In autobus senza biglietto: possibile, necessario ed economico

di ANGELO MADDALENA

Se Templin (Germania) respira e parla ma Italia annaspa e non sente con qualche riflessione su rivolta organizzata e/o individuale

Avevo lasciato in sospeso una copia de Il gambero verde del 22 febbraio, inserto allegato a il manifesto. Lo volevo dare a una mia amica che gestisce un ristorante. Era rimasto su una sedia di casa mia per un paio di mesi abbondanti e ieri lo avevo messo nella zona giornali da bruciare nella stufa. Stamattina mentre mi dedicavo ai miei pochi minuti di silenzio (“5 minuti fatti bene” era il motto del mio ex allenatore di calcio Rocco D’Anna: lì si parlava di esercizi di preparazione atletica, qui spirituale) mi è caduto l’occhio sul titolo di prima pagina di quel Gambero verde abbandonato e fra poco bruciato: «I ragazzi della via Gru». E’ un titolo che allude, come poi ho appurato, al “saccheggio del suolo in Italia”: cementificazione sfrenata ecc. Sotto vedo un trafiletto con titolo-foto di un autobus urbano: Templin (Germania): la città con i mezzi pubblici già gratuiti: «Mobilità dolcissima a Templin, città natale di Angela Merkel. Dal 1997 i trasporti pubblici sono gratuiti per sostenere la battaglia contro l’inquinamento. E’ un modello positivo che funziona e che potrebbe estendersi anche in altre città non solo tedesche. A Templin l’aria è pulita, le strade decongestionate e i passeggeri sono cresciuti di cinque volte».

Nel mio libro Amico treno non ti pago – ma è una storia che tiro fuori in altri miei scritti e libri, tipo il recente Ricordare Milano – ho parlato di Liberobus, cioè autobus urbani gratuiti: è successo a Verbania qualche anno fa con una giunta di centrosinistra. Avevo sentito parlare anche di una città (o forse più di una?) in Francia che applicava lo stesso principio.

Il trafiletto nella prima prima pagina di quel Gambero Verde diventa articolo che riempie l’ultima pagina dell’inserto: «Bus antismog a Templin» (con foto grande della cittadina: a 76 km da Berlino, tra i laghi dell’Uckermark, Brandeburgo). «Una grande notizia per le migliaia di piccoli-medi Comuni tedeschi prigionieri di smog e traffico, ma anche la soluzione su misura per i borghi italiani, egualmente condannati alla morte per inquinamento. Il modello Templin, su larga scala, è ancora tutto da verificare. Ma rimane la prova sul campo che abolire il biglietto non solo si può fare, ma porta vantaggi visibili, respirabili e perfino ascoltabili! Il risultato è sorprendente quanto scontato: aria più pulita, strade decongestionate e decibel ridotti a sopportazione d’orecchio». A un certo punto dell’articolo si accenna a un dato che io spesso cito quando si parla di questi argomenti: «Rivoluzione fattibile. Anche perché solamente il 37% dei costi dei tram, bus e metropolitane si finanzia con il prezzo del biglietto. Paga lo Stato, come dappertutto, eppure riducendo l’entrata si moltiplica il numero di persone che utilizza i mezzi pubblici». In Italia e in generale in Francia so che il biglietto contribuisce a coprire una percentuale che va dal 15 al 25% del budget di un’azienda pubblica di trasporti. Poi negli ultimi anni queste aziende (autobus, tram e anche treni) ricevono molti finanziamenti dagli sponsor che si fanno pubblicità sulle fiancate di tram e nelle stazioni (per esempio a Milano Centrale i megaschermi, che illustravano un tempo gli orari dei treni, oggi sono coperti da video messaggi pubblicitari…mega). Tutti questi provvedimenti che tardano ad arrivare potrebbero essere accelerati da una pressione popolare: molto aiuterebbe l’esprimere spesso nelle situazioni quotidiane la consapevolezza e l’urgenza di abbassare i prezzi dei biglietti. Ma questo non potrà avvenire soltanto con rivendicazioni teoriche, paludate e immobiliste. Ci sono stati e ci sono in Italia e all’estero spinte dal basso verso l’autoriduzione dei biglietti dei mezzi pubblici e sono da incoraggiare fortemente. La cosa più triste che ho dovuto appurare – da quando ho iniziato a vivere pienamente questa esigenza – a livello individuale e collettivo è stata una sorta di autorepressione e di depressione psicopolitica soprattutto in soggetti che pensavo dovessero dare respiro a istanze del genere: amici del circuito del commercio equo e solidale a altri sedicenti alternativi mi hanno testimoniato immobilismo, paura di affrontare la realtà, incapacità di gestire l’ansia interiore, come direbbe Ivan Illich (e potrei parlare anche di molti frequentatori di centri sociali, movimenti come No Tav ecc.). Tutte le nostre ansie interiori non gestite portano sia a una depressione personale che a un immobilismo collettivo.

Un altro elemento che ho riscontrato è stato il “collettivismo esasperato” (figlio di una cultura di matrice comunista, riscontrata anche in certi ambienti anarchici troppo “organizzativisti”) che impone una linea piattaformista, della serie: o facciamo una cosa tutti insieme, organizzati e coordinati, oppure niente; l’iniziativa individuale è vista quasi come minaccia all’organizzazione collettivista. Badate che questi elementi sono ancora più gravi e insopportabili oggi che un po’ di decenni fa, quando almeno esisteva un tessuto comunitario e di resistenza popolare, per cui se ti organizzavi, effettivamente c’era un movimento di persone a cui collegarsi o che seguiva l’onda: si pensi alle autoriduzioni che dagli anni ’50 agli anni ’70 e anche oltre portavano migliaia di proletari ad autoridursi le bollette, gli affitti, i mezzi pubblici, seguendo l’elementare principio del “se sono sotto paga non ti pago” (come in una famosa pièce teatrale di Dario Fo e Franca Rame). Oggi invece l’individuo è l’ultima risorsa rimasta, cioè siamo costretti a un individualismo politico, che poi diventa collettivo nella consapevolezza, nella comunicazione, attenzione. Don Lorenzo Milani diceva 50 anni fa le sagge parole: «salvarsi da soli è avarizia, salvarsi insieme è politica»; come Danilo Dolci mobilitava migliaia di contadini siciliani con gli scioperi alla rovescia. Lo potevano fare perché esisteva ancora un tessuto collettivo popolare; in Sicilia c’era un movimento contadino, prima dell’emigrazione negli anni ’50 e ’60 che ha spezzato le possibilità di organizzarsi e di ritrovarsi insieme. Questo lo dice anche Baumann, in alcuni suoi scritti: chi oggi si voglia appellare e aggrappare a una comunità ormai sempre più inesistente, si troverebbe come un naufrago su una zattera fatta di carta. Da questo appellarsi inutile e frustrante a una comunità che non c’è più si sviluppano i fanatismi etnici di matrice fascista, leghista ecc ma derivano anche le frustrazioni non elaborate che portano all’immobilismo e al legalitarismo di tanti nati negli anni ’70 che pure “militano” in movimenti o gruppi o frequentatori di luoghi e contesti (sedicenti) alternativi e “di resistenza”. La cosa interessante e triste è che il brodo culturale di molti uomini e donne del commercio equosolidale è cattolico o comunista o cattocomunista, nell’accezione di Lorenzo Milani e più recentemente di Alex Zanotelli (ma anche Arturo Paoli, Antonino Bello, padre Turoldo ecc purtroppo un po’ dimenticati negli ultimi anni). A parte le etichette, il senso cattocomunista potrebbe riassumersi così: l’analisi della società fatta da Marx può andare bene ma l’azione politica più efficace e realmente rispondente a una esigenza individuale, quindi della persona, e insieme della comunità, viene dalla tradizione o dalla cultura cristiana, perché la cultura marxista concepisce l’individuo in quanto facente parte di una società, quasi annullando la sua importanza in quanto persona singola, unica e preziosa … al di là e non solo in quanto facente parte di una collettività. Qui è lo snodo cruciale: la rivoluzione, l’insurrezione, metafisica e fisica, partono o comunque non possono fare a meno dall’assunzione della propria responsabilità individuale, oggi più che mai. Una cosa simile la diceva Pasolini: la ribellione non deve essere troppo codificata, anzi deve essere individuale, si deve comunicare certo ma non troppo organizzare né appunto codificare.

L’IMMAGINE – scelta dalla redazione – è del vignettista (“nostro” cioè amato) Mauro Biani.

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