in difesa di topi, sorzi, moreie, moreiete e pantegani
Una provocazione di Gianni Sartori
Sono in completo disaccordo con l’intervento di Laura Puppato (*) in merito al riconoscimento della Lengoa veneta per almeno due ragioni.
La prima: fermo restando che la differenza sostanziale tra lingua e dialetto rimane quella ben nota (avere o meno un esercito, un apparato statale) bisognerebbe saper guardare oltre le strumentalizzazioni operate da destra di lingue e culture regionali. In passato regionalismo, federalismo, difesa delle culture locali (linguaggi compresi) erano patrimonio della sinistra; in altre parti d’Europa (vedi Euskal Herria, Paisos Catalans…) difesa della propria lingua e autodeterminazione convivono tranquillamente con programmi di sinistra, anche radicale.
E nessuno ironizza sulle differenze locali di una lingua. Per l’euskara esistono almeno una quindicina di varianti, ma questo non ha impedito la normalizzazione di una lingua comune.
La seconda: fra tutti gli esempi possibili di varietà linguistica Laura Puppato ha scelto il “topo”. In veneto: moreia, moreieta, sorze, pantegan… sostenendo ironicamente che potrebbero esserci problemi di interpretazione in caso di un’ordinanza pubblica di derattizzazione. Mi è sembrato poco carino, sinceramente, soprattutto verso i poveri roditori.
Anche perché la presa di posizione sulla lingua veneta della Puppato ha goduto del sostegno di Andrea Zanoni, fino a prova contraria un difensore dei diritti degli animali. Visto che stavolta ai topi non ci ha pensato lui, provo a rivestire i panni dell’avvocato d’ufficio.
Ho sempre pensato che pubblicando nel 1975 il suo libro «Clandestini in città» (dedicato a piante e animali che vivono in habitat urbano) Fulco Pratesi strizzasse l‘occhio a quei fenomeni di antagonismo più o meno radicale che si diffondevano all’epoca in Italia. O forse il titolo, come quasi sempre, era stato imposto dall’editore. In ogni caso risentiva del clima dell’epoca.
Il concetto veniva poi ribadito nel capitolo “La guerriglia dei ratti” dove si raccontavano le epiche battaglie fra il Rattus norvegicus (ratto delle chiaviche o surmolotto) e il cugino Rattus rattus (ratto comune detto anche ratto nero) più piccolo e scuro. Mentre i primi vivono soprattutto vicino agli inquinati fiumi e rogge urbani, oltre che nelle fognature e nelle cantine, i ratti neri superstiti preferiscono tetti e solai delle vecchie case.
Entrambi non sono autoctoni dell’Europa. Il ratto nero sarebbe arrivato dal Medio Oriente verso il XII secolo, probabilmente al seguito delle navi dei Crociati, diffondendosi ovunque in mancanza di competitori. Per gli storici avrebbe costituito il veicolo principale della peste nera che nel Medioevo provocò stragi nelle città europee. Il surmolotto, più grande e dal pelame più chiaro, sarebbe arrivato più tardi dalle steppe dell’Asia centrale. Una prima ondata venne avvistata nell’autunno del 1727, mentre attraversava il Volga, al prezzo di migliaia e migliaia di esemplari annegati. Esiste in proposito la testimonianza di un predecessore di Michele Strogoff. Un corriere dello zar, dopo averne avvistati decine di migliaia mentre avanzavano nella steppa, si era lanciato al galoppo per sfuggire all’orda. Si salvò attraversando un fiume dalle acque vorticose che aveva momentaneamente rallentato l’avanzata. Questa prima ondata arrivò fino in Boemia e in Galizia. L’autore della favola del pifferaio di Hammelin si sarebbe ispirato a una di queste improvvise invasioni. Successivamente, nel 1739, il surmolotto arrivò in Gran Bretagna, forse con le navi provenienti dall’India. Quindici anni dopo aveva già attraversato la Manica e invaso Parigi.
Agli inizi dell’800 proliferava nell’intera Europa. E poi, con battaglioni da sbarco clandestini (come scrive Pratesi) nascosti nei bastimenti, eccolo nel Continente americano.
Più vorace, prolifico e adattabile (con una sofisticata organizzazione sociale), il ratto delle chiaviche spodestò dal sottosuolo e dalle aree limitrofe (con più rifiuti e quindi più possibilità di alimentarsi) il ratto nero, relegandolo nei sottotetti.
Indirettamente avrebbe quindi gradualmente ridotto le pestilenze che con il tempo restarono solo un brutto ricordo.
Un esempio di come una maggiore biodiversità, diluendo la possibilità del contagio, possa avere effetti benefici anche per la nostra specie.
Quindi, la prossima volta che vedete un “sorcio” fuoriuscire dal tombino provate almeno un po’ di compassione.
(*) che a me Laura Puppato sta pure simpatica. L’avevo anche intervistata (http://pdnoventavicentina.blogspot.it) all’epoca della candidatura alle primarie del PD, anche se poi non avevo capito la sua “deriva renziana”; scrisse che il Matteo «era stato consacrato dal voto popolare». Ma si può?
all’elenco “rattesco” veneto aggiungo il veronese “moréciola”, detto dei topini ma l’ho sentito anche per definire un bimbo particolarmente piccolo e magrolino….. per andare al veronese scritto 8 secoli fa suggerisco : “De Babilonia infernali” scritto da frà Giacomino da Verona >
https://it.wikisource.org/wiki/De_Babilonia_civitate_infernali
https://it.wikipedia.org/wiki/Giacomino_da_Verona