Rotta balcanica e Libia: respingimenti e solidarietà

articoli e testimonianze di Doriana Goracci, Brando Benifei, Pietro Bartolo, Alessandra Moretti, Pierfrancesco Majorino, Nello Scavo, Davide Bertok, Nino Lisi e Nawal Soufi. A seguire la catastrofe libica: con un appello delle ong “dopo quattro anni di fallimenti”

it.wikipedia.org/wiki/Pietro_Bartolo

Rotta Balcanica | 4 eurodeputati italiani inseguiti nei boschi tra Croazia e Bosnia (Video Storia) – Doriana Goracci

Il titolo completo dovrebbe essere 4 EUROPARLAMENTARI ITALIANI INSEGUITI NEI BOSCHI TRA CROAZIA E BOSNIA TUTTI GLI ALTRI IMBOSCATI NEL PARLAMENTO…E che ci faranno loro lì? Se vi interessa, questo post è lungo e ha necessità che chi lo legga, trovi il tempo e l’umanità per farlo. Grazie

 

 

Alessandra Moretti scrive nel video inviato: “La nostra delegazione di eurodeputati è stata bloccata da una decina di agenti della polizia croata a meno di un chilometro dal confine tra Croazia e Bosnia. Cosa sta nascondendo la polizia per non voler farci vedere il Check Point dove ogni giorno arrivano centinai di rifugiati? Se vengono rispettate le norme internazionali, come viene dichiarato dal governo croato, perché ci hanno impedito di passare? Un atto gravissimo nella storia dell’Unione Europea. Mai mi sarei aspettata che un Paese europeo come la Croazia arrivasse a un atto così grave verso 4 parlamentari europei: impedire loro di svolgere il proprio ruolo.

 

Quattro europarlamentari Brando Benifei, Pietro Bartolo, Alessandra Moretti e Pierfrancesco Majorino, sono stati inseguiti nei boschi per impedire loro di raggiungere e visitare il check point tra Croazia e Bosnia.

Ma poi la delegazione è riuscita ad arrivare al campo di Lipa, grazie all’aiuto delle ambasciate italiane di Zagabria e Sarajevo.

Le parole di Pietro Bartolo, ex medico a Lampedusa ed europarlamentare del PD: “Siamo arrivati in questa radura, un freddo glaciale, neve ovunque. Davanti a noi abbiamo visto un recinto metallico con all’interno delle tende. In fila indiana, uno dietro l’altro, c’erano un centinaio di persone che aspettavano di ricevere un tozzo di pane. Alcuni di loro erano senza vestiti, con indosso solo una copertina che lasciava parti del corpo scoperte; altri erano senza scarpe, con le infradito. Mi sono tornate alla mente le immagini dei campi di concentramento. È stato un pugno nello stomaco così forte che ho vomitato. Il campo è un inferno. Ci sono tende (completamente innevate), che potrebbero ospitare tre o quattro persone, che però al loro interno ne contengono anche 40. Sono ammassati gli uni sugli altri, perché cercano in questo modo di scaldarsi a vicenda. Si tratta per lo più di giovani uomini, la maggior parte pachistani, ma ci sono anche indiani e afghani. All’interno delle tende hanno costruito dei letti a castello in ferro: ci guardavano muovendo solo la testa. Quell’immagine ci ha fatto pensare ad Auschwitz. E – non mi vergogno a dirlo – ho pianto.

“Dopo una serie infinita di disavventure, ritardi e blocchi armati, 4 eurodeputati Pd sono arrivati e sono riusciti a entrare nel “lager” di Lipa al Confine tra Bosnia e Croazia dove migliaia di profughi pakistani, afghgani, siriani. indiani, sono ammassati in condizioni disumane, in mezzo alle neve, alloggiati in tende, alcune della Croce Rossa, altre di fortuna, in baracche, costruzioni diroccate di un ex impianto industriale e vecchie case coloniche abbandonate. Molti non hanno nemmeno un paio di scarpe.”

Scrive Brando Benifei su twitter: “Ai tanti che mi stanno scrivendo dopo aver visto quanto accade sulla #RottaBalcanica, voglio dire chiaramente che non ci fermeremo. L’Europa ha il dovere di essere presente, giusta, unita. E noi europarlamentari abbiamo il dovere di controllare ciò che accade ai confini. Ieri bloccati al confine croato con polizia armata, oggi testimoni di una situazione insostenibile al campo di Lipa, centinaia di persone sotto una montagna di neve con le scarpe rotte. Non possiamo non agire per cambiare la situazione. #RottaBalcanica #RestiamoUmani”

“E’ vero, la situazione dei disperati di Lipa ricorda quella dei lager nazisti, lo abbiamo scritto anche noi, su queste colonne, il 27 gennaio, in occasione della Giornata della Memoria. Si tratta di una emergenza umanitaria e di una vergogna nel cuore dell’Europa. Non lontano dai nostri confini nazionali. Proprio lì dove all’inizio degli anni ’90 si combatté una guerra fratricida sulle spoglie della ex Jugoslavia, con operazioni di pulizia etnica inimmaginabili.

E l’Europa resta in silenzio incapace di fare qualcosa, di intervenire per porre fine a questa vicenda, alla vergogna. Più facile evidentemente esportare la democrazia coi bombardieri che andare a recuperare 2.500 migranti-profughi scalzi e in canottiera in mezzo alle neve della Bosnia. L’Italia stessa sembra cieca e sorda, troppo impegnata a star dietro alle bizze di Renzi e e alla conta di quanti parlamentari potrebbero soccorrere un governo e una maggioranza in crisi…m.l.

(A cura degli europarlamentari del Pd, Pietro Bartolo, Brando Benifei, Pierfrancesco Majorino, Alessandra Moretti)

E così, la polizia croata l’abbiamo sperimentata anche noi, in modo fermo ma, riflettiamo, sicuramente più cortese di quanto capiti a uomini, donne e bambini intrappolati in quello che chiamano “The game”, il gioco crudele che costringe i migranti ad attendere la notte per cercare di attraversare la linea ambigua che fa da confine fra l’Unione europea e la Bosnia. Coloro che riescono a passare in Europa sperano di poter chiedere lo status di rifugiati o di richiedenti asilo. Coloro non riescono a passare vengono respinto a decine di chilometri dal confine, in mezzo alla neve, spesso senza più cellulare né denaro, di cui subiscono il sequestro immotivato e illegale.

Siamo quattro eurodeputati italiani in missione sulla rotta balcanica. Vogliamo vedere con i nostri occhi. Il bosco è quasi più difficile da monitorare del mare. Ieri a Zagabria, nell’unico centro di permanenza ufficiale della Croazia, in quell’Hotel Porin dove non hanno consentito l’ingresso ai giornalisti che erano con noi – non proprio un segno di trasparenza – abbiamo avuto conferma, dalle persone che vi sono accolte, della veridicità di tanti racconti fatti puntualmente in questi mesi nei reportage di stampa e nei resoconti delle Ong che cercano di dare una mano sul campo. Le condizioni dignitose delle persone che risiediono all’Hotel Porin non bastano a far loro dimenticare quello che hanno vissuto e visto sul confine.

È anche per questo che in una delle tappe del nostro viaggio ci addentriamo nella foresta di Bojna, verso il punto dove avvengono molti attraversamenti, lontano dai riflettori. Ma lì ci attende la polizia croata, che ci ferma. Un drone ci ronza sopra la testa. Centinaia di metri prima del confine, un nastro di cellophane, evidentemente improvvisato, ci blocca la strada. A piedi incontriamo gli agenti e discutiamo a lungo con loro, spiegando che verificare la situazione sul territorio europeo è una delle nostre responsabilità e prerogative.

Intervengono per telefono gli ambasciatori, quello italiano in Croazia e quello croato in Italia, ma invano. Gli agenti si irrigidiscono. Allora ci incamminiamo pacificamente per forzare il blocco e proseguire, rimanendo comunque all’interno dei confini europei. Gli agenti ci inseguono e ci fermano di nuovo, formando poi un cordone per impedirci di andare avanti.

Si tratta di un fatto gravissimo, e piuttosto raro, che non depone certo a favore della trasparenza della gestione croata sul confine esterno dell’Unione. Avevamo comunicato per tempo le nostre intenzioni. La nostra libertà di movimento come cittadini europei su suolo europeo è stata negata. E siamo rappresentanti eletti di cittadini europei. Non dimentichiamo poi che il bilancio di Frontex, l’agenzia europea che collabora con tutti i governi nazionali per la gestione dei confini, viene approvato proprio dal Parlamento di Bruxelles, cioè da noi. Come parlamentari europei, abbiamo il dovere di ispezionare e verificare cosa accade ai confini d’Europa. E ognuno di noi quattro, insieme all’eurodeputato Massimiliano Smeriglio che si unisce a noi sul versante italiano, sente fortemente la responsabilità morale del benessere e della sicurezza di uomini, donne e bambini che hanno la sola colpa di tentare la sorte, correndo molti rischi e spesso arrivando da molto lontano – Afghanistan, Kurdistan, Bangladesh – per cercare un futuro migliore.

Le autorità croate sostengono da tempo che i racconti drammatici dal confine siano solo montature. Ma allora perché negarci il passaggio, anche scortati lungo il tracciato della strada? Riprendendo il nostro viaggio, che ci porta a Bihac e poi verso il campo di accoglienza di Lipa, non possiamo non chiederci cosa ci fosse che non dovevamo vedere, oltre le spalle di quegli agenti croati. E che destino riservano quegli agenti a chi, a differenza di noi, non ha alcuna protezione. Quello che ci è chiaro senza ombra di dubbio è che le politiche europee in materia di migrazione vanno cambiate radicalmente. Basta appellarsi all’emergenza, basta scaricare responsabilità, basta esternalizzazione continua delle frontiere. La responsabilità è corale, e un nuovo quadro di regole, di libera circolazione e di accoglienza di qualità, va costruito con la collaborazione di tutti. Più che mai, come ci ha detto un giovane volontario, qui “c’è bisogno di Europa”.

A me viene in mente la canzone dei Maneskin Torna a casa chissà a quelle povere persone al freddo, tante giovani…quale musica passerà loro per la testa a scaldargli il cuore: “Torna a casa che il freddo qua si fa sentire che ho paura di sparire anche gli angeli, a volte, han paura della morte Che mi è rimasto un foglio in mano e mezza sigaretta Corriamo via da chi c’ha troppa sete di vendetta Da questa Terra ferma perché ormai la sento stretta…”

Facciamo Rumore, con tutti i mezzi. 

da qui

RIFERIMENTI

https://www.primapaginachiusi.it/2021/02/linferno-nella-neve-al-confine-tra-bosnia-croazia-la-testimonianza-delleurodeputato-pietro-bartolo/

https://video.lastampa.it/esteri/gli-eurodeputati-del-pd-bloccati-al-confine-dalla-croazia-arrivano-al-campo-di-lipa-dove-900-migranti-sono-bloccati-in-mezzo-alla-neve/127418/127554

https://www.huffingtonpost.it/entry/cosa-non-dovevamo-vedere-oltre-il-blocco-della-polizia-croata_it_601698a2c5b6bde2f5c0496c

 

Respingimenti a catena. Prima condanna per l’Italia – Nello Scavo

Il tribunale di Roma ha giudicato illegittime le “riammissioni” verso la Slovenia per i richiedenti asilo. Anche a causa delle violazioni dei diritti umani in Paesi come la Croazia

Adesso sui tribunali del nostro Paese potrebbe piovere una pioggia di ricorsi. Perché i respingimenti sbrigativi verso la Slovenia – 1.301 nel 2020 – sono illegali. E perché le autorità italiane sono consapevoli che i richiedenti asilo allontanati dai nostri confini, nella gran parte dei casi riappaiono in Bosnia dopo essere stati cacciati dalla Slovenia e maltrattati in Croazia.

La sentenza con cui il Tribunale di Roma ha condannato il ministero dell’Interno ordina infatti «alle amministrazioni competenti di emanare tutti gli atti ritenuti necessari» a consentire l’immediato ingresso di un richiedente asilo respinto illegalmente. Si tratta di un 27enne pachistano i cui legali avevano denunciato la pratica dei «respingimenti informali in Slovenia» che avevano comportato il suo «respingimento a catena» fuori dai confini Ue. L’uomo è stato allontanato insieme a numerosi altri, senza che gli fosse data la possibilità di presentare la sua richiesta di protezione alle autorità.

Nel provvedimento accolto dal tribunale, viene ricordato l’accordo bilaterale tra Roma e Lubiana, siglato nel 1996 durante il conflitto della ex Jugoslavia. Per il giudice quell’intesa è carta straccia: «Non è mai stato ratificato dal Parlamento italiano, ciò comporta che non può prevedere modifiche o derogare – si legge nella sentenza – alle leggi vigenti in Italia o alle norme dell’Unione Europea o derivanti da fonti di diritto internazionale». Secondo il dispositivo sono «numerose le norme di legge che vengono violate dall’Autorità Italiana», a cominciare dalla riammissione che avviene «senza che venga emesso alcun provvedimento amministrativo».

Il pachistano ha riferito di essere stato picchiato dalla polizia croata, allegando attraverso i suoi avvocati, Caterina Bove e Anna Brambilla, le immagini scatate dagli operatori umanitari una volta raggiunto un accampamento in Bosnia. «I trattamenti subiti dal ricorrente – scrive il giudice Silvia Albano – possono ritenersi provati», anche da quanto riportato «dalle più autorevoli fonti internazionali», oltre che dalle affermazioni della autorità italiane secondo cui «le riammissioni avvengono senza distinzione tra richiedenti asilo e non, con la conseguenza – si legge ancora nel dispostivo – che il richiedente asilo non gode né in Italia né in Slovenia di tale status».

Il giovane era arrivato in Italia con un gruppo di pachistani, «tutti intenzionati a chiedere la protezione internazionale e mentre alcuni volontari prestavano loro soccorso, provvedendo anche a medicargli le ferite, erano stati avvicinati da alcune persone in abiti civili qualificatisi come poliziotti» a cui avevano manifestato «la volontà di chiedere asilo». Poche ore dopo l’intero gruppo si ritroverà in Slovenia. Per loro un crescendo di minacce e violenza. Ammanettati con delle fascette di plastica e gettati in una cella, i migranti il giorno successivo in Croazia sono stati «picchiati dagli agenti – riassume il giudice – con manganelli avvolti dal filo spinato e presi a calci sulla schiena».

Esaminando il caso, il Tribunale ha analizzato numerose fonti che «riportano le efferate e sistematiche violenze e le vere e proprie torture cui sono sottoposti i migranti da parte della polizia croata soprattutto al confine con la Bosnia (Amnesty International, Danish Refugee Council, reti di Ong, Border Violence Monitoring Network, Unhcr–Acnur, Medici Senza Frontiere, l’organizzazione dei gesuiti per i Rifugiati» oltre a numerose «fonti ufficiali quali Aida (l’archivio europeo sui rifugiati, ndr) ma anche testate giornalistiche quali The Guardian, New York Times, Avvenire, L’Espresso».

Per Gianfranco Schiavone, vicepresidente di Asgi, l’associazione di giuristi esperti di diritto delle migrazioni, l’Italia è stata condannata «non per qualche modesta violazione di legge ma per avere impedito al ricorrente (come è avvenuto a centinaia di altre persone) di esercitare il diritto, costituzionalmente tutelato, di presentare domanda di asilo». Mostrando cosi «un sistema pianificato di elusione di obblighi fondamentali». A questo punto «ci aspettiamo – è l’auspicio di Schiavone – che sia ripristinata la legalità alle nostre frontiere».

da qui

 

Proposta di adesione al digiuno di solidarietà con i migranti e rifugiati perseguitati sulla Rotta balcanica – Davide Bertok

Al Sindaco di Palermo, Leoluca Orlando
Al Portavoce della Consulta Comunale Pace e Diritti Umani, Francesco Lo Cascio
Al Presidente del Centro per lo Sviluppo Creativo, Amico Dolci

30 gennaio 1956 – “È vietato digiunare in spiaggia” (lo dissero a San Cataldo dove c’erano mille persone guidate da Danilo Dolci)

Proposta di adesione al digiuno di solidarietà con i migranti e rifugiati perseguitati sulla Rotta balcanica, dopo il giudizio d’illegittimità pronunciato dal Tribunale di Roma, sulle “riammissioni” verso la Slovenia dei richiedenti asilo e le violazioni dei diritti umani in Croazia

Egregi,

quale parte del Comitato pace convivenza e solidarietà di Trieste dedicato all’italo-sloveno Danilo Dolci, e della Rete DASI Diritti Accoglienza Solidarietà Internazionale del Friuli Venezia Giulia, ho l’onore di avanzare la proposta in oggetto, in continuità con la collaborazione aperta per la 2a Marcia mondiale per la Nonviolenza, le Ambasciate di Pace e “Mediterraneo Mar de Paz”.

Avanziamo la proposta d’iniziativa nel ricordo del digiuno nonviolento, realizzato  con Danilo dai lavoratori vittime della pesca abusiva, cui fece seguito lo “sciopero alla rovescia”, preceduto nel 1952 dallo sciopero della fame sul letto del bimbo Benedetto Barretta morto di stenti a Trappeto.

Lo Stato Italiano è stato di recente condannato dal Tribunale di Roma, che ha giudicato illegittime le cosiddette “riammissioni” verso la Slovenia dei richiedenti asilo realizzate dal Ministero per l’Interno, anche a causa delle violazioni dei Diritti Umani che gli stessi subiscono al passaggio dalla Slovenia alla Croazia, per venire poi “sbattuti” nuovamente in Bosnia. A rischio della vita, nel viaggio di andata e ritorno, in quello che i migranti definiscono il “game”.

Il provvedimento della Corte stigmatizza quale insussistente l’accordo bilaterale Roma / Lubiana alla base dei respingimenti, siglato nel 1996 in pieno conflitto jugoslavo, mai ratificato dal Parlamento.

Da tempo le organizzazioni della Società Civile Friulgiuliana lavorano per arginare questi fenomeni, e poco prima della sentenza romana hanno deciso di ricorrere al digiuno nonviolento per allertare le coscienze nel nostro Paese. Ecco qui l’appello di Rete regionale DASI

Rete Diritti Accoglienza Solidarietà Internazionale FVG
#rottabalcanica #norespingimenti
Tutte le vite valgono!

In Bosnia migliaia di migranti, in cammino lungo la Rotta balcanica, rischiano di morire per stenti e assideramento mentrevengono respinti aidiversi confini

In questo rigido inverno, nel mezzo di una drammatica pandemia che colpisce soprattutto i più poveri e deboli, si consuma, a poche centinaia di chilometri dal confine orientale italiano, l’ennesimo fallimento della politica che dovrebbe tutelare la vita di ogni essere umano. Da settimane, nell’area di Bihać, in Bosnia, dopo la chiusura e l’incendio della tendopoli di Lipa, migliaia di giovani afghani, iracheni, pachistani, siriani, africani, da anni bloccati lungo la Rotta balcanica, vagano nei boschi e nelle campagne, rischiando la morte per stenti e assideramento. Nel rimpallo delle responsabilità tra il governo centrale della Bosnia e quello cantonale, nessuna soluzione è stata ancora individuata. I migranti abbandonati di Lipa si aggiungono alle migliaia diuomini e donne precariamente sistemati nei diversi campi della Bosnia nord occidentale, dove è in atto un’ emergenza umanitaria.

Denunciamo le responsabilità dell’Europa e del nostro Paese nell’attuazione dei respingimenti a catena, chiamati “riammissioni informali”, messi in atto da Italia, Slovenia e Croazia nei confronti dei migranti. Si tratta di dispositivi illegittimi, attivati dalle polizie di frontiera, finalizzati a ricondurre in Bosnia uomini, donne e minori che aspirano a una protezione umanitaria, dopo aver tentato, a volte per anni, di attraversare i Balcani. Questi migranti, spesso rappresentati come possibili propagatori del Covid-19, sono deliberatamente esclusi dall’Europa, che stanzia cospicui finanziamenti (quasi 100 milioni di euro) per tenerli fuori dai propri confini anziché attuare, nei loro confronti, politiche di accoglienza, integrazione e tutela sanitaria.

Di fronte a tale situazione, oltre alla raccolta di fondi per interventi umanitari, sentiamo il bisogno di un coinvolgimento più profondo nelle vicende che riguardano migliaia di persone bloccate lungo la Rotta balcanica.

Rifacendoci ai principi ispiratori dell’azione politica nonviolenta
da domenica 17 gennaio daremo inizio a uno sciopero della fame
alternandoci nel digiuno di una giornata per:

  • chiedere a tutti i Governi dell’Unione Europea e in primis al Governo italiano diporre immediatamente fine ai respingimenti tra Italia, Slovenia e Croazia, a causa dei quali migliaia di persone vengono rigettate in Bosnia, dopo aver subito violenze e vessazioni ampiamente documentate, in aperta violazione delle leggi europee e della Costituzione della nostra Repubblica che tutelano il diritto d’asilo;
  • attuare un piano di ricollocamento tra tutti i Paesi UE dei rifugiati bloccati in Bosnia che permetta una effettiva protezione e alleggerisca la Bosnia, Paese con risorse limitate ed ancora diviso al proprio interno, delle responsabilità che la UE non vuole assumersi;
  • aiutare la Bosnia a realizzare un progressivo programma di accoglienza e protezione dei rifugiati adeguato alle sue possibilità, escludendo la creazione, finora invece favorita, dei campi di confinamento nei quali isolare i rifugiati in condizioni indegne.

Il digiuno coinvolgerà ogni giorno donne e uomini che da diverse località si alterneranno nell’arco delle settimane. Ci auguriamo che lo sciopero, avviato in Friuli Venezia Giulia, possa essere condiviso da persone,associazioni, movimenti, che in Italia sono impegnati nella difesa dei diritti umani nell’area balcanica e ovunque in Italia e nel mondo.

Per partecipare al digiuno inviate la vostra adesione a: retedirittifvg@gmail.com indicando il Comune di residenza, la professione o il ruolo sociale/istituzionale,allegando una vostra foto con cartello e scritta #rottabalcanica #norespingimenti o un video di max 30 secondi in cui esporre il motivodella vostra partecipazione. I materiali raccolti verranno pubblicati sul sito e le pagine FB della Rete DASI FVG.

Rete DASI FVG: http://sconfini.net/ 

Si è deciso così di avanzare la proposta di adesione in altre parti d’Italia.
Palermo e la Sicilia conoscono molto bene queste tragedie, e le stanno da tempo fronteggiando raccogliendo un’ormai vasta solidarietà, anche a livello internazionale. Non così al Confine orientale, dove la realtà di quanto accade da tempo sottotraccia, comincia appena ora ad esser conosciuta.

Per questo abbiamo pensato di avanzare la proposta in oggetto alla vigilia di una data significativa, il 30 gennaio del digiuno in spiaggia che diede notorietà alla lotta sociale nella Sicilia occidentale, e con lo “sciopero alla rovescia” segnò una sorta d’inizio della lotta nonviolenta alla mafia. Oltre a regalarci l’arringa di Calamandrei sull’articolo 4 della Costituzione.

Nella convinzione che produrre sinergia fra le affini lotte di Liberazione Mediterranea e Balcanica possa fare un gran bene a tutti i Paesi interessati ed avendo nozione di ulteriori iniziative – a protagonismo femminile – in corso di preparazione, colgo l’occasione per formularVi i più sentiti saluti.

Alessandro Capuzzo

da qui

 

La culla di chi? – Nino Lisi

Credo che valga davvero la pena  di dare almeno una scorsa alla Ordinanza della giudice (una donna!) Silvia Albano del Tribunale di Roma   (Sezione  Diritti della Persona e Immigrazione)   datata 18 gennaio 2021che: accoglie il ricorso presentato da un giovane pakistano, in fuga dal suo paese dove era perseguitato a causa del suo orientamento sessuale. Giunto  al confine italiano con la Slovenia attraverso  la pista balcanica lungo la quale aveva subito  vessazioni e torture  (dimostrate dalle cicatrici che ancora portava sul suo corpo)  aveva manifestato alla polizia italiana l’intenzione di  chiedere la protezione internazionale come suo diritto  ed invece di essere accolto ed assistito  era  stato  costretto    con la forza  e con minacce a ritornare in territorio sloveno, in applicazione di  un accordo tra Italia e Slovenia del 1996   mai  ratificato dal Parlamento italiano,  e che, come si legge nell’Ordinanza  <viola palesemente la legge italiana, la Costituzione, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.>

L’Ordinanza quindi:

  1. a)<dichiara il diritto del sig. ……………a presentare domanda di protezione

internazionale in Italia e ordina alle amministrazioni competenti di emanare tutti gli atti ritenuti necessari a consentire il suo immediato ingresso nel territorio dello Stato italiano;

  1. b)   condanna il Ministero dell’Interno al pagamento delle spese di lite in favore del ricorrente liquidate in € 1.800,00 per compensi ed € 125,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario spese generali al 15%, I.V.A. e C.P.A.>

Il  ricorso del giovane pakistano è stato sostenuto dalle avvocate (ancora donne!) dell’ Associazione Studi Giuridici Italiani (cui aderiscono molti avvocati ed avvocate veramente bravi/e) e farà giurisprudenza, è stata resa nota e commentata da alcuni quotidiani italiani.

Ma  non basta.

La questione andrebbe ripresa  a livello politico e portata in Parlamento chiedendo al Governo se  il nostro Paese che era stato la “culla del Diritto” non abbia per caso ceduto quella culla al senatore Salvini.

Ma non c’è da vergognarsi e reagire in nome della Costituzione e dei Diritti Umani?

 

Nawal con i migranti sulla rotta balcanica – “Qui l’umanità è perduta”

“Immaginate di avere una madre, una sorella, un figlio, un neonato su una strada del genere, percorrere chilometri e chilometri, per poi essere respinti da una polizia di frontiera che, senza alcuna pietà, si arroga il diritto di togliere tutto ai migranti, anche di spogliarli, denudarli, privandoli delle scarpe e costringendoli a tornare verso l’opposto valico, quello che hanno attraversato prima”.

Nawal Soufi, mediatrice culturale e attivista per i diritti umani italo-marocchina, da giorni sta seguendo con i migranti la rotta balcanica. Dopo aver prestato loro soccorso nei campi profughi greci, ha deciso di farsi corpo che affianca altri corpi, per capire da dentro cosa significhi tentare la via della salvezza, The Game, e subire le vessazioni di un Occidente sempre più al tramonto.

Il suo, di corpo, è esile, eppure fortissimo, messo alla prova duramente, perché non si può condividere a pieno una condizione se non sulla propria pelle. Il rischio è grande, ma vale la pena correrlo, se questo gesto può servire a mantenere desta l’attenzione e preservare quella scintilla di umanità che alberga in ognuno di noi. Nawal fa pensare alla filosofa Simone Weil, la quale assunse su di sé la condizione operaia nel modo più onesto di farlo, diventando a sua volta operaia. I suoi scritti sono quindi lucidissimi, puliti, affidabili, e il rispetto che si prova nel leggerli è enorme. Da dentro, al fianco di chi soffre, le cose acquistano tutto un altro senso. Quelle parole, pronunciate da Nawal mentre camminava lungo una rotaia, sono inappellabili: tutti siamo messi al muro, chi non ha fatto nulla, chi non ha fatto abbastanza. Il paesaggio circostante è innevato, eppure sembra un inferno, perde tutta la sua oggettiva bellezza. Lei comunica attraverso i social ed è disponibile a parlarti, se la contatti. Ogni tanto scrive che non potrà collegarsi per qualche giorno, e allora capisci che le cose non si mettono bene. Poi ricompare, più attiva di prima, e ti chiede di aiutare i migranti facendo loro una ricarica telefonica, inviando un contributo, oppure ti fa sapere che hanno bisogno di indumenti, cibo, scarpe. Dovendo attraversare luoghi inospitali e montuosi, soprattutto in inverno, cerca piccoli consigli per ridurre al minimo i danni collaterali. A questo punto, la sua “famiglia” virtuale, come ama definirla, interviene consigliando la tipologia di scarponi, di portare con sé coltellino o forbici per tagliare rametti e spine, facendo attenzione a memorizzare il posto, nell’eventualità di dover tornare indietro, di avere con sé acqua in borraccia, cibo energetico, accendino, una torcia e buste vuote, quelle nere della spazzatura possono servire ai migranti per ripararsi dalla pioggia e dal vento.

L’anima gela

Nawal nel cammino non è sola, ci sono i suoi compagni e i migranti, profughi di guerra, che avrebbero diritto alla protezione internazionale, “ma non li vuole nessuno”, sottolinea. Quando fa sosta, risponde ai messaggi e documenta ogni cosa con foto e video. Piegata su se stessa sulla rotaia, a volte, la sera, finalmente si lascia andare: “Tutti i binari portano verso Auschwitz. Quando arriva la notte, l’anima gela. Le labbra smettono di pronunciare parole, vibrano… A quest’ora tutto tace. Non senti più il bisogno di urlare il tuo dolore al mondo, perché per il momento tutti dormono, e tu devi tentare di trovare la posizione migliore per riscaldarti, mentre la tua anima continua a gelare”.

Delinquenti di frontiera, trafficanti di merce umana, i cani, la polizia, e poi la fame, la sete, il gelo, la stanchezza, queste sono per i profughi le prime avvisaglie di un’Europa che li respinge. “La chiusura delle frontiere non favorisce la legalità. Servono corridoi umanitari che accompagnino milioni di essere umani fuori dalle guerre che abbiamo generato”, afferma Nawal. E intanto cammina, “100 passi contro tutte le mafie” dice, verso la libertà. La pandemia ha peggiorato le cose, adesso l’esclusione sembra quasi d’obbligo e l’isolamento un imperativo. Qualcuno di loro manifesta i sintomi del covid, ma scongiurare il contagio è difficile. Ed è difficile anche distinguere questo virus da una normale influenza: impossibile non ammalarsi, quando si rimane tutto il giorno all’aperto, sotto la pioggia o la neve, con diversi gradi sotto zero, e si trascorre la notte in ricoveri di fortuna o sotto una sottospecie di tenda. In questa condizione, simile a quella in cui vivono i profughi di ogni latitudine, si riesce comunque a trovare momenti di convivialità, quando, ad esempio, ci si prepara a consumare un pasto frugale, una scatoletta di carne o tonno, delle aringhe affumicate, su una busta di plastica nera per tovaglia, attorno a un fuoco, insieme, a condividere, uno stretto all’altro, quegli istanti. Nawal Soufi sta prestando il suo corpo in questa missione, lo porta allo stremo, sapendo che la pietà da sola non è sufficiente. “La capacità di prestare attenzione a uno sventurato è cosa rarissima, difficilissima; è quasi un miracolo, è un miracolo”, scriveva nel secolo scorso Simone Weil. Oggi, oltre al miracolo compiuto dai singoli, occorrono azioni compiute dalle istituzioni ai diversi livelli, basterebbe anche solo applicare i regolamenti e le convenzioni. Il cammino che fa Nawal, quindi, la sua denuncia, sono il nostro cammino e la nostra denuncia. Bisogna decidersi, insomma, tutti insieme, da che parte stare.

da qui

Accordi Italia-Libia: 4 anni di fallimenti, abusi, torture e cinismo politico

della redazione di Riforma (*)- 04 febbraio 2021

785 milioni di euro spesi dal nostro Paese per un accordo che non funziona. Il documento prodotto dalle principali Ong che si occupano di diritti umani. Tutti i numeri

Oltre 785 milioni spesi dall’Italia per sostenere un accordo che, senza fermare le morti in mare, ha consentito il respingimento in Libia di 50 mila persone, di cui 12 mila solo nel 2020.

Nell’anniversario della firma del Memorandum, l’appello al Parlamento di Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, Emergency, Medici Senza Frontiere, Mediterranea, Oxfam e Sea-Watch, per un’immediata revoca degli accordi con le autorità libiche e il ripristino delle attività di Ricerca e Soccorso nel Mediterraneo centrale. Qui di seguito il comunicato prodotto da queste Ong.

«Il bilancio, a quattro anni dall’accordo Italia-Libia sul contenimento dei flussi migratori, è sempre più desolante e riflette il fallimento della politica italiana ed europea, che continua a stanziare fondi pubblici col solo obiettivo di bloccare gli arrivi nel nostro paese, a scapito della tutela dei diritti umani e delle continue morti in mare. Senza disegnare nessuna soluzione di medio-lungo periodo per costruire canali sicuri di accesso regolare verso l’Italia e l’Europa.

“Dalla firma dell’accordo, l’Italia, in totale continuità con l’approccio europeo di esternalizzazione del controllo delle frontiere, ha speso la cifra record di 785 milioni euro (1) per bloccare  i  flussi migratori in Libia e finanziare le missioni navali italiane ed europee. – affermano le organizzazioni firmatarie dell’appello –  Una buona parte di quei soldi – più di 210 milioni di euro – sono stati spesi direttamente nel paese, ma purtroppo non hanno fatto altro che contribuire a destabilizzarlo ulteriormente e spinto i trafficanti di persone a convertire il business del contrabbando e della tratta di esseri umani nell’industria della detenzione. La Libia non può essere considerata un luogo sicuro dove portare le persone intercettate in mare, bensì un paese in cui violenza e brutalità rappresentano la quotidianità per migliaia di migranti e rifugiati”.

Libia: tutt’altro che porto sicuro

Come riconosciuto dalle istituzioni internazionali ed europee, comprese le Nazioni Unite e la Commissione europea, la Libia non può in alcun modo essere considerata un luogo sicuro dove far sbarcare le persone soccorse in mare: sia perché è un Paese instabile, dove non possono essere garantiti i diritti fondamentali, sia perché migranti e rifugiati sono sistematicamente esposti al rischio di sfruttamento, violenza e tortura e altre gravi e ben documentate violazioni dei diritti umani. Eppure, continua ad aumentare il contributo italiano ed europeo alla Guardia Costiera libica, che negli ultimi 4 anni ha intercettato e riportato forzatamente nel Paese almeno 50 mila persone, 12 mila solo nel 2020.

Molti vengono detenuti arbitrariamente nei centri di detenzione ufficiali, dove la popolazione oscilla tra le 2.000 e le 2.500 persone. Tuttavia, meno noti sono i numeri dei detenuti in altri luoghi di prigionia clandestini a cui le Nazioni Unite e altre agenzie umanitarie non hanno accesso e dove le condizioni di vita sono persino peggiori.  La detenzione arbitraria è però solo una piccola parte del devastante ciclo di violenza, in cui sono intrappolati migliaia di migranti e rifugiati in Libia. Uccisioni, rapimenti, maltrattamenti a scopo di estorsione sono minacce quotidiane, che continuano a spingere le persone alle pericolose traversate in mare, in assenza di modi più sicuri per cercare protezione in Europa.

Obiettivo raggiunto: nessun soccorso nel Mediterraneo centrale 

Dal 2017 – denunciano ancora le 6 organizzazioni – sono stati spesi 540 milioni di euro dall’Italia, solo per finanziare missioni navali nel Mediterraneo, il cui scopo principale non era quello di soccorrere le persone. Nello stesso periodo, secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim), quasi 6.500 persone sono morte nel tentativo di raggiungere l’Europa attraverso il Mediterraneo centrale, mentre tutti i governi italiani che si sono succeduti hanno ostacolato l’attività delle navi umanitarie, senza fornire alternative alla loro presenza in mare. Persino le recenti modifiche della normativa in materia di immigrazione non hanno di fatto eliminato il principio di criminalizzazione dei soccorsi in mare, che era stato introdotto dal secondo Decreto Sicurezza.

Nel corso del 2020, l’Italia ha bloccato inoltre sei navi umanitarie con fermi amministrativi basati su accuse pretestuose, lasciando il Mediterraneo privo di assetti di ricerca e soccorso e ignorando, allo stesso tempo, le segnalazioni di imbarcazioni in pericolo. Contribuendo così alle 780 morti e al respingimento di circa 12.000 persone, documentate durante il corso dell’anno dall’Oim.

Infatti, la risposta delle istituzioni Ue alla crisi umanitaria nel Mediterraneo centrale si limita alle operazioni di monitoraggio aereo di Frontex, EUNAVFORMED Sophia e, ora, Irini, che di fatto contribuiscono spesso alla facilitazione dei respingimenti verso la Libia. Intanto le operazioni di monitoraggio aereo civile, seppur discontinue e anch’esse ostacolate, nel 2020 hanno avvistato quasi 5.000 persone in pericolo in mare in 82 casi, testimoniando continui episodi di mancata o ritardata assistenza da parte delle autorità.

Dall’Italia, nessuna notizia sulla dichiarata modifica dell’accordo

Infine, pur di fronte al tragico fallimento dell’accordo da anni sotto gli occhidell’opinione pubblica – sottolineano le organizzazioni – nulla si è più saputo rispetto alla proposta libica di modifica del Memorandum, annunciata il 26 giugno 2020 e che a detta del Ministro degli Esteri Luigi di Maio andava “nella direzione della volontà italiana di rafforzare la piena tutela dei diritti umani”.

Né tantomeno sono stati resi noti gli esiti della riunione del 2 luglio 2020 del Comitato interministeriale italo-libico, o se ci siano stati nuovi incontri, e neppure a quali eventuali esiti finali sia giunto il negoziato che avrebbe dovuto portare un deciso cambio di rotta nei contenuti dell’accordo.

L’appello al Parlamento

Tenendo conto dell’attuale crisi politica, le organizzazioni chiedono quindi al Parlamento di istituire una Commissione di inchiesta, che indaghi sul reale impatto dei soldi spesi in Libia e sui naufragi nel Mediterraneo e di presentare un testo che impegni il Governo a:

  • interrompere l’accordo Italia-Libia, subordinando qualsiasi futuro accordo bilaterale alla transizione politica della crisi libica, nonché alle necessarie riforme del sistema giuridico che eliminino la detenzione arbitraria e prevedano adeguate misure di assistenza e protezione per migranti e rifugiati;
  • dare l’indirizzo a non rinnovare le missioni militari in Libia, chiedendo con forza la chiusura dei centri di detenzione nel paese nord-africano;
  • promuovere, in sede europea, l’approvazione di un piano di evacuazione dalla Libia delle persone più vulnerabili e a rischio di subire violenze, maltrattamenti e gravi abusi;
  • dare mandato per l’istituzione di una missione navale europea con chiaro compito di ricerca e salvataggio delle persone in mare;
  • promuovere, in sede europea, l’approvazione di un meccanismo automatico per lo sbarco immediato e la successiva redistribuzione delle persone in arrivo sulle coste meridionali europee, sulla base del principio di condivisione delle responsabilità tra stati membri su asilo e immigrazione;
  • promuovere la revoca dell’area di ricerca e soccorso libica, poiché solo finalizzata all’intercettazione e al respingimento illegale delle persone in Libia;
  • riconoscere il ruolo delle organizzazioni umanitarie nella salvaguardia della vita umana in mare, mettendo fine alla loro criminalizzazione e liberando le loro navi ancora sotto fermo.

NOTE:

1.Il dettaglio dei fondi spesi è riportato da questa tabella di analisi elaborata da Oxfam

MISSIONE

2017

2018

2019

2020

TOT

4 MISSIONI IN LIBIA

0

21 (Poi divenuta 20) UNSMIL

0,5

0,4

0,1

0,1

1,1

22 (Poi divenuta 21) Missione bilaterale supporto Libia

43,6

49,1

49,0

47,9

189,6

23 (Poi divenuta22) Supporto Guardia Costiera Libica

3,6

1,6

6,9

10,0

22,1

24 EUBAM

0,3

0,3

0,3

0,3

1,1

TOTALE 4 MISSIONI IN LIBIA

47,9

51,4

56,3

58,3

213,9

MARE SICURO

83,9

84,7

85,2

79,0

332,8

EUNAVFORMED/IRINI*

43,1

42,5

41,3

24,9

151,8

SEAGUARDIAN

17,5

17,7

6,3

15,0

56,5

FONDI DEVOLUTI AD Agenzie delle Nazioni Unite attraverso il Fondo Africa**

30,0

30,0

785,

 

(*) ripreso da riforma-it. La foto è tratta dal sito Sea-Watch
Redazione
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