Ilva, otto domande al governo

di Alessandro Marescotti, Peacelink (*)

Ilva

Il governo, alla prese con la crisi dell’Ilva, è nel pantano fino al collo per cinque ragioni:

1) non riesce a trovare nessuno disposto ad accollarsi le perdite dell’Ilva: venderla è come vendere debiti a getto continuo;

2) gli impianti non sono stati messi a norma e la Commissione Europea ha avviato una doppia procedura di infrazione;

3) la crisi internazionale dell’acciaio rende l’Ilva una fabbrica che produce ogni anno perdite superiori all’ammontare complessivo degli stipendi dei suoi lavoratori;

4) la Commissione Europea ha avvertito il governo italiano che gli aiuti di Stato all’Ilva non sono consentiti perché falsano la concorrenza con le altre acciaierie che non ricevono aiuti di Stato;

5) la magistratura mantiene sotto sequestro gli impianti perché ritenuti pericolosi ed essi potevano continuare a produrre – come ha stabilito la Corte Costituzionale – solo alla condizione che gli interventi di messa a norma fossero tempestivi.

Di fronte a questi cinque formidabili problemi, il governo – con un emendamento al nono decreto Ilva – pensa di uscire fuori dal pantano con due mosse disperate:

A) concedere un ulteriore finanziamento statale di 800 milioni di euro all’azienda (che ha tre miliardi di debiti);

B) spostare al 30 giugno 2017 la messa a norma degli impianti.

Se – come noi non crediamo – quegli ottocento milioni di euro dovessero servire, a detta del governo, «al fine esclusivo dell’attuazione e della realizzazione del piano delle misure e delle attività di tutela ambientale e sanitarie», come verrebbe risolto il problema dei debiti che Ilva continua ad accumulare per la crisi del mercato internazionale dell’acciaio? E come potrà giustificare lo spostamento al 30 giugno 2017 della messa a norma degli impianti se essi dovevano essere messi a norma entro il 2015? Si crea un conflitto insanabile sia con la sentenza della Corte Costituzionale (che non concedeva proroghe alla messa a norma degli impianti) sia con la Commissione Europea (che non consente aiuti di Stato).

L’ultima mossa del governo di concedere finanziamenti e proroghe è quindi una mossa disperata e sconclusionata, destinata a scontrasi con le norme nazionali ed europee che non la consentono. Ma è destinata a scontrasi con il più elementare buon senso, in quanto si sta finanziando un’azienda che è decotta e fallita, che non ha futuro e che nessuno vuole prendersi, al di là delle cordate di facciata che avranno vita breve.

Guai a “credere” troppo in una società decotta. Se l’azienda è impantanata in una situazione di crisi grave e irreversibile è grave perseverare in un’attività improduttiva, anziché chiuderne i battenti. A queste conclusioni era giunta la Corte di Cassazione, con la sentenza 32899 del 26 agosto 2011.

Ci sono questioni a cui nessuno fino a ora ha saputo rispondere e crediamo che neppure in futuro qualcuno avrà soluzioni in tasca. Proviamo a sintetizzarle in otto domande.

Chi pagherà i tre miliardi di euro debiti che l’Ilva ha accumulato negli ultimi tre anni?

Come farà a pagare tale somma colossale quando deve ancora investire altri miliardi di euro per mettere a norma gli impianti?

Come farà a coprire la vastissima area dei parchi minerali da cui si disperdono ogni giorno le polveri che minacciano i polmoni dei cittadini?

Come farà l’Ilva a bonificare i terreni e la falda che da anni attendono la messa in sicurezza di emergenza?

Come farà a sopravvivere alla crisi strutturale del mercato dell’acciaio che nel 2015 ha fatto crollare del 45 per cento il prezzo internazionale dell’acciaio?

Come mai l’Ilva non ha presentato il bilancio negli ultimi tre anni?

Come mai non ha presentato il piano industriale?

Come è possibile pianificare la messa a norma degli impianti senza avere un bilancio e un piano industriale?

Il governo non sa rispondere a queste otto domande. Il governo Renzi sta pasticciando con improvvisazioni di ogni tipo. Alla fine la soluzione sarà inevitabilmente quella di scaricare i debiti dell’Ilva sugli italiani, con tasse sui contribuenti e mancati pagamenti di fornitori e creditori.

PeaceLink agirà a Bruxelles per fermare questa nuova disperata mossa del governo che vuole guadagnare tempo a un’azienda decotta e inquinante. Al contempo si impegnerà perché a livello regionale venga realizzata una commissione per la riconversione dell’Ilva con un piano B che sfrutti i finanziamenti europei per le aree di crisi industriale.

(*) ripreso da «Comune Info»

 

Redazione
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Un commento

  • Secondo me occorrerebbe proporre a Renzi ad alla Lorenzin:
    1) censire i casi di patologia professionale , individuare i disconosciuti dall’Inail e gli sconosciuti facilitando la riapertura dei termini per la corresponsione di rendite ai malati e di eventuali reversibilità alle vedove;
    2) istituire una commissione sanitaria pubblica che riesamini i casi “archiviati” negativamente e quelli da segnalare entro un anno con ampia pubblicizzazione della opportunità di segnalazione.

    In questa maniera si potrebbe, peraltro attingendo dalle casse dell’Inail, mitigare i danni subiti dal lavoratori , non tanto per l’aspetto economicistico della proposta, ma soprattutto pei il contenuto psicosociale che questa iniziativa avrebbe.
    Ovviamente non parto dal “sentito dire” ma da casi concreti che sono stati segnalati e non sono stati riconosciuti.
    Dobbiamo peraltro tenere conto del fatto che , negli ultimi anni, la classificazione di alcuni tuti professionali è passata da un livello di “incertezza” ad un livello di definitiva evidenza.

    Vito Totire, medico del lavoro

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