In caso d’emergenza, mantenere la calma?

di Lorenzo Tosarelli

     «Noi non cerchiamo un’ utopia. La società utopica è per definizione perfetta e le cose perfette automaticamente cessano di progredire; pertanto la stessa concezione di utopia è conservatrice se non reazionaria. Questo è l’errore di molti, compresi i cosiddetti comunisti». (Mack Reynolds)

Le cosiddette scienze umane ci aiutano a districarci in ciò che nella vita in società risulta misterioso e incomprensibile. Scienze che, imperfette e fluide, sono un ausilio, un insieme di caselle per una sorta di spiegazione, un percorso per l’uomo che non vive da solo ma, ovviamente, con e attraverso i suoi simili. L’economia non si sottrae a questo compito. Un’economia che tenga conto del proprio lato “umano”, ancora meno. Deve agire per l’uomo e non viceversa. Non è autosufficiente, deve prendere atto di essere parziale ed è quindi tenuta a confrontarsi con altre discipline.

Perché sia completa e utile, è bene che sappia guardare al lungo periodo; che sappia ragionare in prospettiva, cosa che l’emergenza e la necessità del provvedimento immediato fanno solitamente affievolire e dimenticare. Per ritrovare la sua funzionalità “umana” non può, come spesso emerge in questo frangente storico, essere considerata come una sorta di divinità, sacra e intoccabile.

E le teorie economiche, di conseguenza, come possono diventare fedi sul cui altare sacrificare il lavoro, i diritti, il tempo libero, la salute, l’aria, l’acqua, la terra, la sopravvivenza stessa del nostro pianeta1?

 

Da manuale, l’economia è l’insieme delle attività atte a produrre e distribuire ricchezza. Se dunque essa è stata inventata dall’uomo per vivere meglio, proprio su questa finalità va valutata.

Siamo ormai al capolinea del nostro modello: le disuguaglianze economiche sono cresciute vertiginosamente anche nei Paesi occidentali. Questa è la strabiliante e drammatica novità. Dal 1990 la disuguaglianza è aumentata in 14 dei 18 Paesi del G20, mentre la crescita economica continua a escludere i più poveri. Il 50% dei poveri del mondo vive nei Paesi del G20.

Il rapporto Oxfam 20122 mostra inoltre che ridurre il divario è possibile: in Brasile, ad esempio, dal 1999 al 2009, quasi 12 milioni di persone sono uscite dalla povertà assoluta grazie a una politica di maggior distribuzione dei redditi.

Noi però siamo a un punto morto: il capitalismo, irrazionale e ormai fuori controllo, ha prodotto squilibri, ingiustizie, irrimediabili catastrofi ambientali3.

Questo modello economico non è la risposta al problema di un miliardo di persone che sono affamate o sottonutrite nonostante le risorse naturali siano sufficienti ai bisogni dell’intera umanità4.

La sovrapproduzione (con relativo inquinamento e distruzione del pianeta), i conflitti per il controllo delle risorse energetiche e naturali, l’incredibile concentrazione delle ricchezze, la deregolamentazione e la speculazione finanziaria hanno contribuito a creare una crisi mondiale senza precedenti.

Ma politica ed economia non hanno dubbi: la rotta resta invariata, si prosegue sulla stessa strada verso il baratro, curandoci con la stessa medicina che ci ha portato al collasso5.

In Grecia e in Sud Europa, “l’austerity” è la nuova divinità. Ma con preoccupazione rileviamo che le ricette prescritte da Bruxelles e Francoforte sono le stesse manovre imposte dal Fondo Monetario Internazionale e Banca mondiale agli Stati dell’America Latina e del Terzo Mondo dall’inizio degli anni ’80. Decenni di austere terapie monetariste e privatizzazioni non hanno mai fatto prosperare alcun Paese; li hanno invece lasciati stremati, impoveriti, socialmente più feroci. Il debito è aumentato, la forbice tra ricchi e poveri si è sempre più allargata.

 

Ora, nel mondo occidentale, la crisi viene abilmente sfruttata per smantellare le conquiste dei lavoratori e del welfare residuo. E, a regolare il tutto, sono posti coloro che hanno contribuito al crollo. Medesimo virus come terapia; un esempio calzante lo viviamo in Italia, dove un consulente della maggior banca mondiale coinvolta negli scandali e nel crack finanziario viene presentato come l’emblema della neutralità, a capo di un governo formato da “tecnici” legati al mondo della finanza europea.

«Creare il problema e offrire la soluzione». Così Noam Chomsky definisce questo metodo di controllo in tutta la sua paradossale limpidità6.

Attraverso la propaganda si cercano nuove strategie: le parole vanno cambiate, bisogna nascondere il conflitto, mascherare l’ideologia. I ministri che compongono il nostro governo sono quasi tutti banchieri, ma è come se non si potesse dire. Il governo è “tecnico”, neutro, apolitico. Tecnico e oggettivo come un idraulico che ripara il lavandino; come se ci fosse qualcosa di ideologico nel cambiare un tubo. Ma l’assenza di ideologie non è una solida ideologia?

«Strategia desoggettivante» la definisce Wu Ming: «l’utilizzo dell’espressione i mercati rimanda a un funzionamento oggettivo e ferreamente razionale dell’economia, una logica ineludibile alla quale dovremmo uniformarci, perchè è l’unica cosa da fare, non c’è alternativa. Numerosi gli esempi di neo-lingua: austerità e rigore. Termini che un tempo indicavano due virtù (l’accontentarsi di poco e un’inflessibile coscienza etica) ora indicano due obblighi a cui deve sottostare la parte debole della società, affinché quella forte possa restare ricca.

Oggi austerità significa rinunciare ad assistenza e servizi sociali, e rigore significa tagliare la spesa pubblica (ma solo quella destinata agli ammortizzatori sociali, non certo quella riguardante le grandi opere come la TAV Torino-Lione).”7

Le politiche neoliberiste sono state così legittimate sul piano culturale e ideale, attraverso un asettico, neutro e intoccabile diktat economico.

Ci si è specializzati in flessibilità e lavoro temporaneo. Si è sostenuto a gran voce che il mercato guida indiscutibilmente ogni decisione, anche a livello locale. Privatizzare, precarizzare e delocalizzare per raggiungere manodopera schiava a buon mercato.

Non è il mercato a sbagliare, si sostiene unilateralmente, è l’errore umano, il suo connaturato egoismo, la sua incapacità di gestire il libero arbitrio, non un sistema che è intrinsecamente fondato sul lucro e trae linfa vitale dallo sfruttamento di uomini e risorse8.

Nonostante le manovre venissero sconfessate punto per punto, gli interessi di banche e finanza hanno continuato a ricevere sostegno anche della parte politica che avrebbe dovuto tutelare i diritti dei lavoratori e dei settori più deboli della società; così il governo più ideologico, dogmatico e asservito alla finanza della storia della Repubblica si è presentato come scientifico e super partes.

E su questo non si discute, anche se in democrazia.

 

Non c’è nulla di democratico in una parentesi “tecnica”. Gli analisti ed esecutori di ciò che l’UE impone non hanno alcun interesse nel coinvolgere la società civile; nel fare in modo che tutte le parti sociali, specie quelle che più vivono con difficoltà la pesantezza della crisi, abbiano voce nella prassi politica.

Lo stato di emergenza, spesso invocato più a livello mediatico che formale, può diventare un preoccupante grimaldello per scardinare le sicurezze democratiche, i diritti dei cittadini e, talvolta, eludere le norme. Come nello stato di guerra, il fine giustifica ampiamente i mezzi e, anzi, sembra che talvolta coincidano: l’urgenza delle manovre esige verticalità dei rapporti, non condivisione democratica.

E’ interessante osservare alcuni casi in cui la dichiarazione arbitraria dello “stato di emergenza” ha giustificato provvedimenti e manovre del tutto inadeguate alla stessa risoluzione delle difficoltà e al dibattito pubblico. Il far fronte a una situazione straordinaria (solitamente catastrofi naturali) può avere come immediata conseguenza la parziale riduzione di alcune libertà fondamentali. Ma fino a che punto?

Di fronte alle emergenze, reali o mediatiche che siano, instillare nel senso comune la mancanza di assunzione di responsabilità e la fiducia nella delega è il perno sul quale vengono giustificate le ingiustizie e, spesso, anche la repressione.

L’emergenza potrebbe essere paradossalmente il momento in cui più si necessita di libertà, se ci si rende conto che, invece che dipanare le questioni complesse e impreviste, viene sfruttato il caos per raggirare vincoli e norme a beneficio di interessi personali.

Lo stesso concetto (se vogliamo assistenziale, paternalistico) della gestione dell’emergenza, immerso nella cultura privatistica e speculativa, è una trappola micidiale per la democrazia.

L”emergenza immigrati”, a esempio, ha introdotto una spina nel lessico quotidiano. Ha autorizzato lo “stato della paura”, giustificato la diffidenza, la preoccupazione. Ogni mezzo è diventato legittimo per far fronte “all’imminenza dei barconi che invadevano le nostre coste”.9

L’emergenza, come in stato di guerra, può condurre a terribili provvedimenti che si insinuano nel sistema giuridico, aggirando il normale iter democratico. Spesso, su questioni dove la relazione, la condivisione, la partecipazione del cittadino, sono indispensabili.

 

Un altro chiaro esempio di gestione e sfruttamento criminale di un’emergenza ci viene suggerito dalla nostra storia recente, quando il 6 aprile del 2009 una forte scossa di terremoto distrugge il centro del capoluogo abruzzese, L’Aquila.

Il primo motore che si mette in moto è quello della propaganda. Pone i riflettori sui leader politici che portano caritatevolmente il loro sguardo commosso e la loro assistenza alla debole comunità smembrata e scioccata.

Sapremo poi di avidi speculatori che nascosti agli sguardi pubblici quel 6 aprile «alle 3 di notte ridevano», consapevoli del gruzzolo che stava per profilarsi nelle loro tasche.

Nulla appare in televisione sulla gestione militarizzata dell’emergenza nei campi della protezione “civile”, nulla sul “metodo Augustus” di comando e controllo, niente sulla condizione limitante e totalizzante delle tendopoli, (non)luoghi apparentemente sicuri, ma alienanti.

Il potere pubblico di cittadini ed enti locali viene immediatamente paralizzato.

I provvedimenti sulla gestione dell’emergenza, e quindi sulla ricostruzione di una città (spazio fisico e sociale) vengono varati attraverso il sistema dei “commissari”.10

La sovrapposizione dei poteri commissariali a quelli ordinari hanno portato a una paralisi. Analogamente al governo tecnico, si è passata la palla ai commissari, immobilizzando la ricostruzione.11

I “tecnici de L’Aquila” invece, sono stati svelti a varare immediatamente leggi sulla costruzione ex novo, all’oscuro di cittadini e comitati. Anzi, senza lasciare il tempo e lo spazio fisico di ricreare movimenti, organizzazioni, predisponendo come obbiettivo quello di sfaldare una comunità, impaurita, debole, resa volutamente incapace di reagire.

L’esclusione del cittadino dalla prassi democratica è la mossa più spietata e intelligente per gli sciacalli del territorio pubblico e per il business del mattone.12

 

La storia insegna che non solo su un piano etico ma anche a livello funzionale è fondamentale coinvolgere direttamente il cittadino e che, per evitare le catastrofi, la società civile deve sempre essere presa in considerazione come organismo attivo: durante la rivoluzione russa si è provato a collettivizzare le terre e creare un sistema più egualitario, ma i disaccordi sono subito nati, aspri e difficilmente risolvibili se non con la violenza. Fra le file degli stessi contadini nascevano i primi oppositori: chi, il proprio pezzo di terra, non era disposto a cederlo.

E’ invece attraverso il coinvolgimento diretto della comunità, attraverso l’educazione popolare che si riesce in un modo molto più efficace a portare avanti un cambiamento, un’alternativa resistente, come a esempio in America Latina13.

 

Jean Jacques Rousseau, nel suo «Contrat Social», modella alcuni fervidi concetti che ci possono aiutare. «L’uomo vive in società, ed essa è la sua linfa. L’egoismo irrazionale (immorale, distruttivo) è un problema che deve essere risolto. Per questo la politica – dice Rousseau – non può limitarsi a un algebra delle forze, ha un compito di ben altra portata: deve trasformare gli individui nella loro moralità, estirpare alla radice ogni propensione anti-sociale».14

Ma finché siamo immersi in un sistema capitalistico, questo si rivela irrealizzabile, e la democrazia non può essere tale.15

E’ importante quindi tenere gli occhi aperti verso le nuove forme di reazione e riorganizzazione democratica che in questi ultimi anni hanno urlato l’impossibilità e l’assurdità di proseguire in questa direzione. Dal referendum islandese per la remissione del debito, alle ondate di scioperi in Gran Bretagna, alle “primavere arabe” e ai movimenti “Occupy” statunitensi, spagnoli e di altri Paesi.

Le istanze delle associazioni e delle comunità organizzate però, come nel caso del movimento NO-TAV, o come nelle rivolte che hanno attraversato le strade di un Paese straziato come la Grecia, ricevono solamente risposte repressive. Quindi, nella paura, e nello straordinario, fuori dalla democrazia, si continua a governare meglio.

Ma, come a L’Aquila, i Paesi non respirano più: soffocati i sindacati e le organizzazioni, appannato il senso di responsabilità e la coscienza del bene comune, vacillante l’idea che attraverso le relazioni e una nuova forma di democrazia diretta si possa uscire dal tunnel in cui siamo bloccati. Siamo schiavi del presente, ma la consapevolezza tarda a divenire forza trainante. Cosa si aspetta? «Il semplice fatto che qualcosa ci appaia inevitabile non dovrebbe indurci ad accettare supinamente» ci ricorderebbe Philip Dick.

L’attivismo e la nascita di movimenti sono in questo periodo storico l’opposto della tecnocrazia; per combattere quella propensione anti-sociale, come la definisce Rousseau, l’alternativa ce la possono indicare proprio i nuovi movimenti di partecipazione16.

Dice il filosofo sloveno Slavoj Zizek rivolgendosi ai manifestanti di Occupy Wall Street: «Sappiamo ciò che non vogliamo, ma cosa vogliamo? Quale organizzazione sociale è in grado di sostituire il capitalismo? Che tipo di nuovi leader auspichiamo?».

 

La rivoluzione francese, 250 anni fa, ha mirato alla libertà. La grande rivoluzione russa, molto sangue dopo, ha rincorso l’uguaglianza, dimenticandosi della prima.

Il capitalismo si trascinerà dietro, ancora per poco, solamente la propria autodistruzione: la nuova società avrà un nuovo volto? Si chiamerà dei Beni Comuni o Socialismo del XXI secolo?

Occorre nuova politica e organizzazione, perché l’1% non lascerà tutto spontaneamente.

E, qualunque sia l’esito che va a tratteggiarsi, un grande autore – Eduardo Galeano – può venirci in aiuto, lasciando un invito: «Lei è all’orizzonte. Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare».

 

Note:

 

1. In un’utopica società, come citato in testa, anche l’economia ci si auspica possa essere un importante fondamenta per costruire uguaglianza, equità, libertà, diritti del singolo e del collettivo. Come possano convivere questi ultimi è una spinosa questione. ma è la chiave economico-sociale per interpretare il mondo moderno che tra flussi di denaro e di persone, consacra un’insicurezza e una sofferenza diffusa, indomabile, globale.

 

2. Oxfam Italia, «Dimenticati dal G20? Come il degrado ambientale e la crescita economica iniqua lasciano indietro i più poveri», Oxfam Italia, 2012

3. Una stretta élite mondiale controlla finanza, industria, commerci, informazione, risorse naturali, anch’esse ormai prosciugate. Ogni anno l’Overshoot Day cade prima: quest’anno abbiamo esaurito le risorse disponibili il 22 agosto.

 

4. Commenta Luca Chinotti, portavoce di Oxfam Italia: «Il fatto che 870 milioni di persone – più della popolazione di Usa, Europa e Canada messi insieme – sono affamati in un mondo che produce abbastanza per tutti, è il più grande scandalo dei nostri tempi».

 

5. Dentro il paradosso: dopo essersi preoccupati di deregolamentare ogni possibile movimento dell’intero mercato finanziario, istituti di credito hanno giocato a scommettere sui nostri risparmi, a investire dove prima era impossibile, a originare quantità indescrivibili di denaro dal nulla. A questi, spesso definiti “usurai legalizzati“, i fondi statali hanno già versato 4,1 trilioni di euro. Le conseguenze di queste misure sono sotto gli occhi di tutti, e non rientrano più nell’emergenza, bensì nella quotidianità. Non possiamo più non pagare il debito. Siamo incatenati ai voleri di organi transnazionali, senza sovranità monetaria, e continuiamo ad aumentare il nostro debito stanziando per le banche cospicui bottini.

 

6. «Ora offrono la soluzione»: le stesse banche d’investimento che hanno giocato d’azzardo con i risparmi del mondo, gli stessi che hanno finanziato politici, amministratori e professori accademici per legittimare il loro disonesto operato, sono i medesimi impassibili tecnici che, austeri e imparziali, rivitalizzano la nostra “traballante economia di sprechi pubblici.”

 

7. Wu Ming, «A caldo: che cos’è questo golpe?», 19 maggio 2012

8. A riguardo, potremmo precisare con Karl Marx: «Voi rabbrividite al pensiero che noi aspiriamo a sopprimere la proprietà privata. Però nella vostra società la proprietà privata è abolita per i nove decimi dei suoi membri; anzi, essa esiste proprio in virtù del fatto che non esiste per i nove decimi. Quindi voi ci deplorate per il fatto che aspiriamo a sopprimere una proprietà la cui condizione necessaria è la mancanza di proprietà per la stragrande maggioranza della società».

 

9. Facile constatare che, in seguito, il confronto democratico è potuto avvenire solamente tenuto conto di questo assunto culturale, mediatico, volontariamente imposto.

 

10. Grazie ai commissariamenti, ogni prospettiva di ricostruzione svanisce velocemente. L’idea privatistica del controllo del territorio, prevale sullo sforzo dei cittadini di ricrearsi protagonisti nella ricostruzione, nella partecipazione. La possibilità di discutere le opzioni urbanistiche attraverso la concertazione degli organi pubblici, la necessità di esternare i bisogni fisici e sociali degli aquilani viene sacrificata in nome del profitto. La città crolla e muore anch’essa. Come viene mortificata la democrazia dalla Spa di Bertolaso, che nasconde l’immondizia dietro la politica assistenziale. Il luogo pubblico viene così ceduto.

 

11. Quelle dei tecnici, infatti, sono state imposizioni di dovere che, per definizione, hanno scavalcato l’opinione pubblica, il cittadino. Lo spazio lo si è lasciato al business, al privato, agli amici per gli appalti, cementificando irragionevolmente ettari coltivabili.

 

12. Ricorda l’antropologo culturale aquilano Antonello Ciccozzi: «il lato oscuro di questa (ri)fondazione veicolata da un’emergenza rimanda a un sistema di finalità in cui i propositi sociali di aiuto umanitario paiono spesso eccessivamente contaminati da complessi di interesse votati a usare la catastrofe anche come pretesto per praticare strategie nazionali di profitto economico e di propaganda politica».

 

13. L’ America Latina si trova oggi in una condizione economico-sociale decisamente migliore rispetto ai decenni di oppressione politica, povertà e indebitamento economico. Questo grazie a un percorso progressivo di disobbedienza civile, democrazia diretta, rifiuto della delega e coinvolgimento delle fasce popolari: politica dal basso, orizzontale. Non grazie all’intervento tecnocratico degli specialisti che parlano altre lingue, altri codici, ed escludono ogni forma di democrazia e attivazione popolare (esigendo però fiducia per il loro impegno professionale ed imparziale).

 

14. Alberto Burgio, «Insostituibile Rousseau», su «il manifesto» del 1 maggio 2012.

 

15. Secondo Burgio «questo tormentato percorso rivela che gli interessi particolari sono qui e ora troppo forti perché sia possibile coniugare partecipazione (esercizio dell’autonomia individuale e collettiva) e giustizia sociale. Rousseau vede precocemente un dilemma base della democrazia borghese: intuisce (sta qui un nesso profondo con Marx) che soltanto dopo che sarà cambiata la struttura sociale (e con essa la configurazione concreta degli interessi) sarà possibile produrre una forma politica realmente democratica. Sino a quel momento, la politica potrà tutt’al più ridurre i contraccolpi distruttivi del rapporto sociale capitalistico».

 

  1. Per citarne alcuni: un anno fa la grande maggioranza degli italiani ha sancito che l’acqua è un bene comune sulla quale non si possono fare affari. Devono essere i cittadini organizzati a gestirne l’uso e il consumo. Ma la scuola, la salute, l’informazione, non sono altrettanto beni comuni? Ugualmente, fuori dall’ Italia, in decine di Paesi nel mondo (Usa, Europa, Nord Africa) milioni di cittadini hanno manifestato definendosi il 99%, rifiutando il concetto stesso di leader, proponendo nuovi modelli di giustizia, democrazia e partecipazione.

Bibliografia (in ordine alfabetico)

M. Bertorello, D.Corradi, «Capitalismo Tossico. Crisi della competizione e modelli alternativi», Edizioni Alegre, Roma, 2011.

N. Chomsky, «10 strategie della manipolazione attraverso i mass media» (anche su questo blog).

M. D’Eramo, «Benvenuti nel capitalismo reale», su «il manifesto» del 12 ottobre 2012.

A. Dal Lago, «Non persone. L’esclusione dei migranti in una società globale», Feltrinelli, Milano, 1999.

P. Dick, «La trasmigrazione di Timothy Archer», Fanucci, 1982.

E. Galeano, «Parole in cammino», Sperling & Kupfer, Milano, 2006.

L. Gallino, «La lotta di classe dopo la lotta di classe», Laterza, 2012.

K. Marx, F. Engels, «Manifesto del partito comunista», 1848,

T. Montanari, L’Aquila modello Disneyland, «Il fatto quotidiano» del 12 aprile 2012.

Oxfam Italia, «Dimenticati dal G20? Come il degrado ambientale e la crescita economica iniqua lasciano indietro i più poveri», Oxfam Italia, 2012.

M. Reynolds, «Ed egli maledisse lo scandalo», Urania Mondadori, 1966.

J. Rousseau, «Il vontratto sociale», 1762.

Save the children UK, «A life free from Hunger. Tackling child malnutrition», Save the children, London, 2012.

S. Zizek, «E’ finito l’inchiostro rosso», 10 dicembre 2011

 

Redazione
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