore – per via legislativa nel primo caso (seppure con l’esclusione delle aziende sotto i 20 dipendenti ) e per via contrattuale nel secondo caso – in Italia il disegno di legge sulle 35 ore varato dal governo Prodi nel marzo 1988 è miseramente naufragato. Anche per l’assenza di «un movimento di massa che premesse in tale direzione» come lo storico Diego Giachetti ha ben rilevato nell’opuscolo «Riduzione del tempo di lavoro». Al punto che si è determinata una tendenza paradossalmente volta all’allungamento della giornata lavorativa, in quanto i mutati rapporti fra capitale e lavoro, oltre ad aver  influenzato alcune direttive europee, hanno favorito una serie di misure legislative e contrattuali che accentuano il potere discrezionale da parte delle imprese sugli orari di lavoro. Da un lato la detassazione al 10%  degli straordinari stabilita dal decreto legge 93 del 2008 e una serie di contratti nazionali non firmati dalla Fiom e dalla Filcams, nonchè il contratto Fiat del 2010 hanno rilegittimato l’obbligatorietà di un certo numero di ore di lavoro straordinarie. Per non parlare del mondo costituito dalle microimprese e delle piccole-medie, ove il ricorso allo straordinario è sempre stato ritenuto “fisiologico” e dovuto, quando non addirittura fuori busta.

Stante la smisurata crescita dei part-time (il 18,5 % degli occupati nel 2017, di cui il 62,8 %  di carattere involontario), le delocalizzazioni intervenute in questi decenni, la flessibilizzazione e precarizzazione dei rapporti di lavoro, unitamente alla crisi esplosa con il biennio 2008-9, siamo in presenza  di una evidente contrazione del lavoro salariato e dei tempi di lavoro medi. Senonchè, per via della profonda crisi d’identità che ha investito la sinistra e del progressivo deterioramento dei rapporti di forza, si è smarrita nel senso comune di massa la valenza antagonista dello strumento della riduzione d’orario e della sua redistribuzione. Mentre, soprattutto nella sinistra radicale e post-comunista, il reddito di base (o d’esistenza) universale è stato erroneamente individuato come la panacea di tutti i mali. Poichè i suoi sostenitori tendono a sfuggire al nodo della produzione «di un reddito che scaturisce dalla partecipazione allo svolgimento del lavoro necessario alla riproduzione dell’esistenza» come Giovanni Mazzetti ha ben rilevato nel fondamentale testo «Quel pane da spartire». Con buona pace dei dettati sindacali ma anche di quell’evocazione che lo slogan «lavorare meno, lavorare tutti» suscitava un tempo, la suddivisione tra chi lavora molto e chi lavora poco o nulla si è ulteriormente approfondita. In questo contesto può apparire provocatorio e utopistico il libro di Giorgio Maran «Il Tempo non è denaro» (Altrimedia Edizioni: pag 168, euro 18) che propone la riduzione dell’orario di lavoro a trenta ore settimanali su quattro giornate lavorative a parità di salario, al fine di pervenire  a un nuovo paradigma della produzione in relazione a un diverso modello di sviluppo. Le argomentazioni di Malan sono scritte con il brio e l’entusiasmo che contraddistinguono l’affacciarsi alla politica militante di una nuova generazione – non a caso il libro contiene una bella postfazione di Elly Schlein – e risultano supportate da una indagine di prim’ordine sulle condizioni di lavoro e di vita, riprendendo il dibattito in corso a livello europeo a proposito della transizione verso una società della sobrietà. Transizione  che – nel misurarsi con i processi  indotti dalla quarta rivoluzione – individua nell’obiettivo della settimana lavorativa di 4 giorni uno degli elementi essenziali per conciliare la qualità della vita e della democrazia con la pressione esercitata dai tempi di lavoro.

La vicenda del covid-19 e i suoi riflessi ignoti sulle scansioni temporali future, interferendo e frantumando le modalità della riproduzione sociale, pone inevitabilmente la questione di un nuovo modello di sviluppo, in cui la trasformazione strutturale e culturale dei rapporti di produzione, al di là dei deliri produttivistici e consumistici, ha molto a che vedere con la riorganizzazione della società e degli orari, gli assetti di potere e la definizione di un diverso senso della vita.

 

danieleB
Un piede nel mondo cosiddetto reale (dove ha fatto il giornalista, vive a Imola con Tiziana, ha un figlio di nome Jan) e un altro piede in quella che di solito si chiama fantascienza (ne ha scritto con Riccardo Mancini e Raffaele Mantegazza). Con il terzo e il quarto piede salta dal reale al fantastico: laboratori, giochi, letture sceniche. Potete trovarlo su pkdick@fastmail.it oppure a casa, allo 0542 29945; non usa il cellulare perché il suo guru, il suo psicologo, il suo estetista (e l’ornitorinco che sonnecchia in lui) hanno deciso che poteva nuocergli. Ha un simpatico omonimo che vive a Bologna. Spesso i due vengono confusi, è divertente per entrambi. Per entrambi funziona l’anagramma “ride bene a librai” (ma anche “erba, nidi e alberi” non è malaccio).

4 commenti

  • Pierluigi Pedretti

    Scrive il recensore: “Senonchè, per via della profonda crisi d’identità che ha investito la sinistra e del progressivo deterioramento dei rapporti di forza, si è smarrita nel senso comune di massa la valenza antagonista dello strumento della riduzione d’orario e della sua redistribuzione. Mentre, soprattutto nella sinistra radicale e post-comunista, il reddito di base (o d’esistenza) universale è stato erroneamente individuato come la panacea di tutti i mali.”
    Fa bene Martignoni a mettere in rilievo – recensendo il libro di Maran- le difficoltà che a sinistra, soprattutto in quella radicale, vi sono state nel cogliere il problema della riduzione dell’orario di lavoro. Ricordo anche io il dibattito seguito al libro di Mazzetti, purtroppo una fiammata improvvisa, subito spentasi. E non per colpa dell’allora studioso dell’università della Calabria. Credo che proprio nei momenti che sembrano più ostili bisognerebbe avere il coraggio di lottare per porre al centro la questione. Se si vuole dare una vera scossa al sistema economico imperante.

  • Già Lafargue alla fine dell’Ottocento nel suo Diritto all’ozio rivendicava il diritto/dovere di lavorare non più di 3 ore al giorno, appunto come si dice nella recensione di Martignoni quale “partecipazione allo svolgimento del lavoro necessario alla riproduzione dell’esistenza”. Se già 100 e passa anni fa, quando il lavoro si basava in gran parte ancora sulla forza muscolare, si sarebbe potuto lavorare “così poco” (ovviamente in una società basata sull’eguaglianza e sulla cooperazione, e non sull’accumulo di capitale e sullo sfruttamento), figurarsi oggi!
    E qui subentra la seconda parte del ragionamento: oggi (che viviamo ne “Il mondo al tempo dei quanti”, altro interessantissimo libro recensito dallo stesso Gian Marco – che saluto – su questo blog…) le macchine, l’automazione, la rivoluzione informatica e tecnologica, l’intelligenza artificiale ecc. sono in procinto di sostituire l’uomo in gran parte del lavoro diciamo produttivo (cioè nella produzione di beni e servizi necessari alla riproduzione dell’esistenza), per cui un reddito universale di base o d’esistenza (incondizionato e decente) lungi dall’essere “la panacea di tutti i mali” diventa però uno strumento/obiettivo strategico di lotta e di emancipazione per masse sterminate di proletari e sottoproletari espulsi sempre di più dalla possibilità di trovare un’occupazione e/o di trovarne una dignitosa. Il tutto ancor di più amplificato nell’epoca infausta del Covid… Come sempre, la scienza, la tecnica e la tecnologia (cioè il sapere e la conoscenza) se non sono al servizio dell’uomo (dell’umanità nel suo complesso, e della natura nel suo complesso e del pianeta intero), diventano strumenti di privilegio, di schiavitù e persino di vita o di morte nella mani di pochi. Una redistribuzione
    generalizzata della ricchezza prodotta collettivamente tramite un reddito garantito a tutt* mi sembra una via
    percorribile all’altezza dei tempi e del futuro che verrà. E di una nuova sinistra. Un primo passo o tassello (di certo non l’unico nè quello definitivo) verso un nuovo tipo di società umana.

  • Gian Marco Martignoni

    Ringraziando e salutando Marco De Palma per il suo commento, ritengo che la riduzione d’orario e la redistribuzione del lavoro siano gli strumenti più opportuni da mettere in campo per affrontare le molteplici tematiche ” disgreganti ” generate dalla crisi da sovrapproduzione del capitale. Proprio per la loro valenza antagonista al dominio e alla colonizzazione della vita quotidiana da parte del capitale. A mio avviso, invece, il reddito universale di base o incondizionato d’esistenza non possiede questa valenza antagonista, se non in una forma solo apparente, come Giovanni Mazzetti ha ottimamente evidenziato nel libro che ho citato nella mia recensione ( che guarda caso ha per sottotitolo ” Teoria generale della necessità di redistribuire il lavoro “.

  • Ringrazio Gian Marco per la recensione e anche voi per i commenti che sono di interesse e stimolo alla riflessione.

    Nel libro -volutamente- non affronto il tema reddito di base universale e incondizionato (UBI). Personalmente ritengo che un reddito di base incondizionato (ma non universale) possa essere uno strumento utile e necessario, integrandosi con la redistribuzione del lavoro tramite una riduzione generalizzata degli orari senza penalizzazione salariale.
    Il fine sarebbe una società della piena occupazione a orario ridotto, nella quale le persone che perdono o non trovano il lavoro sono accompagnate da un sostegno al reddito incondizionato.

    Infine, credo molto poco alla “fine del lavoro” à la Rifkin e sottolineo che anche nei sistemi tecnologici più avanzati si nasconde una notevole quantità di lavoro umano, come dimostra tutto il tema del digital labor (gig economy, amazon mechanical turk…).

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