Il velo nell’Islam, Sciences Po, il Pd, i silenzi

1 – Un articolo di Djemila Benhabib; 2 – Se a Milano accade qualcosa che quasi tutt* preferiscono non vedere

 

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1 – Djemila Benhabib e l’«Hijab Day»

Giorni fa ho ricevuto da amiche la traduzione del testo nel quale Djemila Benhabib, scrittrice e militante politica del Quebec di origini algerine, commenta l’Hijab Day, evento organizzato il 20 aprile da studentesse e studenti di Sciences Po, l’istituto di Scienze Politiche a Parigi.

Caro studente di Sciences Po,

lo scorso 20 aprile 2016 hai organizzato (forse per un atto di banale solidarietà) una giornata per festeggiare il velo islamico con una leggerezza d’animo disarmante. In realtà, dovremmo parlare di prigionia: quella di mia figlia, di mia madre e la mia, oltre a quella di milioni di altre donne in tutto il mondo.

Da dove scaturisce la capacità di tradurre in chiave esotica l’alienazione altrui?

Certo è che questo velo di cui ti fai paladino non vale per tutti allo stesso modo. Tu stesso lo escludi e preservi così te stesso. In fin dei conti, concediti una frivolezza. La prigionia spetta a me. Che strano compromesso. Ed è proprio qui che si cela il razzismo! Hai mai pensato, per un solo istante, a invertire i ruoli? Facciamo una prova! A chi vorresti fare credere che la sottomissione è la condizione naturale delle donne di cultura o di religione musulmana? In quanto una di loro, ti posso assicurare fin da subito che non sono vota né al fanatismo né alla sottomissione. Io mi sono invece fatta portavoce di una lunga tradizione di battaglie, forgiate da donne che sono padrone del proprio corpo e della propria mente. Reclamo la libertà a gran voce. Ma non è così facile.

Liberarsi da qualsiasi forma di oppressione è lo scopo della mia vita.

La mia ribellione è scaturita dalla sofferenza. E in merito, vorrei ribadire un’importante verità: qui in Francia non accetterò mai quello che ho rifiutato laggiù. Quel laggiù rappresenta l’Algeria della mia infanzia, sfigurata dalla piaga islamista degli anni novanta e caratterizzata da un rifiuto ostinato della crudeltà e dei veli della sottomissione.

Il velo? Mai e poi mai! Né qui, né laggiù, né altrove.

Le “sgualdrine”, il velo e la democrazia

Caro studente di Sciences Po,

mi è già capitato di incrociarti per le strade di Parigi, non lontano dal tuo istituto. Incarni in tutto e per tutto il tuo tempo, vivendo di appetiti estremi e coltivando la tua immagine quasi all’eccesso. Non per questo non apprezzo il tuo atteggiamento; anzi tanto vale vivere nell’esaltazione della tua individualità che morire della sua mancanza. E allora, perché fai della MIA sessualità un affare di stato? E peggio ancora, parli delle mie parti intime come fosse una TUA proprietà. Appropriandoti della simbologia del velo, ovvero la sottile linea di confine tra le donne “pure” e le donne “impure”, mi trascini inevitabilmente sul campo della moralità. Ti comporti come un tutore patentato.

Con quale diritto mi costringi a sottostare alla tua volontà?

Così facendo, fai di me una “sgualdrina”. Mi additi come preda sessuale. Sfrutti le violenze da me subite. Se ti è mai capitato di camminare per le strade del Cairo, di Casablanca o di Algeri, alla fine della passeggiata non avrai fatto a meno di notare che per le donne si profila una prigione a cielo aperto. I loro corpi sono scrutati, disprezzati, agognati, tagliuzzati a colpi di bisturi se non addirittura impiastrati da mani accanite, pronte a commettere qualsiasi bassezza per potersi accaparrare un pezzo di carne. Con o senza velo, dalla culla fino alla nostra tomba, non siamo altro che un ammasso di desolazione. E come potrebbe andare diversamente dal momento che le “femmine” sono viste come delle fortezze da prendere d’assalto, delle matasse di carne contro le quali strofinarsi in metro o negli autobus, dei campi di battaglia su cui sfogarsi dopo una partita di calcio, degli zerbini sui quali pulirsi le scarpe senza neanche riflettere? Tutto questo è riassunto, tra le altre cose, nel film «Cairo 678» (Les femmes du bus 678, 2010) del regista egiziano Mohamed Diab. Ti è mai capitato di guardarlo?

È la volontà di Allah

Caro studente di Sciences Po,

se questo velo fosse un indumento come un altro, allora non sarebbe imposto con così tanto ardore e vigore alle donne iraniane e alle donne saudite, per citarne solo alcune. Recluso, il corpo della donna diventa proprietà dell’uomo, dell’imam, del tiranno e di Allah, i quali condividono lo stesso odio per le donne. Sottomettetevi, ubbidite, accettate la vostra condizione di inferiorità!, gridano all’unisono. Questo controllo del corpo nello spazio privato trova a poco a poco uno spiraglio nello spazio pubblico. In un’ottica più ampia, la violenza domestica funge da esperimento per una violenza sociale sistematica. Le donne giudicate immorali sono doppiamente condannate: dallo stato (la polizia di costume), lungi dal proteggerle, e dalla società, che le schernisce. Questa buffonata della trasgressione dell’ordine morale e politico attraverso il corpo è un appello deliberato alla pubblica riprovazione. Facendo del corpo della donna un affare di stato, coloro che bramano la purezza e l’astinenza fondono insieme sfera privata e sfera pubblica.

È d’obbligo ricordare che il distacco della sfera privata dalla sfera pubblica è uno dei cardini della modernità: rende possibile l’esercizio democratico e garantisce il rispetto delle libertà individuali.

Chi trae quindi profitto da un corpo di polizia che legifera sulla lunghezza della gonna delle donne se non quei zelatori della morale? L’esistenza dei regimi islamisti si erge sulla loro capacità di controllare la sessualità della metà della società. L’ordine morale diventa così il fondamento dell’autorità pubblica. In altre parole, se i veli cadono, i regimi si sgretolano con loro! In quest’ottica, l’annullamento dell’oggetto sessuale si traduce ineluttabilmente attraverso l’annullamento del soggetto politico. Una donna il cui corpo è nascosto si distingue a fatica. In pratica, il velo e la democrazia non vanno d’accordo! La libertà della mente. La libertà del corpo. La libertà in senso stretto. È questo ciò che dobbiamo difendere!

Basta soltanto riflettere sulla condizione di alcune ragazze per rendersi conto che nemmeno la conformità alla norma islamista consente loro la minima eccezione. Nel marzo del 2002, durante un incendio in un istituto per ragazze di La Mecca, che accoglieva 800 studentesse, la polizia religiosa ha impedito alle ragazze di fuggire con il pretesto che non portavano il velo come voleva la norma. Diversi testimoni oculari, compresi i membri della squadra della sicurezza civile, hanno spiegato come la loro operazione di salvataggio sia stata ostacolata da membri della polizia religiosa che si preoccupavano del fatto che degli uomini entrassero in un istituto femminile o che le ragazze uscissero senza velo, soprattutto perché nessun membro della loro famiglia era presente per soccorrerle. Insomma, meglio morire che mostrare qualche ciocca dei vostri capelli!

Né velo, né divieti”. Ne siamo sicuri?

Caro studente di Sciences Po,

questa iniziativa che hai intrapreso ha il merito di scoprire alla luce del giorno la grande confusione che si è insinuata nella tua mente. Trattandosi di concetti, sembra che tu ti sia perso al punto di non sapere più distinguere la libertà dall’alienazione, la scelta libera dalla servitù volontaria. Étienne de la Boétie, torna ti prego! Inebriato da un’overdose di libertà, sei diventato insensibile alle sorti dei tuoi simili. Ti sei distaccato da una parte dell’umanità. Il tuo pensiero si è rammollito. Sei venuto meno alle tue responsabilità. Ai tuoi occhi, l’emancipazione non significa niente; la fratellanza è ormai obsoleta; la solidarietà è roba da nostalgici. Ti sei lasciato contaminare, perfino imbrogliare da uno come Tariq Ramadan, campione dei doppi discorsi (lui stesso ne è la prova), che avanza nascondendosi dietro la sua famosa battuta semantica (eccone un’altra!) “né velo, né divieti” per minare al meglio la resistenza delle teste scoperte.

Se affrontiamo la condizione delle donne nell’Islam, si aprono un’infinità di dibattiti che riguardano: l’eredità, la testimonianza in tribunale, la poligamia, il ripudio, la violenza domestica, i crimini d’onore, la responsabilità delle madri nei confronti dei figli, il matrimonio di una donna musulmana con un non musulmano, l’accesso al ruolo di giudice o di imam, l’educazione, la contraccezione, l’omosessualità e la pena corporale. Ma sull’insieme di questi argomenti, Ramadan non si esprime. Ne ha solo per il velo. Se lo difende con tanta ferocia, è perché, oggettivamente, il velo fa parte della sua strategia di conquista del potere. Per quanto riguarda la sua formula “né, né”, altro non è che un diversivo per confondere i falsi umanisti, i pigri, coloro che si crogiolano costantemente nella menzogna. Le stesse persone che combattono la verità, fingendo di difenderla. Le stesse persone che sognano di gettarci in QUELLA comunità soffocante di fedeli, la cosiddetta Umma. Le stesse persone che fanno di tutto per colpevolizzarci, per atrofizzare i nostri riflessi da cittadine e per calpestare le nostre conquiste democratiche.

L’islam politico comporta una rottura storica con la Repubblica

In Occidente, il velo è diventato lo stendardo di tutti coloro che promuovono la fusione tra l’islam e lo stato. L’islam politico comporta una rottura storica con la Repubblica e un più importante riorientamento sociale. Indebolire la condizione delle donne diventa quindi un imperativo. In quest’ottica, l’annessione del velo alla sfera pubblica è di vitale importanza. Il potere passa attraverso la visibilità delle “donne velate”. Tutto questo Tariq Ramadan lo sa fin troppo bene. Ecco perché ha fatto del velo una SUA priorità. Lui, i suoi militanti e le loro organizzazioni satelliti, dai Fratelli Musulmani ai salafiti, lavorano duramente, affinché l’espansione dell’islam politico sia tanto prorompente quanto rapida.

È evidente, caro studente di Sciences Po, che soffri della sindrome dell’individuo annoiato da un eccesso di privilegi e libertà. È vero che non hai mai preteso niente in merito. La libertà ti è stata servita su un piatto d’argento. In altre parole. Non ti è mai stato torto un capello per andare a scuola. Tu non sei una ragazzina nigeriana. Al contrario, fai prova di una manifesta indifferenza nei confronti del calvario di Assiatou, descritto nel libro di Michel Lafon, «Enlevée par Boko Haram» (Rapita da Boko Haram, 2016). Tu non sei né Katia Bengana né Amel Zenoune, due giovani donne assassinate nel fior fiore della giovinezza per il loro rifiuto di portare il velo nell’Algeria degli anni novanta. Tu fai spallucce di fronte alla resistenza coraggiosa della donne iraniane e afgane. Tu non hai conosciuto né l’esilio forzato, né la persecuzione sorda e muta di lunghe notti di terrore subita da bambini e donne yazide. Tu non ti sei mai dovuto nascondere per pregare, come sono costretti a fare i cristiani in Oriente. Tu non hai mai tremato di paura su un autobus al pensiero che qualcuno potesse svelare la tua identità. Tu non sai cosa significhi la ribellione di uno come Garcia Lorca. Tu non ti senti solidale né con il destino di una come Asia Bibi né di uno come Raif Badawi. Tu ti sei recato al ghetto di Varsavia con lo stesso trasporto di un fan a un concerto rock. Tu non hai imparato proprio niente dal caso Dreyfus.

Ebbene no. La verità non è una media tra tutte le posizioni. Tra la democrazia e il nazislamismo, non esiste una via di mezzo. Non si può inneggiare con la stessa foga alla libertà e all’alienazione. L’uno esclude l’altro. Scegli tu da che parte stare.

Abbi il coraggio di essere una donna libera!

Riconoscere nell’Altro la tua umanità ti avrebbe tuttavia permesso di cogliere l’imperativo categorico di Kant quando affermava: “Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di legislazione universale”.

Certo, la Repubblica francese si è mostrata generosa nei tuoi confronti. Ma cosa fai tu per difendere i suoi ideali? Flirti con la teocrazia? Fai piedino a Daesh? Ebbene sì, mi spingo a tanto per andare dritto al nocciolo del mio ragionamento. Tra coloro che si arruolano tra le milizie di Daesh e tu che partecipi a normalizzare i suoi simboli, esiste un vero e proprio nesso. A meno che non affermiamo che non esiste un nesso tra ideologia, politica ed esercito. Dovresti saperlo. Proprio tu che passi tanto tempo a studiare la storia dei regimi politici.

Con questo avvenimento dell’Hijab Day, contribuisci a banalizzare il male, come fece notare a suo tempo Hannah Arendt. Ma la cosa peggiore è quando rinunci a esercitare la tua prima responsabilità di cittadino di una democrazia. Ti allontani dalla condizione umana. Tradisci la filosofia dell’Illuminismo. Sprofondi in un esotismo servile. Tuttavia, la tua condizione di privilegiato tra i privilegiati non fa di te un essere meno capace a cogliere la complessità del mondo in cui viviamo.

Rinsavisci, caro studente di Sciences Po. Estraniati da te stesso; apri gli occhi; guardati attorno; riappropriati della facoltà di pensare; coltivati; leggi; ascolta chi ha delle storie di resistenza da raccontarti. Scoprirai nelle loro parole il coraggio che ti manca per diventare un uomo libero. Attingerai dal loro silenzio la forza di vivere a testa alta. Troverai nel loro dolore quello che ti manca per tracciare il tuo cammino verso te stesso e verso l’umanità. Vedrai, il tuo cuore incomincerà a battere ancora per la libertà. Perché, dopotutto, voglio continuare a credere che tu sia un uomo in divenire.

Sii giusto!

Abbi il coraggio di essere una donna libera.

 

2 – Se a Milano accade qualcosa che quasi tutt* preferiscono non vedere

Molti fatti di cronaca, non solo in Francia, rendono sempre più interessante e urgente il messaggio di Djemila Benhabib.

Per esempio da Milano pochi giorni fa arriva una notizia – qui sotto la riassumo – che quasi subito sparisce dalle cronache e che non ispira gli abituali tuttologi a esprimersi.

«Sono musulmana, laica e progressista. Mi considero parte di un Islam numericamente maggioritario, purtroppo finanziariamente inesistente e dunque totalmente inascoltato. Siamo chiamati a palesarci solo per fatti riconducibili al terrorismo islamico. Non siamo neanche iconograficamente pittoreschi: veli e barbe non sono nostri segni distintivi»: così scrive Ismail Maryan Ismail, di origine somala, annunciando che abbandona il Pd milanese dopo l’elezione al Consiglio comunale di Milano di Sumaya Abdel Qader, una sociologa che lei indica come espressione dell’Islam radicale.

Maryan Ismail, è una rifugiata politica, tra l’altro fondatrice del circolo Città Mondo del Pd milanese. Suo fratello Yusuf Mohamed Ismail, ambasciatore somalo presso le Nazioni Unite a Ginevra, venne ucciso a Mogadiscio nel marzo 2015 in un agguato degli integralisti. Maryan Ismail lascia il partito con una lettera inviata a Matteo Renzi e pubblicata su Facebook dove fra l’altro ricorda di aver partecipato a varie edizioni della Leopolda. Incalza così il suo ex partito: «Non perdiamo occasione per urlare la nostra contrarietà alla visione ortodossa di un Islam dove politica e religione sono profondamente intrecciate, identificabile in quel wahabismo della Fratellanza Islamica promosso da varie sigle nazionali e territoriali come Ucoii e la milanese Caim». E alla Caim appunto appartiene Sumaya Abdel Qader che il sindaco Sala ha deciso sarà proprio l’interlocutrice per la costruzione della moschea di Milano, che – in questa versione – è avversata da quelle comunità islamiche che non si riconoscono nel Caim. «Dunque, il Pd milanese ha scelto di interloquire con la parte minoritaria ortodossa e oscurantista dell’Islam, chiudendo il dialogo alla parte positiva e progressista che esige la separazione fra politica e religione sostenendo il ruolo della donna musulmana in un’ottica di consapevolezza dei propri diritti e doveri di cittadina».

Maryan Ismail spiega: «Ancora una volta le anime dell’Islam moderno, plurale e inclusivo non sono state ascoltate». E aggiunge, rivolgendosi a Renzi: «Constato con rammarico che le tue belle idee di rinnovamento politico e sociale che tanto mi avevano coinvolta, a Milano si sono tristemente schiantate. Per questo e per le scelte inopinate del PD milanese mi dimetto da tutti i ruoli e riconsegno la tessera. Sono sicura che da libera cittadina, svincolata dai lacciuoli di bassissimi equilibri locali di partito, potrò promuovere l’Islam in cui credo e che mi appassiona tramite il dialogo e lo scambio con i miei concittadini per ottenere l’attenzione e il rispetto che la mia religione si merita».

Si può credere come lei nelle “belle idee di rinnovamento” di Renzi oppure pensare il contrario – che il “nuovo” Pd sia vecchio, succube dei Palazzi e confuso in tutto – resta che una lettera del genere meriterebbe una riflessione. Che credo non verrà, come si è “svicolati” tante volte A esempio sul recente libro «Perché ci odiano» di Mona Eltahawy – qui in “bottega” : Le mani sulla donna – che nel sottotitolo pone la questione in modo chiaro e forte «Contro la misoginia che ammorba il mondo islamico, primavere arabe comprese». Ma a parte il Pd, dalle parti delle sinistre e della laicità c’è voglia di ragionarne? A me pare di no. (db)

 

 

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