In povertà assoluta il 9,4% degli italiani

di Gianluca Cicinelli

A piccole onde, come un mare che lentamente erode le rocce la povertà continua con costanza a crescere nel nostro Paese, persona dopo persona, famiglia dopo famiglia. Sono ormai considerate secondo l’Istat assolutamente povere oltre due milioni di famiglie e 5,6 milioni di singole persone. Lo stesso istituto di ricerca fa notare che mentre fino al 2019 il dato sembrava aver invertito la tendenza verso il ribasso ha invece ripreso a salire in tutto il 2020, sconvolto dalla pandemia da covid. Possiamo dire che circa il 10% della popolazione italiana vive attualmente in regime di enorme difficoltà economica, 2 milioni di famiglie sono il 7,7% del totale e 5,6 milioni di individui rappresentano il 9.4% del totale. Tra questi troviamo un milione e trecentomila bambini alla cui condizione economica di povertà si aggiunge quella educativa. Un dato stratosferico in un momento in cui gli interventi di contrasto riguardano l’emergenza mentre la crescita della povertà strutturale è divenuto un dato con cui dovranno fare i conti gli investimenti derivati dall’accesso italiano al Recovery Fund. Persone senza l’indispensabile per condurre una vita quotidiana dignitosa.

Nel 2019 il dato si era attestato sul 6,4% per le famiglie bisognose e al 7,7% per gli individui. A sorprendere gli economisti è la distribuzione territoriale dell’incremento di povertà che stavolta vede protagonista il Nord del Paese, dal 5,8% al 7,6%, anche se in termini numerici assoluti la povertà delle famiglie resta più alta nel Sud d’Italia. La fotografia della penisola nel 2020 è ribaltata rispetto a un anno prima, passando da una sostanziale equa divisione tra il 43,4% di poveri al Nord e 42,2% al Sud alla prevalenza decisa del Nord con il 47% di famiglie povere che al Sud si attestano al 38,6%. Stesso andamento anche per il conteggio in termini d’individui, per cui nel settentrione si registra il peggioramento più marcato, complessivamente il 45,6%, dal 6,8% al 9,3%, con il nord-ovest al 10,1% e il nord-est all’8,2%, e due milioni e mezzo di poveri assoluti, distribuiti per il 63% nel Nord-ovest e il 37% nel Nord-est. Al Sud i poveri assoluti sono il 40,3% del totale, in cifre 2,259 milioni, divisi per il 72% nel Mezzogiorno e per per il 28% sulle isole.

E’ il bollettino di una strage in corso che falcidia le speranze di futuro di un’intera popolazione. Ce ne accorgiamo se andiamo a scorporare i dati in base all’età, perchè tra i giovani, cioè in un’età compresa tra i 18 e i 34 anni, la povertà assoluta va oltre la media nazionale, con l’11,3% sul totale, mentre per la classe successiva, quella tra i 34 e i 64 anni si arriva al 9,2%, sopra i 65 anni invece il dato è inferiore alla media nazionale con il 5,4%. Lascia increduli il dato che evidenziavamo in apertura relativo ai minori. Sono 1,3 milioni, il 13,5% contro la media nazionale del 9,4%. Per bambini e ragazzi il tasso di povertà assoluta è cresciuto esattamente di due punti dal 2019, 11,4% contro 9,4%. e in generale sono di molto peggiorate le condizioni dei minori passando dall’11,4% al 13,5%. Nel caso non fosse chiaro quando parliamo di persone in povertà parliamo di persone a cui manca dal cibo all’abitazione.

Fin qui gli interventi del governo sono stati a carattere caritatevole, ma non saranno i buoni spesa o gli interventi umanitari di numerose associazioni attive nella distribuzione del cibo a risolvere la situazione. I dati dell’Istat relativi al 2020 non prescindono dalla rete di sostegni messa in piedi dal governo, quindi i dati sono in realtà ancora più gravi di quanto appaiano in superficie. La povertà assoluta per chi è in cerca di occupazione è rimasta stabile al 19,7% ma per gli operai è cresciuta dal 10,2% al 13,2%, mentre partite iva e lavoratori autonomi, che non erano inseriti nella rilevazione della povertà del 2019, sono il 3,2% su un totale di 5 milioni di persone. Qualche osservatore ha fatto notare come la crescita della povertà al nord porti con sè un’implicita ammissione che gli aiuti di Stato sono stati insufficienti per il settentrione, storicamente in cima alla lista dell’offerta di occupazione e quindi più colpito dalla crisi e dalla perdita di posti di lavoro. La rete di protezione attuale è quindi inadeguata nel momento in cui stanno per venire meno i sostegni e misure come il blocco dei licenziamenti e il sostegno alla Cassa Integrazione. La foto che ci consegna l’Istat è quella di un Paese dove al primo posto dell’agenda politica deve essere inserita la riforma dello stato sociale.

ciuoti

Un commento

  • Giuseppe Scuto

    La riforma dello Stato Sociale non può avere alla base il finanziamento delle imprese. L’impresa privata è una entità che lotta nazionalmente e internazionalmente per superare le altre imprese: la sua sopravvivenza e la sua eventuale floridezza sono l’espressione di una guerra per il controllo della produzione e del mercato. Guerra che produce disoccupazione, accumulo delle ricchezze in poche mani, devastazione sistematica dell’ambiente. Lo Stato Sociale può esistere se controlla il lavoro e la produzione.
    Può sembrare un discorso vecchio, superato e perdente, ma è così Non credo che possa esistere un equilibrio fra il benessere delle popolazioni e l’estrazione del profitto economico e finanziario se il mercato controlla se stesso e, in parte la società. Lo Stato, se è l’espressione di una collettività, deve governare se stesso, sulla base di un criterio di eguaglianza sociale.
    Per l’appunto, questo si chiama socialismo e non c’è altra strada.

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