India: popoli – e lingue – minacciati dal “progresso”

di Gianni Sartori

Ancora nel secolo scorso attenti studiosi baschi avevano colto un preciso segnale. La trasformazione del paesaggio tradizionale in Euskal Herria spesso coincideva con la perdita dell’euskara, la lingua più antica d’Europa.

Un fenomeno analogo è stato poi ampiamente documentato e analizzato in alcune regioni dell’India. Lo storico Rozenn Milin, fondatore del progetto Sorosoro («soffio, parola, lingua» in araki) sostenuto dalla Fondation Chirac, era rimasto colpito osservando «fino a che punto le carte della biodiversità linguistica si sovrappongono a quelle della biodiversità della fauna e della flora». E come entrambe fossero – e siano – minacciate nella loro sopravvivenza.

Nel febbraio 2010, all’età di 85 anni, era scomparsa Boa senior, l’ultima persona in grado di parlare la lingua Bo, un tempo diffusa nell’arcipelago delle Andaman e delle Nicobar. Se le parole rappresentano una visione del mondo, questo linguaggio, in grado di indicare dozzine di varietà di bambù e centinaia di specie di uccelli, esprimeva il profondo legame delle popolazioni indigene con la natura. Ogni mattino Boa senior si rivolgeva agli uccelli e agli animali sperando in questo modo di farsi comprendere dagli spiriti degli antenati.

In India, secondo un rapporto dell’Unesco pubblicato all’epoca, le lingue minacciate erano almeno 196 su un totale di 1635. Fra queste 37 sono attualmente parlate da meno di mille persone. Nella maggior parte dei casi si tratta di lingue unicamente orali che non dispongono di dizionario e grammatica. In India il multilinguismo è un elemento fondante dell’identità nazionale, ma soltanto l’hindi, l’inglese e altre 22 lingue regionali, riconosciute dalla Costituzione, vengono utilizzate per l’insegnamento. Quindi sono proprio le popolazioni con un maggiore tasso di alfabetizzazione quelle che rischiano di perdere la lingua tradizionale. Da quando il 77% dei Deori, una tribù dell’Arunachal Pradesh, è in grado di leggere e scrivere, la loro lingua viene considerata «seriamente minacciata» dall’Unesco. Un fattore decisivo, più ancora del calo demografico e della diffusione della televisione, sarebbe rappresentato dalla “diluizione sociale” provocata dalla costruzione di strade (come quelle della National mineral development corporation nelle foreste del Dantewada) che irrompono nei territori delle comunità indigene. Contemporaneamente si starebbero diffondendo nuove “lingue da contatto” come l’halbi o il chakesang, ma questo non può compensare la scomparsa delle lingue tradizionali. D’altra parte nelle autorità indiane esiste timore (non dichiarato, ma fondato) che una politica in difesa delle lingue minoritarie possa alimentare richieste autonomiste e separatiste.

ADIVASI IN RESISTENZA

Ma gli Adivasi, le popolazioni indigene della “cintura delle foreste” dell’India centrale (detta anche “cintura tribale”) non rischiano di perdere soltanto linguaggio e identità. Da tempo è in gioco è la loro stessa sopravvivenza fisica.

Da quando su questi territori si è posata la cupidigia delle multinazionali, desiderose di impossessarsi dei ricchi giacimenti di minerali grazie ai Memorandun d’intesa (Mou) stipulati con il governo. Tra i casi più drammatici, le colline dell’Orissa abitate dai kondh e ricche di bauxite.

Come per la biodiversità e le lingue ancestrali, altre due mappe coincidono. Quella della “cintura tribale” si sovrappone al “corridoio rosso”.

Da vari decenni la resistenza degli adivasi opera in sintonia con i guerriglieri maoisti del Pci-m, conosciuti come naxaliti.

Il nome deriva da un villaggio del Bengala occidentale – Naxalbari – dove nel 1967 iniziò la rivolta contadina contro lo sfruttamento da parte dei proprietari terrieri e dello Stato. Armati di archi e frecce, 150 contadini attaccarono i latifondisti e per alcuni mesi presero possesso di campi e fattorie, prima di venir sconfitti dalle armi automatiche dell’esercito. Ma poi la rivolta prese altre strade e prosegue, come si racconterà più avanti.

Contro le popolazioni indigene non operano soltanto le compagnie minerarie.

Nel 2006 suscitò scalpore l’arresto dell’eco-attivista Medha Patkar, da mesi in sciopero della fame contro il «piano Narmada» (Narmada Valley Development Project). La sua protesta era solo l’ultimo episodio di una lotta lunga ormai venti anni contro la distruzione di centinaia di villaggi e di intere vallate e foreste.

Lo sfruttamento delle risorse idriche in India ha portato alla realizzazione di oltre 3.000 (tremila!) dighe sul fiume Narmada e i suoi affluenti. Verso la fine del 2005 si era celebrato il ventesimo anniversario dell’inizio della resistenza popolare contro questi devastanti progetti che – insieme alla dignità e ai diritti dei nativi – calpestavano ogni rispetto per l’ambiente naturale. Interi villaggi erano scomparsi sotto le acque dei bacini, mentre contadini e popolazioni tribali a loro volta “scomparivano” negli slums delle città, cessando di esistere come comunità. A fianco di Medha Paktar si era schierata la scrittrice Arundhati Roy, da sempre in prima linea contro le dighe e per la difesa dei nativi.

«Non si è certo potuto celebrare la vittoria (le dighe purtroppo stanno ancora aumentando) ma comunque» – mi aveva spiegato allora Daniela, una freelance veneziana di Cinema-Ambiente (che faceva parte della delegazione di cinquanta persone invitate alla commemorazione) – il bilancio non è negativo perché, anche dopo due decenni, si continua a lottare».

La regione del fiume Narmada non è facilmente percorribile: «ci si sposta solo in barca, da una parte all’altra del fiume dove sorgono i villaggi, o con lunghe marce attraverso la foresta. È comunque un territorio bellissimo, di grandiosa solitudine».

«Le manifestazioni – aveva continuato Daniela – sono state un’ulteriore occasione per protestare contro uno sviluppo super accelerato e devastante che qui sfrutta le risorse idriche, ma i problemi sono analoghi dove il territorio viene distrutto dalle estrazioni minerarie».

Certo la lotta delle popolazioni tribali contro le dighe in genere non faceva notizia. E – va detto – non lo fa tuttora dato che il problema comunque persiste e la censura impera. Si preferisce parlare «della irresistibile crescita economica dell’India, della Borsa di Bombay che va a mille, di una ricchezza complessiva enorme, dei ristoranti pieni e dei consumi di lusso» che sembrano essere diventati un elemento caratterizzante dell’India. Ma esiste un’altra faccia del Paese asiatico: «la realtà sempre più drammatica di un’India contadina e tribale». Proprio nei giorni della commemorazione del 2005, l’ecologista veneta aveva incontrato i superstiti di Bhopal che dopo una marcia di ottocento km. «erano arrivati a Delhi per chiedere la rimozione della fabbrica chimica e la bonifica del terreno». Come da manuale la polizia, nonostante fosse una marcia pacifica, li aveva duramente caricati! Daniela aveva protestato indignata: «Questo sviluppo accelerato sta creando problemi gravissimi e lo Stato risponde con la forza alle proteste della popolazione».

Torniamo ai naxaliti e alla fine degli anni sessanta. Preso atto della temporanea sconfitta, un militante maoista – Charu Majumdar – iniziò a lavorare per costituire un’organizzazione in grado di operare su tutto il territorio indiano. Così nacque il «Comitato di Coordinamento dei Comunisti di tutta l’India» (AICCCR) nella prospettiva di un’insurrezione generale che coinvolgesse, oltre ai contadini e ai diseredati delle metropoli, anche gli adivasi (le popolazioni tribali preinduiste) e i dalit (gli “intoccabili”, vittime del sistema delle caste).

Per quanto dilaniato dalle faide interne (in particolare tra filo-cinesi e filo-sovietici) il movimento non mancò di attirare anche molti giovani provenienti dalle università. E in alcuni Stati (Andra Pradesh, Chhattisgarh, West Bengala, Bihar, Orissa, Karnataka… quello che poi verrà denominato “Corridoio rosso”) gli insorti arrivarono a sostituire le autorità ufficiali con governi locali autonomi in grado di amministrare la giustizia, riscuotere tributi, difendere il territorio dalla repressione statale. Almeno temporaneamente perché nel 1971 Indira Gandhi lanciò una sistematica campagna di rastrellamenti decimando il movimento guerrigliero. Catturato nel 1972 e rinchiuso nel carcere, Majumdar morì per le torture subite.

Qualche anno fa suscitò scalpore il fatto che un loro leader – Koteswar Rao – avesse chiesto alla scrittrice Arundhati Roy (sempre lei!) di svolgere un ruolo di mediatrice con il governo. Da parte sua Arundhati aveva accettato ma il governo indiano – così sensibile alle sirene delle compagnie minerarie e delle fabbriche di auto – si mostrò poco interessato.

Contro naxaliti e tribali alla fine del 2009 era stata avviata una nuova, violenta campagna militare denominata “Caccia Verde” con l’impiego di più di 75mila soldati.

Ma la guerriglia tribale si era saputa difendere, anche con azioni clamorose. Come nel 2010 quando aveva teso una imboscata ad un convoglio militare uccidendo 76 soldati.

Dopo anni di scontri alternati a fragili tregue, su questo conflitto a bassa (relativamente bassa) intensità, sembrava dover calare un definitivo silenzio. Rintanati nel folto delle foreste dell’India centrali, i ribelli apparivano intenzionati a non sortirne.

Invece erano tornati alla ribalta all’inizio del 2018 quando – il 24 gennaio – quattro agenti della polizia sono rimasti uccisi al margine della foresta di Abujhmad (nello stato del Chhattisgarth).

NOTA DELLA BOTTEGA

Su questi temi l’informazione in Italia è quasi nulla. Per questo vale almeno ricordare, oltre ai testi di Arundhati Roy (che, come quelli di Vandana Shiva, sono spesso tradotti in italiano) quanto scrisse Marina Forti in «La signora di Narmada» – uscì da Feltrinelli nel 2004 – raccontando 25 vicende di “sfollati ambientali” nel mondo… milioni di persone in lotta che però scompaiono dai media e dalla politica cioè dal diritto a esistere come esseri umani. [db]

 

 

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