Il vino dei Berici? Se lo conosci lo eviti

di Gianni Sartori

Anche sui Colli Berici sta dilagando «la fabbrica diffusa» delle speculazioni vinicole: devastanti per il paesaggio e altamente inquinanti.

Colli Berici, a sud di Vicenza. In particolare la fascia che sovrasta la Riviera Berica. Ne parlo in quanto cittadino, non certo esperto di chimica o agricoltura industriale (l’aggettivo è obbligatorio di questi tempi). Da persona che – un giorno sì e un altro anche – deve precipitarsi a chiudere finestre e balconi per arginare il pestilenziale aerosol che uomini in tuta bianca (più maschera antigas dal doppio filtro) spandono con gli atomizzatori spensieratamente lungo i filari a pochi metri dalle abitazioni. Irrorando anche gli ignari pedoni o ciclisti che transitano sulle “pedemontane” (pista ciclabile compresa). In teoria, ma solo in teoria, ci sarebbero distanze da rispettare: 30 metri in primavera e 20 in estate da strade e case. Ma siamo nel profondo Nordest… qua la gente lavora, cazzo!

Se la fauna indigena (uccelli, anfibi, farfalle…) langue, patisce e scarseggia, in compenso sui Berici si vanno diffondendo come la peste altre categorie che non mi sembra arbitrario definire «altamente nocive». Parecchi i piccoli imprenditori riciclati provenienti dall’edilizia, ma non mancano professionisti (notai, dentisti, avvocati, giudici…) e pensionati di lusso. Tutti impegnati a speculare sulla monocultura della vite (letteralmente «la nuova industria del NordEst»; stessa scuola della palma da olio in Indonesia, si immagina) avvelenando l’aria e i terreni con una mistura infernale di veleni, pesticidi tossici, sostanze cancerogene e interferenti endocrini vari. Tra cui anche l’ormai tristemente noto glifosato, responsabile delle inquietanti strisce arancioni (“agente orange” vi ricorda qualcosa?) tra i filari. Il famigerato erbicida stava per essere bandito dall’Europa, ma da ‘ste parti invece si continua a usarlo (fino a “esaurimento scorte” forse?).

Succede in «campagna» (in Veneto si fa per dire: diciamo quanto ne rimane nel dilagare di aree cementificate industriali-artigianali) come in collina.

Da notare che sovente i responsabili sono gli stessi. Ossia chi ha già devastato la pianura costruendo capannoni poi magari si accaparra un “buon ritiro” dove giocare al contadino con modalità da piccola industria. Utilizzando per lo più forza-lavoro costituita da immigrati (marocchini, sikh…) sottopagati e in nero.

Questo il paesaggio con rovine in cui sprofondano le mitiche ville palladiane.

Come nel trevigiano e nel veronese (oltre ovviamente al Friuli) la febbre del prosecco e affini dilaga ormai anche nel bellunese e nel vicentino.

Obiettivo ormai raggiunto per gli speculatori, la produzione di oltre mezzo miliardo di bottiglie (parlando solo di prosecco) entro il 2019. Da esportare, preferibilmente, in Stati Uniti e Gran Bretagna. Ma anche Russia e Cina non scherzano, pare.

Prezzo da far pagare alla collettività: sbancamenti, distruzione del bosco, inquinamento diffuso. Ieri in Altamarca (beffardamente proposta come patrimonio dell’Umanità all’Unesco) e oggi sui Colli Berici.

Le colline intorno a Longare, Castegnero, Nanto, Mossano, Barbarano, Villaga, Sossano… vengono sottoposte a un trattamento già ben conosciuto da Maserada, Sernaglia, Valle del Soligo, Vittorio Veneto, Valdobbiadene, Conegliano…

Invano l’anno scorso era stato denunciato – da Legambiente – l’ulteriore ampliamento dell’area destinata alla coltivazione della vite (altri tremila ettari, da 20.250 a 23.250) per la produzione del prosecco doc (“controllata”? Ma dai…).

Lo scopo di questo ulteriore ampliamento (a spese – ricordo – del bosco e della biodiversità) responsabile di ulteriore sfruttamento e devastazione per il territorio, sarebbe garantire «la stabilità e l’equilibrio del mercato» (neoliberismo, malattia cronica del capitalismo).

Per quanto riguarda il prosecco in particolare (ma il discorso vale in generale) in un editoriale della rivista «Nuova Ecologia» si poteva leggere: «I vigneti di glera, il vitigno da cui si ricava il prosecco, vengono piantati dove storicamente non ci sono mai stati, anche in aree paludose o esposte a nord, non vocate per clima e composizione del terreno: questo implica un utilizzo ancora maggiore di fitofarmaci. I trattamenti, poi, si fanno in momenti diversi, perché ciascun viticoltore decide in autonomia quando farli (“liberisticamente”, in totale deregulation nda), quindi ogni anno è un’irrorazione continua fra primavera ed estate». E continuava: «Il vero problema è la diffusione della monocoltura. Si pianta ovunque: in mezzo alle case, vicino ai corsi d’acqua».

Quanto ai – presunti – regolamenti regionali introdotti per limitare l’uso di fitofarmaci nelle aree urbanizzate (come appunto i paesi, ampliatisi a macchia d’olio in anni recenti, del Basso Vicentino) e il divieto – sempre presunto – di utilizzare gli erbicidi, vengono ampiamente inficiati dalle numerose deroghe promosse dalle amministrazioni locali. Fatta la legge (a scopo propagandistico?) si scopre l’inganno: ossia che si tratta solo di “suggerimenti” NON obbligatori.

Sempre presumibilmente a scopo mimetico-propagandistico, nel 2011 il Consorzio del prosecco superiore Doc aveva adottato un protocollo viticolo che prevedeva «una riduzione dei prodotti chimici da utilizzare nei vigneti, escludendo del tutto i più pericolosi per la salute umana e l’ambiente». Ma anche qui l’adesione era “su base volontaria”.

Ribadisco. Sui Colli Berici i vigneti si vanno sostituendo a quanto rimaneva dei boschi con un vero e proprio stravolgimento del paesaggio. Ormai quasi di norma i brutali sbancamenti e livellamenti, ottenuti interrando doline e demolendo affioramenti rocciosi. In genere con le ruspe, talvolta (vedi anni fa sopra Castegnero) anche utilizzando l’esplosivo. Oppure (era accaduto a San Gottardo) è l’intera sommità di una collina a essere spianata.

La produzione di vino (e di prosecco in particolare) sta diventando «la nuova industria del Nordest».

L’attuale “corsa al vigneto” è sostanzialmente opera di speculatori in gran parte provenienti dal mondo della piccola impresa (sia dall’industria che dall’edilizia), culturalmente estranei all’agricoltura tradizionale, senza legami affettivi con il territorio in cui vedono soltanto una possibilità di sfruttamento e rapido arricchimento.

Altro che “Patrimonio dell’Umanità”. Capitalismo e profitto.

LA VIGNETTA – scelta dalla “bottega” – è di VAURO: vecchia ma (come certo vino di una volta) sempre buona. Non solo le trivelle ci avvelenano…

 

Redazione
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