Il voto e il vuoto

di Franco Astengo (sulle elezioni europee) e di Gian Marco Martignoni (sul terremoto del marzo 2018)

EUROPEE 2019: PER L’OPPOSIZIONE E L’ALTERNATIVA di Franco Astengo

Nel seguire l’attualità delle vicende riguardanti ciò che rimane in Italia della cosiddetta sinistra d’alternativa ci si sta imbattendo in una varietà di scelte riguardo alla partecipazione alle prossime elezioni europee del 26 maggio.

Ha sicuramente ragione chi ha scritto che il tema non deve essere quello di una presunta “unità della sinistra” ma bensì quello dei contenuti alternativi da presentare al giudizio di elettrici ed elettori: contenuti giudicati da molti efficaci soprattutto rispetto alla espressione di radicalità nell’indicare l’idea di abbattimento dell’impalcatura liberista e burocratica dell’Unione.

Si sono così praticate opzioni differenti tra i diversi soggetti: DEMA e Potere al Popolo hanno abbandonato il campo, mentre le forze che nell’attuale Parlamento Europeo hanno fatto riferimento al GUE saranno presenti sotto l’insegna della Sinistra Europea.

Naturalmente, sotto l’aspetto meramente elettorale, è da considerare l’eccessivo peso rappresentato dal numero di firme da raccogliere per chi volesse tentare la via della presentazione senza poter godere dell’appoggio di uno dei gruppi già presenti nel consesso parlamentare europeo.

Pare però che le scelte fin qui compiute, per come sono maturate appaiono complessivamente al di sotto delle necessità che il livello dello scontro esigerebbe e che le motivazioni adottate appaiono abbastanza insufficienti proprio sul piano del merito.

Provo così a formulare una valutazione di carattere generale: tra queste forze (ognuna delle quali esprime una propria debolezza) non doveva essere svolta alcuna trattativa ma soltanto un lavoro di elaborazione di alcuni punti comuni di carattere generale attorno ai quali realizzare l’impegno di tutti.

Intendiamoci bene: la soluzione proposta non doveva essere destinata, appunto, a realizzare una fittizia unità di “cartello” ma a delineare un profilo “alto” di presenza politica.

Il fine avrebbe dovuto essere quello di riuscire a collegare presenza elettorale a presenza politica allo scopo di consentire a determinati settori di ricominciare a riconoscersi dal punto di vista della loro identità partendo dal sociale per arrivare, finalmente dopo un lungo periodo di vacanza, al politico.

Si presentano però questioni di fondo che si collocano ben oltre il semplice appuntamento elettorale.

1)   La “questione europea” sulla quale si è molto puntato andava rovesciata rispetto all’impostazione che è stata seguita da tutti gli attori in campo. Discutere tra “disobbedienza immediata” e “proposte realizzabili già ora” è fuorviante e subalterno. Il punto da sostenere, fuori e dentro la campagna elettorale è come si può riuscire a porre al centro il tema della perpetuazione e l’inasprimento costante delle disuguaglianze e di tutte le storture accumulatesi nel tempo sul piano dei rapporti sociali.  La discussione deve vertere sul come, cioè, si porta la complessità delle contraddizioni articolate attorno a quella storicamente “principale” quale oggetto del contendere dello scontro politico a livello europeo. Ben oltre quindi il tema dei “trattati”. Il punto di fondo, anche nella campagna elettorale, dovrebbe essere quello della “ferocia” nella gestione del ciclo capitalistico in relazione ai mutamenti complessivi che stanno avvenendo nel quadro internazionale là dove si comincia a parlare di “fine del ciclo atlantico”.

2)    Il primo punto da considerare rimane comunque quello di evitare surrettizi accostamenti con la destra. In Italia Lega e M5S stanno governando all’insegna di una sorta di “partitocrazia qualunquista”. Sul piano della situazione interna appare evidente la necessità di impostare un’opposizione coerente all’attuale governo, mantenendo al contempo una rigorosa autonomia rispetto a proposte di “union sacrée” antifascista richiamante un “europeismo critico che rimarrà comunque di facciata.

3)   ) Sotto questo aspetto serve un’autonomia non semplicemente tattica. Il tema della politica interna, sicuramente il più delicato considerato che pare ormai smarrita anche da parte della sinistra d’alternativa e d’opposizione la capacità di esprimere l’allargamento della “contraddizione principale”, nel senso della modificazione profonda nel rapporto tra struttura e sovrastruttura. Allargamento della condizione di classe che si sta verificando in una fase di rivoluzione passiva mentre si combatte una guerra di posizione (termini desueti ma usati in quest’occasione per cercare di sintetizzare il discorso). E’ attraverso l’espressione delle molteplicità delle contraddizioni e la loro rappresentazione di lotta che si può combattere dialetticamente lo sfrangiamento sociale in atto che si esprime attraverso un passaggio dall’individualismo competitivo a una sorta di “individualismo della paura” (rientrano in questa categoria temi come quello dei migranti che naturalmente assumono una fortissima valenza anche sul piano etico).

4)   Sul tema delle contraddizioni riguardanti il piano interno, va sottolineato come emerga il tema che potrebbe essere riassunto schematicamente come “dell’unità nazionale”. E’ il tema del rapporto tra centralismo e autonomie locali che, dopo gli errori compiuto dal centrosinistra con la modifica del titolo V della Costituzione, sta degenerando in un tentativo di frazionismo localistico espressione dell’egoismo dei ricchi che deve essere affrontato maturando una strategia di nuovo equilibrio territoriale avendo presente come appaia ormai in ritardo un’idea regionalistica nel quadro europeo.

5)   Sinceramente non comprendo le esitazioni a mettere al primo posto la realtà delle condizioni materiali nel senso dello sfruttamento (e dell’ estensione di questa realtà verso un’articolazione molto ampia e complessa nei soggetti sociali di riferimento); in secondo luogo rimane eccessivamente sullo sfondo, nel tipo di presentazione elettorale che si sta delineando, l’aggancio alla storia e alla tradizione del movimento operaio compresa la capacità di sottolineare la propria autonomia e identità pur in un necessario esercizio di politiche di alleanza. Storia e tradizione del movimento operaio avrebbero dovuto essere espresse e trovare spazio anche nella stessa simbologia (particolare non trascurabile). Il tema della simbologia è stato invece affrontato addirittura con un referendum tra ignoti, con una dimostrazione di debolezza politica e non certo di apertura democratica.

6)  Femminismo ed ecologia, sia ben chiaro, fanno parte del discorso riguardante la complessità delle contraddizioni, l’allargamento dei termini “sociali” di sfruttamento e della crescita delle disuguaglianze. Senza ridurre il tutto agli “ismi”: economicismo e politicismo. Termini legati a una pratica politica largamente usata nel passato e nel presente e che, anche in questa occasione, non si è riusciti a superare.

7)   Infine le ragioni di natura istituzionale legate alla partecipazione alla campagna elettorale. Su questo punto sarebbe stato utile aprire una riflessione sul ruolo del Parlamento Europeo nell’ottica della definizione di una presenza politica che, in quella sede, risultasse in grado di porre stabilmente il tema dello scontro anticapitalista, sviluppando in quel senso presenza e giudizio anche attorno ai singoli provvedimenti (superamento dei trattati compreso)  considerando come il Parlamento rimanga il luogo della rappresentanza politica e nel nostro caso dell’opposizione nello sviluppo costante dell’indispensabile senso della critica radicale allo stato di cose presenti.

4 MARZO 2018: IL TERREMOTO NELL’URNA

di Gian Marco Martignoni

Per approfondire il terremoto politico del 4 marzo 2018 è senz’altro proficua la lettura dei saggi contenuti nella sezione “Lavoro e orientamenti elettorali” del fascicolo numero 4 dei “Quaderni rassegna sindacale” dell’anno scorso, poichè la riflessione complessiva – attraverso il supporto di una massa ingente di tabelle statistiche e la fondamentale suddivisione fra le tendenze registrate nei lavoratori e le lavoratrici iscritti al sindacato e i non sindacalizzati – permette di comprendere le cause e le ragioni del divorzio consumato, in proporzioni inedite, fra la sinistra e il mondo del lavoro.

Non che nel passato fossero mancati i segnali del progressivo allontanamento, in particolare dei lavoratori e lavoratrici sindacalizzati, dai partiti nominalmente pro-labour addirittura su scala europea. Infatti per Liborio Mattina già a partire dagli anni ’90 sono individuabili alcune linee di questa tendenza, in quanto la crescita delle diseguaglianze e le palesi difficoltà riscontrate dalle organizzazioni sindacali rispetto alla tutela delle condizioni di lavoro e salariali avevano minato il grado di soddisfazione nei confronti della democrazia, la fiducia nel complesso delle istituzioni ,nonchè quella nei partiti e nel ceto politico . La recessione economica esplosa nel periodo 2008- 2014 e la conseguente diffusione dell’insicurezza sociale hanno acuito queste insoddisfazioni, tanto che l’imprevisto e strepitoso successo nel 2013 del M5S ha comportato il dimezzamento dei consensi della sinistra rispetto alle elezioni del 2006. Quanto abbiano inciso nella percezione dell’elettorato del PD le scelte compiute al Lingotto dall’allora segretario Walter Veltroni, con l’infausta teorizzazione dell’equidistanza fra capitale e lavoro, e successivamente addirittura le politiche contro il lavoro perseguite da Matteo Renzi con il jobs act, la buona scuola e il referendum sulla Costituzione invisa al capitale finanziario, non sfugge alla pertinente analisi di Lorenzo De Sio. Il quale documenta come l’abbandono di una “identificazione di classe” abbia trasformato il PD nel partito di “una èlite economica più che culturale” determinando una completa rottura con l’immaginario delle classi popolari. Una tesi quella di De Sio che, guarda caso, coincide con le testimonianze dell’ inchiesta compiuta da Loris Campetti in alcune province industriali del nostro Paese, raccolte in seguito nel libro “Ma come fanno gli operai”.

Paolo Feltrin e Serena Mencarelli invece, nell’esaminare lo sfondamento della Lega al Nord – ove quadruplica i voti e soprattutto in Emilia-Romagna passa dal 2,6% al 19,2% – sottolineano come l’esito del 4 marzo sia di fatto un voto di carattere “economico-sindacale”, dal quale emergono due egemonie a base territoriale, nettamente differenziate rispetto alle parole d’ordine che hanno catturato la maggioranza dell’elettorato. Inoltre, pur non trascurando il sensibile impatto che ha avuto sui media il fenomeno migratorio, i due analisti insistono sulla centralità dell’insicurezza economica relativamente alla rivolta popolare di cui ha beneficiato il M5S nel Sud del paese, ove ha incamerato il 55,6 % dei suoi consensi complessivi. Rimarcando, tra l’altro,come i partiti tradizionali non abbiano previsto nei loro programmi proprio quella necessaria attenzione alle “politiche di promozione dei ceti medio-bassi”.

Infine, è rilevante il contributo di Nadja Mosimann, Line Rennwald e Adrian Zimmermann, poichè nell’affrontare l’avanzata delle formazioni della destra radicale e populista propone un interessante parallelo con la “demagogia pseudo-socialista” del fascismo, dimostrando come quel tipo di retorica mirava esclusivamente ad attrarre le fasce più deboli e acritiche del mondo del lavoro. La propaganda odierna contro l’immigrazione ha il medesimo obiettivo; così come le proposte in materia di un welfare sciovinista, rispetto all’ingresso degli immigrati nel mercato del lavoro o al loro accesso alle abitazioni popolari, sono studiate per contrastare l’idea di solidarietà propugnata storicamente dal movimento operaio. Questa strategia è non casualmente finalizzata alla delegittimazione del ruolo ricoperto dalle organizzazioni sindacali, giacchè – stante il venir meno del compito pedagogico assegnato sul piano valoriale ai partiti di sinistra – esse rappresentano il baluardo più ostile alla penetrazione dei messaggi reazionari all’interno delle masse e in generale nella società.

LE IMMAGINI – scelte dalla “bottega” – SONO DI GIULIANO SPAGNUL.

 

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