Il traditore: «America, America»

Fabio Troncarelli ricorda Elia Kazan

Il 14 febbraio 1965 fu proiettato per la prima volta in Italia America, America di Elia Kazan. Ispirato alla storia dello zio del regista, Avraam Elia Kazantzoglou, il film fu girato in Grecia e in Turchia con molti attori non professionisti, capitanati da un ragazzino di ventidue anni, senza nessuna esperienza, nella parte del protagonista, Stathis Giallelis. Per gli standard hollywoodiani una simile spericolata avventura era un fallimento in partenza. Invece il film vinse un Oscar e fu molto apprezzato dalla critica, affascinata dalla dimensione quasi “neorealista” e dalla travolgente umanità della storia raccontata. La critica, tuttavia, non mancò di notare che Kazan aveva abilmente sostenuto la sua piccola armata Brancaleone con l’aiuto di grandi professionisti, che avevano elevato il livello dell’opera, senza che il pubblico se ne accorgesse: un piccolo gruppo di grandi attori di teatro (come Paul Mann e Linda Marsh); un grandissimo musicista (Manos Hadjidakis); un grande fotografo (Haskell Wexler); e un geniale scenografo, che fu proprio colui che ottenne l’Oscar (Gene Callahan).

C’è una poesia di Ezra Pound che dice: «Stringo un patto con te Walt Whitman. / Per troppo tempo siamo stati nemici. / Vengo da te come un figlio cresciuto / che ha avuto un padre con la testa dura…». Potremmo dire lo stesso di Elia Kazan. Riconoscere che lo abbiamo odiato senza misura dopo averlo amato senza pudore. Sentirci anche noi come figli ormai cresciuti che possono prendere le distanze da padri tirannici e tragici. Kazan è l’uomo che ha inventato Marlon Brando e James Dean. Ma è anche l’uomo che ha tradito i suoi compagni e li ha denunciati durante il maccartismo. Ambiguo, contraddittorio, affascinante: affascinante proprio perché ambiguo e contraddittorio. E per questo perdutamente amato e poi odiato. Odiato senza pietà. Come fa un adolescente sedotto e deluso. Sì, noi siamo ritornati adolescenti di fronte ai suoi adolescenti adorabili e vulnerabili: ci siamo riconosciuti in loro e come loro non abbiamo saputo o forse potuto comprendere e perdonare. Eppure Kazan era stato chiaro: «Non fidarti di me…Non fidarti mai di me…». Così aveva detto in una celebre scena di America, America un suo portavoce, Stavros. Ma noi ci eravamo fidati. E ancora adesso vorremmo poterci fidare. Possiamo farlo? Proviamo ad analizzare America, America, soffermandoci sulla scena di cui abbiamo parlato: drammatica, struggente, una chiave di volta della personalità di Kazan e in fondo di tutti i suoi film.

America, America racconta una storia epica che si svolge verso la fine dell’Ottocento. Stavros, un ragazzo greco, nato in uno sperduto paese dell’Anatolia, viene scelto dal padre per realizzare un progetto grandioso e pieno di rischi: deve emigrare, farsi una posizione, guadagnare molti soldi e far venire via la famiglia, per fuggire dalle persecuzioni dei Turchi. Il giovane prova a stabilirsi a Istanbul, ma poi decide che solo in America può realizzare il suo furente proposito Il viaggio è avventuroso e tragico e si conclude con un’amara vittoria che ha il sapore di una beffa crudele: dopo avere perso tutti i soldi, avere ucciso, ingannato, tradito, il giovane riesce finalmente a giungere in America portando la famiglia al sicuro. Ma durante il viaggio perde per sempre l’innocenza e la dignità.

Al centro del film, in una posizione privilegiata, c’è la scena che ricordavamo. Dopo mille avventure, Stavros è sul punto di “sistemarsi” sposando Thomna, una ragazza ricca, ma non bella. Il padre di lei, un danaroso mercante di tappeti, ha comprato, in gran segreto, una casa per gli sposi, perfettamente arredata con tutto il bric-a-brac di una famiglia rispettabile dell’Ottocento. I due giovani vengono portati davanti alla porta della nuova casa e poi lasciati da tutti i familiari nel piccolo Paradiso Terrestre che fra poco sarà tutto loro. Eccoli, finalmente soli, nell’intimità pregustata. Si sente una musica dolce, una canzone che esalta le vergini promesse in sposa. La ragazza si aggira come una libellula, incredula e allegra, sfiorando con le dita le porcellane e i merletti, tutte le buone cose di pessimo gusto che formeranno il corteo trionfale della sua vita di regina della casa. Stavros atterrito e cupo, si guarda intorno diffidente, pronto a scattare come una belva in gabbia. E comincia a parlare, con voce sommessa. Elogia il futuro suocero, la casa, la futura sposa. Ma nelle sue parole c’è un accento accorato. La ragazza se ne rende conto. Lo interroga. Lo ascolta. A poco, a poco, i due confessano i loro veri sentimenti. Ed emerge l’angoscia, nascosta dietro l’apparente idillio. Stavros rivela a Thomna che non la sposerà, che se andrà in America. Ma anche Thomna rivela le sue paure: la paura di non piacere; la paura di non valere niente. La ragazza racconta un sogno terribile: Stavros, divenuto bambino le succhiava il seno con avidità, ma le sue mammelle erano vuote. Stavros è ferito, è sgomento. Si sente terribilmente in colpa. E nello stesso tempo è pieno di rabbia, pieno di frenesia. Fame, violenza, terrore: ha subìto tutto e tutto è pronto a subire, pur di arrivare nel Paese dei sogni ed essere all’altezza delle richieste del padre. Col cuore spezzato, sapendo di spezzarne un altro, dice a Thomna: «Non fidarti mai di me!».

Fermiamoci qui. A prima vista si direbbe che assistiamo a un dialogo disperato fra due esseri opposti e inconciliabili: un ragazzo crudele e cinico, che infrange le illusioni, l’innocenza e l’ingenuità di una ragazza sensibile. Per questo non è strano che Stavros, in un attimo di sincerità, dica di non fidarsi di lui. Eppure le cose non sono come sembrano. Per comprenderlo si deve esaminare la scena psicoanaliticamente, come una sorta di sogno. In questo suo quasi-sogno attraverso la figura di Stavros, Kazan ci mostra come vede sé stesso: un cinico, senza scrupoli, che si approfitta di una ragazza ingenua. La stessa immagine di sé che ci ha lasciato in molte pagine della sua stentorea e melodrammatica autobiografia, intitolata A life. Ma quest’immagine, come accade nei sogni, è un involucro che nasconde il significato “latente”. I due protagonisti del quasi-sogno non sono infatti esseri reali che si scontrano nella vita, ma due manifestazioni della psiche dello stesso individuo che ha sognato il tutto: Kazan, che ha messo in scena sia l’uomo, sia la donna, ha provato dentro di sé i sentimenti dell’uno e dell’altra ed è contemporaneamente l’uno e l’altro dei suoi personaggi. Kazan è dunque anche la sua parte femminile, debole, sensibile, spaventata. Kazan è la donna che non riesce a sfamare il bambino avido che ha generato e che deve sparire, annientata dalla furia narcisistica che anima tanta avidità. Del resto, a ben guardare, anche nella raffigurazione dell’apparentemente crudele Stavros Kazan mostra una certa ambivalenza. Il personaggio è meno cinico di quanto appare e dice molto di più di quello che crede di dire. Si lascia sfuggire che il padre di Thomna sembra un “re”. E che la vita che gli si presenta davanti potrebbe essere bella. Per di più, il suo senso di colpa, i suoi sguardi verso la ragazza ci fanno capire che a lui non importa nulla se lei è bella o brutta: se potesse, l’amerebbe con tutto il cuore perché mette il cuore in tutte le cose e proprio per questo, proprio per questa sua delicatezza d’animo, ha imparato a difendersi come un serpente, a congelare il cuore, a essere spietato. Dunque, paradossalmente, mentre a parole si confessa crudele e cinico il ragazzo rivela di essere sensibile e pieno di slanci. Lo stesso, del resto, potrebbe dirsi di tutti i giovani irrequieti e sbandati messi in scena da Kazan, interpretati da attori perfetti per esprimere questa contraddizione come James Dean nella Valle dell’Eden, o Warren Beatty in Splendore nell’erba. Nelle loro vite sfortunate, nel loro sgraziato furore di vivere, quello che più ci colpisce non è l’aggressività esibita, ma la vulnerabilità.

Se c’è un autore che ha compreso il drammatico dilemma dell’adolescenza, con i suoi conflitti, i slanci e fallimenti questo è stato Kazan. Vano cercare in lui la saggezza. La saggezza implica la maturità. Ma l’eroe di Kazan è perpetuamente immaturo. Perciò ogni suo gesto, anche estremo, non è mai definitivo. Basta questo per fidarci di eroi antieroici e del loro autore? Basta per cancellare le colpe vere o presunte del regista? Non so rispondere. So solo che Kazan, da sempre, m’ispira, come la tragedia greca per Aristotele, terrore e pietà: un terrore e una pietà che forse non porteranno ad alcuna catarsi, ma che forse porteranno a non smettere di parlare di lui.

Anni fa a Roma l’ho conosciuto. Fece una lezione, di fronte a una platea tumultuosa ed appassionata. Era piccolo, magro, elettrico. Teneva in pugno il pubblico, incalzandolo, provocandolo, rispondendo con puntiglio, con ironia, con intelligenza. Chiamava in causa i ragazzi eccitati, indicandoli, invitandoli a parlare. Era un vero leader. Affascinante. Seducente. Cordiale. Umano. Brillante. Quando finì tutto, mi avvicinai e gli dissi che lo ammiravo. Si fermò a chiacchierare, come un vecchio amico. Mi chiese se mi occupavo di cinema e gli dissi di sì, anche se in modo del tutto occasionale. Allora mi prese sottobraccio e mi chiese di aiutarlo a trovare i soldi per il prossimo film. Ridacchiava mentre lo diceva. Sapeva che era inutile, ma … Come dire? Lui ci aveva provato. Come un vecchio seduttore che ci prova con la prima cameriera che incontra, per non perdere l’esercizio. Mi fece un’immensa pena. Ripensai al personaggio del vecchio padre nel Compromesso, che va in banca a mendicare soldi dopo il fallimento: pregando, insultando, delirando, facendosi umiliare. Davanti ai miei occhi Kazan recitava da guitto, ma sempre sui coturni, cioè con il vestito di scena e il trucco del grande attore. Mendicava. Come un adolescente che non avrà mai il denaro del padre. E io che non avevo soldi potevo dargli solo parole. Parole e comprensione. Tutte cose inutili, come mi disse Kazan con un sorriso e una pacca sulle spalle.

Anche ora non ho altro dono da offrire alla sua memoria. Ma è proprio vero che questo dono, la parola, quello che i greci chiamano epos, è così inutile?

MA COSA SONO LE «SCOR-DATE»? NOTA PER CHI CAPITASSE QUI SOLTANTO ADESSO.

Per «scor-data» qui in “bottega” si intende il rimando a una persona o a un evento che il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano; a volte i temi possono essere più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi. Ovviamente assai diversi gli stili e le scelte per raccontare; a volte post brevi e magari solo un titolo, una citazione, una foto, un disegno. Comunque un gran lavoro. E si può fare meglio, specie se il nostro “collettivo di lavoro” si allargherà. Vi sentite chiamate/i “in causa”? Proprio così, questo è un bando di arruolamento nel nostro disarmato esercituccio. Grazie in anticipo a chi collaborerà, commenterà, linkerà, correggerà i nostri errori sempre possibili, segnalerà qualcun/qualcosa … o anche solo ci leggerà.

La redazione – abbastanza ballerina – della bottega

 

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