Iniziare una guerra non è difficile, finirla è un rompicapo
articoli e video di Jeffrey Sachs, Alessandro Robecchi, Raniero La Valle, Nicolai N. Petro, Ted Snider, Alessandro Marescotti, Pasquale Pugliese, Ennio Remondino, Paolo Desogus, Fabrizio Poggi, Domenico Gallo, Marco Carnelos, Giacomo Gabellini, Sahra Wagenknecht
I perché di questa inutile guerra e come se ne esce – Jeffrey Sachs
La guerra d’ucraina compie due anni. Due anni di massacri, morti, distruzioni e dissesti economici che avrebbero potuto essere facilmente evitati. La verità è venuta a galla: questa è una guerra causata da un cinico sforzo trentennale degli Stati Uniti per mantenere la Russia debole, anche attraverso l’espansione della Nato in Ucraina. L’Europa, purtroppo, è uno dei due grandi sconfitti della politica statunitense, il più grande dei quali è naturalmente l’ucraina.
Non ci sarebbe stata nessuna guerra se gli Usa non avessero spinto per l’allargamento della Nato negli anni 90, contrariamente alla promessa fatta a Gorbaciov nel 1990: la Nato non si sarebbe mossa “di un pollice verso est”. Non ci sarebbe stata nessuna guerra se gli Usa non avessero allargato la Nato a 10 Paesi tra il 1999 e il 2004: Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia nel 1999; Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovenia e Slovacchia nel 2004. Non ci sarebbe stata nessuna guerra se la Nato non avesse bombardato Belgrado per 78 giorni di fila nel 1999, facendo a pezzi la Serbia. Non ci sarebbe stata nessuna guerra se gli Usa non avessero abbandonato unilateralmente il Trattato sui missili anti-balistici e non avessero iniziato a schierare i missili Aegis vicino alla Russia.
Non ci sarebbe stata nessuna guerra se gli Usa non si fossero impegnati a espandere la Nato all’ucraina e alla Georgia nel 2008. Non ci sarebbe stata nessuna guerra se gli Usa non avessero sostenuto il violento colpo di Stato contro il presidente ucraino Viktor Yanukovich nel 2014. Non ci sarebbe stata nessuna guerra se gli Usa (e Francia, Germania e Ucraina) avessero rispettato l’accordo di Minsk II nel 2015-‘21 per dare autonomia al Donbass. Non ci sarebbe stata nessuna guerra se gli Usa avessero negoziato con Putin le proposte della Russia per un nuovo accordo di sicurezza tra Washington e Mosca nel dicembre 2021. E non ci sarebbe stata nessuna guerra oggi se gli Usa non avessero bloccato l’accordo tra Ucraina e Russia che stava per essere finalizzato ad Ankara, in Turchia, nel marzo 2022.
Mentre tengono questo atteggiamento anti-russia, gli Stati Uniti incolpano costantemente la Russia. Ma il punto è che mirano da oltre 30 anni a mantenerla debole e geopoliticamente sottomessa. E il motivo è questo: gli Usa mirano a essere e a rimanere l’egemone globale del mondo, cioè la potenza mondiale con un “dominio a tutto campo” in tutte le parti del mondo, compresa l’europa. Questa politica comporta il fatto che una Russia forte costituisce una minaccia per l’egemonia statunitense, anche se non è una minaccia reale per gli Stati Uniti e per l’europa. Ora gli Usa stanno perseguendo lo stesso approccio nei confronti della Cina, adottando misure commerciali, tecnologiche, militari e finanziarie anti-cinesi per cercare di indebolire Pechino, incolpandola al contempo per il deterioramento delle relazioni.
Il fatto è che il presidente Vladimir Putin non avrebbe permesso alla Nato di entrare in Ucraina, su un confine comune di 2.000 km, tantopiù in quanto gli Usa sono dediti a operazioni segrete di “regime change” e a una politica di indebolimento della Russia. Questa ferma opposizione all’allargamento della Nato è evidente almeno dal 2007 (se non da prima), quando Putin chiese la fine dell’allargamento in un discorso molto pubblicizzato alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco. E da allora fu sempre molto chiaro. Putin lanciò l’operazione militare speciale il 24 febbraio 2022 con l’obiettivo circoscritto di costringere l’ucraina a tornare al tavolo dei negoziati. E la mossa funzionò. Zelensky stava per accettare la neutralità. Ma gli Usa intervennero e dissero all’ucraina di abbandonare il tavolo dei negoziati. Gli Stati Uniti sono pronti a combattere fino all’ultimo ucraino pur di indebolire la Russia.
Tuttavia la guerra non sta indebolendo la Russia, che oggi è più forte di due anni fa, militarmente, geopoliticamente ed economicamente. L’europa è rimasta in silenzio, mentre gli Stati Uniti e gli alleati facevano saltare il gasdotto Nord Stream e lasciavano l’europa alle dipendenze del gas naturale liquefatto statunitense a costi molto elevati. Tutto molto triste. Ora la Germania, il presunto “motore” dell’eurozona, è bloccata in una recessione con una crisi economica a lungo termine sempre più profonda.
La maggior parte dei leader europei che favoriscono l’approccio statunitense sono molto impopolari presso i propri elettori. Il problema, ovviamente, è che non stanno perseguendo i veri interessi dell’europa. È ora che l’europa difenda i suoi interessi, che sono la pace, lo stop all’allargamento della Nato all’ucraina, un sistema di sicurezza basato non sulla Nato ma sull’osce (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) e il ripristino delle relazioni economiche con la Russia. L’ucraina potrebbe essere in pace – e in sicurezza – come Paese neutrale, con confini negoziati (per esempio, la Crimea rimarrebbe parte della Russia e sede della flotta navale russa del Mar Nero) e altre condizioni. Questa possibilità era sul tavolo già nel marzo 2022 e potrebbe essere realizzata anche ora al tavolo di un negoziato.
L’europa deve scegliere se seguire l’egemonia degli Usa nella guerra perpetua contro la Russia e la Cina, o se invece dotarsi di un sistema di sicurezza proprio che risponda ai suoi reali bisogni e interessi. In questo sistema, la Russia giocherebbe un ruolo costruttivo e l’ucraina sarebbe un Paese neutrale sostenuto dalla sicurezza collettiva in Europa.
Wolfgang Streeck (Max Planck Institute): “La guerra è persa, ma i nostri governi si rifiutano di ammetterlo”
Wolfgang Streeck, direttore emerito del Max Planck Institute for the Study of Societies di Colonia, intervenendo il 24 febbraio 2024 al simposio organizzato da New Statesman per l’anniversario dei due anni dall’inizio del conflitto ucraino, ha offerto questa riflessione che vi presentiamo.
Queste le sue parole:
La guerra è persa, ma i nostri governi si rifiutano di ammetterlo. Fingono invece che possa ancora essere vinta – anzi, che debba essere vinta per evitare che “Putin” marci verso la Finlandia, la Svezia, gli Stati baltici e infine Berlino. Due anni fa ci era stato promesso che al più tardi entro oggi la Russia sarebbe stata completamente sconfitta, economicamente, militarmente e politicamente. Ma le nostre sanzioni si sono ritorte contro, non c’erano abbastanza carri armati Leopard II e i satelliti di Elon Musk hanno perso di vista il mondo a terra. La Russia potrebbe non avere più alcun motivo per tornare ai negoziati di pace iniziati a Minsk o a Istanbul. Può invece guardare gli americani che tornano a casa, come fanno sempre quando le cose vanno male, e osservare la disintegrazione dell’Ucraina. È ora di chiedersi chi ha portato gli ucraini in questo pasticcio – chi ha detto all’estrema destra ucraina che la Crimea sarebbe stata di nuovo loro? Per evitare queste domande, la classe politica europea è disposta a lasciare che il massacro continui sulla linea del fronte ucraino congelato – cinque anni, dieci anni – nessun problema, saranno solo gli ucraini a combattere. Ma cosa succede se si rifiutano di stare al gioco e di morire per i “nostri valori”?
La guerra è persa. Lo spiega con straordinaria sintesi uno dei principali studiosi tedeschi, ma il messaggio è duro ad arrivare ad una classe politica, quella europea, che ha scelto di perseverare nel suicidio imposto dagli Stati Uniti. Fino alla fine.
Il bianco della bandiera papale invita alla verità – RANIERO LA VALLE
Se il Papa, rispondendo alla Televisione svizzera, avesse parlato solo del negoziato, come fa incessantemente da quando è scoppiata la guerra, presentandolo come un dovere morale, oltre che politico, nessuno lo sarebbe stato a sentire, perché ormai le parole di buon senso non si possono più nemmeno pronunciare in questo mondo (occidentale) a una sola dimensione (la guerra).
Invece ha preso in carico la metafora offertagli dall’intervistatore e ha parlato di bandiera bianca, e tutti si sono indignati, soprattutto quelli, come Biden e i nostri giornali, che alla guerra ci mandano gli altri.
Ma al bianco era dedicata tutta l’intervista, come simbolo della purezza, della mitezza e della bontà, ed è venuta fuori perfino la ragione, a tutti ignota, per la quale il Papa è vestito di bianco, che non è quella di mostrarlo senza peccato (perché io pecco come gli altri, ha spiegato Francesco, uomo e non vicario di Dio, che di Vicari non ne ha sulla terra, o meglio ne ha otto miliardi, quanti siamo nel mondo) ma è semplicemente quella che Pio V era un domenicano, e perciò aveva l’abito bianco, e da allora è invalsa la tradizione di vestire di bianco anche i suoi successori (lo fa per la prima volta il cerimoniere, prima di annunziare che habemus papam).
Così, grazie alla simbologia del bianco, che non vuol dire affatto la resa, ma anzi il coraggio di restare umani quando si associa alla bandiera, tutti hanno dovuto raccogliere l’unica voce nel mondo, che mentre i più inneggiano all’impossibile e immancabile vittoria delle armate di Kiev, sempre più zeppe di armi e sempre più deprivate di uomini (e donne), dice che il re è nudo, quando il re (e ahimè, quale re!) è nudo davvero.
E perfino il Nunzio è stato convocato a Kiev, come l’ultimo degli ambasciatori, per fargli sapere che l’unica bandiera dell’Ucraina è giallo-blu, anche se purtroppo, oggi e chissà per quanto tempo voluto dai suoi “governanti”, è a mezz’asta.
La cosa singolare è poi che mentre Biden si è permesso di dire a Netanyahu che sta facendo la rovina del suo popolo (e anzi di tutti gli ebrei sparsi nel mondo), e nessuno gli ha dato sulla voce, anche perché è sacrosantemente vero, tutti se la sono presa con papa Francesco che laicamente ha fatto anche un discorso di sapienza e convenienza politica.
Messo tutto insieme, quello che ne viene fuori è che nella demenza pandemica, che sembra essere la vera seconda epidemia di questo inizio secolo, i poteri che ci governano stanno tornando al 1939, quando la Germania, cominciando dalla Polonia, voleva arrivare a Mosca, e diede avvio alla guerra mondiale, che allora era la seconda.
Come la Germania di allora, la Nato si spinge verso Est, e come si legge sul Fatto il ministro degli Esteri polacco ha rivelato che “il personale militare della Nato è già presente in Ucraina” (europei compresi) e, siccome il mondo si è allargato, mentre si ammassano fascine per la guerra contro la Russia, il progetto è, dopo la Russia, di eliminare la Cina.
Ma oggi in più c’è l’atomica, i missili, i droni, e anche la carne da cannone è aumentata, dato che sulla Terra siamo, appunto, in otto miliardi. Allora gli Stati Uniti non volevano intervenire, c’è voluta Pearl Harbour, mentre ora sono già qui, e un po’ di fascismo viene avanti anche da loro, e da noi c’è una cultura fascista al potere.
Chi esplicitamente si richiama al ’39 è Paolo Mieli, che rimpiange come a Roma ci sia papa Francesco, non uno come Pio XII (pensato come cappellano dell’Occidente): ma dalle carte segrete della Santa Sede pubblicate dopo la guerra risulta che Domenico Tardini, sostituto Segretario di Stato, voleva e scriveva che la guerra doveva finire non solo con la sconfitta della Germania nazista, ma anche con la liquidazione dell’Unione Sovietica e del suo comunismo.
In questa situazione chiedere di avere il coraggio di negoziare, “per non portare il Paese al suicidio” (e questo vale anche per Hamas con i palestinesi), non è una bestemmia, è un invito alla salvezza, un barlume di verità.
La scelta occidentale della guerra contro la Russia – Fabrizio Poggi
Stanno preparando la guerra e stanno approntando le condizioni interne per portarci in guerra. Ormai non è più, purtroppo, un modo di dire e lo dimostrano sia le sparate esterne su “aggressione russa”, “guerra nucleare russa”, “necessità di armare l’Ucraina per difendere il mondo libero dalla Russia”, sia le crociate democristian-fasciste per “serrare il fronte interno” contro le “interferenze russe”, e l’ostracismo contro chi venga accusato di essere «al servizio del Cremlino e della sua propaganda».
Dunque, all’esterno. Dopo lo “scandalo” dell’audio dei militari tedeschi a proposito dei missili “Taurus” contro il ponte di Crimea, la ministra della guerra tedesca, Annalena Baerbock non trova di meglio che sostenere la proposta del suo omologo britannico, David Cameron sulla “partita di giro” che dovrebbe salvare la faccia a Berlino: i tedeschi vendono i “Taurus” a Londra e questa fornisce a Kiev i “Storm Shadow”. Et voila.
Questo per le armi. Per quanto riguarda i veri e propri contingenti militari da inviare direttamente sul suolo ucraino, da un lato qualcuno sussurra, ma molto piano, che sia impossibile, altri non ci vedono nulla di «inimmaginabile» (ministro degli esteri polacco, Rodislaw Sikorski: il malefico consorte della famigerata Anna Applebaum), altri ancora affermano che una guerra con la Russia farebbe bene alle finanze interne (non specificando “di chi”). Questo perché, afferma per esempio il ministro degli esteri francese Stéphane Séjourné, la vittoria russa in Ucraina sarebbe catastrofica: solo nel settore agricolo, la Russia prenderebbe il controllo di oltre il 30% del mercato mondiale del grano. Dupont, Cargill e Monsanto ringraziano Parigi.
In ogni caso, si sta parlando di chair à canon europea: da parte USA (ma anche britannica, nonostante che le prime esortazioni di intervento diretto fossero giunte, prima ancora che da Parigi, proprio da Londra e che Stoltenberg avesse parlato di truppe straniere da dispiegare sul confine bielorusso-ucraino) si esclude per ora ogni invio di contingenti in Ucraina, a parte tutto il personale “civile” e militare che, soprattutto dal 2013, dirige e controlla ogni mossa dei nazigolpisti di Kiev. Stanno lì a darne dimostrazione le “Steadfast Defender 2024”, le più minacciose ed estese manovre dal 1988 che, con l’impiego di 90.000 uomini da 31 paesi NATO, hanno l’obiettivo dichiarato di elaborare azioni di guerra contro la Russia.
Tanto più che i media del vecchio continente, in vista della probabile vittoria di Trump, stanno insistendo sull’eventuale uscita yankee dalla NATO e il tirapiedi dei Rotschild, Emmanuel Macron, continua a farfugliare di reparti euro-NATO da spedire in Ucraina, ma, forse, ecco, vedete, non proprio sul campo di battaglia, ma, comunque, valuteremo, non è detto, forse anche là…
D’altronde – è questa la tesi di Dmitrij Tsybakov su Segodnja.ru – la strategia bellica russa si contraddistingue per la «metodica eliminazione» del potenziale militare ucraino in prima linea e nelle retrovie strategiche, evitando però di attaccare le strutture politiche e gli ideologi più russofobi: in tal modo, si riduce sensibilmente l’effetto psicologico manifesto di minare il morale nemico e si spingono i padrini esteri di Kiev all’ulteriore escalation del conflitto. Allo stesso modo, le uscite di Macron & Co. appaiono più che altro un’azione comunicativo-psicologia, rivolta a quelle forze russe che sembrano tuttora disponibili a un qualsiasi nuovo “Minsk” o “Istanbul”, pur di spostare il conflitto su un “binario congelato”.
Così che, afferma Tsybakov, è tempo per Mosca di inviare segnali chiari all’Occidente: non generiche dichiarazioni, ma «passi concreti sul fatto che nella questione ucraina la Russia è pronta ad andare fino in fondo», ad esempio fino a mettere in forse le relazioni diplomatiche con Parigi, se questa dà il via a preparativi per una guerra d’aggressione.
Guerra che, ad esempio l’osservatore di Rossija segodnja Rostislav Ishchenko, dà come già in fase di preparazione, considerandone quali sintomi l’improvvisa uscita di scena della malfamata Victoria Nuland, la decisione di Valerij Zalužnyj di “accontentarsi”, alla fine, del posto di ambasciatore golpista in Gran Bretagna e l’idea di Vladimir Zelenskij di far fare al ministro degli esteri Dmitrij Kuleba la stessa fine dell’ex Capo di SM. Vale a dire, sostiene Ishchenko, sullo sfondo della accentuata retorica militarista occidentale, con l’aperta minaccia di scontro militare diretto con la Russia, vengono messe via via da parte le figure il cui disegno era quello di garantire una guerra per procura con la Russia, sconfiggere Mosca e obbligarla a una pace alle condizioni occidentali, senza però trascinare l’Occidente stesso in un conflitto militare diretto.
Kuleba, al pari della Nuland, erano “diplomatici” dell’epoca della guerra per procura; così che ora i giochi diventano chiari. E Zalužnyj va a fare l’ambasciatore a Londra, dove forse ci si prepara ad accogliere un “governo ucraino in esilio” e si mettono a punto le candidature per futuri “ministri” e “presidenti”. Ma la ragione prima della partenza dell’ex Capo di SM per Londra è data dalla scelta USA-NATO a favore della guerra.
Finché a Occidente si tentennava, Zalužnyj è rimasto in attesa a Kiev, in qualità di «bandiera dell’opposizione a Zelenskij», da agitare insieme a Porošenko e simili, al momento di tentare la via delle trattative con Mosca, con l’obiettivo mantenere il controllo ucraino almeno sulla cosiddetta “riva destra” (del Dnepr), anche a prezzo di forti concessioni.
In tal quadro, il ruolo di Zalužnyj sarebbe stato (quasi) decisivo. Ma, a quanto pare, l’Occidente ha ora tutte le intenzioni di scegliere la guerra, dato che le condizioni di pace russe (con «garanzie di sicurezza per la Russia, che l’Occidente, anche volendo, non potrebbe violare, ma vuole» violare) paiono inaccettabili per l’Occidente.
Così, se ne è andato quasi un mese, per sondare la situazione, cercare di fare pressione sulla Russia, mostrando che l’Occidente è disposto anche a uno scontro aperto, pur di ottenere il consenso russo a concessioni territoriali, ecc. Finché, verso la fine di febbraio, la scelta è stata fatta a favore della guerra: sostituzione di figure sinora centrali, nuove posizioni esternate tra Parigi, Londra, Praga, con Scholz che cerca di schivare l’impegno chiaro, brutalità all’interno nella cosiddetta “gestione dell’ordine pubblico”, non solo in Italia… la scelta appare fatta.
Lo confermerebbero anche le retate di interi gruppi di giovani ucraini che tentavano di sfuggire alla mobilitazione forzata, effettuate negli ultimissimi tempi: Kiev ha bisogno di almeno 35-40.000 nuove reclute ogni mese, a fronte delle perdite calcolate in oltre 400.000 uomini dall’inizio della guerra e circa 50.000 ogni mese, tra morti e feriti. Tanto più che, secondo informazioni diffuse da RIA Novosti e provenienti dall’intercettazione di una chat detta “ParaBelum”, comandanti e soldati ucraini, anche di reparti d’élite, manifestano aperto malcontento per gli avvicendamenti ai vertici delle forze armate e cominciano a parlare di rovesciamento di Zelenskij, che il 20 maggio prossimo, scadendo il mandato presidenziale, decade da ogni legittimità senza possibilità di proroga.
Dunque, se Victoria Nuland e la sua squadra, tra quinte colonne interne e “rivoluzioni colorate”, avevano sinora operato con la “diplomazia del ricatto”, cercando però di ottenere la vittoria senza oltrepassare il confine della guerra, una volta deciso di superare la “linea rossa”, a Ovest sparisce il bisogno di “diplomatici professionisti” ed entrano in azione i novelli “Ribbentrop”.
Significa allora che la guerra è inevitabile? La guerra quasi mai è inevitabile. Ma altrettanto quasi mai se ne valutano fino in fondo tutte le conseguenze, sia prima di intraprenderla, sia una volta scatenata. Era accaduto lo stesso, per rimanere a un esempio che l’Occidente non dovrebbe scordare, con Napoleone in Russia, al quale avrebbe dovuto esser più che chiaro a cosa dovesse andare incontro, dando battaglia e perdendo un quarto della propria armata mentre era a duemila chilometri da casa. Questo, racconta Lev Tolstoj, era altrettanto matematicamente certo, quanto certa la sconfitta data l’inferiorità di pedine sulla scacchiera. E però, «Dando e accettando la battaglia a Borodinò, Kutuzov e Napoleone agirono involontariamente e senza senso. Solo successivamente gli storici, a fatti compiuti, ne hanno ricavato un intreccio di lungimiranza e genio dei condottieri che, di tutti gli strumenti involontari degli accadimenti mondiali, erano le figure più schiave e involontarie».
Oggi, chissà se resterebbero storici per raccontare e lettori per comprendere.
Forze speciali occidentali in Ucraina col trucco e il trucco di farcelo scoprire – Ennio Remondino
Le indiscrezioni del cancelliere tedesco Scholz che Francia e Regno Unito hanno spie e reparti delle forze armate in Ucraina per guidare i lanci dei missili Scalp e Storm Shadow è la rivelazione che il mondo è rotondo. Il New York Times insiste: «Per più di un decennio, gli Stati Uniti hanno coltivato una partnership segreta di intelligence con l’Ucraina», e il mondo lo sapeva da Maidan in poi. Poi Ivan Bakanov, ex-vertice del Sbu, il ‘Služba bezpeky Ukraïny’, il Servizio di sicurezza dell’Ucraina: «senza di loro [la Cia] non avremmo avuto modo di resistere ai russi».
Perché tanti protagonisti a svelarci quello che già tutti noi sapevamo? Qual’è il trucco ultimo dopo aver mascherato parte dell’apparato militare occidentale in trasferta da consiglieri diplomatici o consulenti quasi umanitari?
Forze occidentali in Ucraina a fare realmente cosa?
Basta gioco delle tre carte, sempre a perdere. Forse speciali occidentali schiarate in Ucraina NON CI SONO. Ma se cambi loro il nome, tipo ‘osservatori diplomatici’, o ‘consulenti tecnici in missione umanitaria’, e loro sono capaci di far funzionare certi armamenti troppo sofisticati, allora la risposta diventa un SÌ CI SONO. Ci sono da sempre, ma ora, il giornalismo meno scontato, coglie contraddizioni nuove e cerca di capire.
Un’agitazione sospetta
Stupisce l’agitazione generale che le parole di Scholz hanno suscitato, e lo stupore per Macron in versione napoleonica che già si vede al comando della nuova difesa europea. O il Washington Post a svelarci che «documenti trapelati lo scorso anno confermavano che alcuni paesi della NATO – tra cui Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia – avevano schierato un piccolo numero di forze speciali e consiglieri militari in Ucraina in ruoli non specificati, probabilmente legati al lavoro di supporto logistico e all’addestramento». Mentre il New York Times ha di recente ripercorso i dieci anni della Cia in Ucraina.
Quello che volevano farci scoprire
Il Cremlino che a ogni rivelazione occidentale pubblica, minaccia fuoco e fiamme dando la parola al sempre esagitato Medvedev, ma sempre e solo con minacce retoriche. Ed ecco che dobbiamo interrogarci su tante anomalie contrapposte ma coincidenti. Pesenza di operativi occidentali nota da tempo. Minaccia reale o garanzia di freno? Ancora Scholz che, in caso di consegna dei missili Taurus, dice che dovrebbe mandare in Ucraina anche suoi militari «per garantire che Kiev non li usi per colpire Mosca». Ed è plausibile che sia questo -missile più o missile meno- ciò che americani, francesi e britannici fanno da tempo.
Consiglieri-controllori. Logorare la Russia ma non farle guerra
L’obiettivo maggioritario della Nato è ufficialmente quello di logorare la Russia in Ucraina, ma non di farle guerra. Niente rischio di apocalisse nucleare. Ed ecco la ‘singolare’ e quasi paranoica forma di sostegno a Kiev, libera di usare armi occidentali, ma per colpire gli invasori solo nel suo territorio. Ed ecco che consiglieri militari e forze speciali col trucco, diventano di colpo ispettori e garanti del rispetto di una linea rossa siglata di fatto da Washington col Cremlino.
Russia obiettivo primario, Europa a seguire
Valutazioni politico strategiche più attente leggono una Nato diversificata al suo interno. «La corrente dominante della Nato, asse Usa-Regno Unito, che mira a fare di un’Europa ‘spaccata’ la più classica forma di satellite in termini di dipendenza militare», l’analisi di Andrea Muratore su InsideOver, con Parigi e Berlino divise sui metodi ma non sull’europeizzazione della sicurezza. «E il confronto con la Russia è visto come il sostanziale alibi per poterlo fare senza dover duramente rendere conto a Washington e Londra».
Falchi pro Nato a l’«ammuina»
Francia a Germania ‘a fare confusione’ per togliere argomenti ai falchi dell’Est Europa, baltici anti russi di storica tradizione, da sempre ostili a Mosca e ora in crisi di isteria securitaria, vogliosi di sempre maggiore pressione militare a oriente. Ed ecco che, per calmare certe spinte, la decisione presa sembra essere quella di riconoscere la presenza di operatori di forze speciali militari e d’intelligence a Kiev. «A sostegno dell’Ucraina ma non necessariamente ‘contro la Russia’», l’accorto distinguo.
La fine della guerra non sarà la fine della crisi
Washington e Londra hanno raggiunto l’obiettivo di spezzare l’asse russo-europeo, ma non ancora del tutto quello di trasformare l’Unione Europea a fedele gendarme atlantico.
Resta il problema tragico di quando potrà ancora reggere la crisi ucraina che appare senza sbocco. E siamo alla natura strumentale degli obbiettivi in nome dei quali la guerra in Ucraina continua a durare anche se strategicamente morta.
Masters of war La guerra, il business principale: così si spiegano i piazzisti – Alessandro Robecchi
Insomma, la guerra. La guerra di oggi, anzi le guerre, il genocidio della potenza coloniale israeliana ai danni del popolo palestinese, la carneficina senza fine in Ucraina, le altre guerre sparse per il pianeta (parecchie) che nemmeno arrivano ai media, i massacri, le popolazioni colpite, gli effetti collaterali, fame, malattie, disperazione. La guerra, insomma, che sembra una componente naturale, endemica, delle faccende umane, in qualche modo accettata e – è storia recente e recentissima – benedetta e sostenuta da un apparato informativo che sembra proprio quel che è: l’ufficio stampa della guerra.
La guerra “giusta”, la guerra “nostra”. Piazzisti.
Strabiliante: non c’è attività umana che non venga letta in termini economici, che non venga analizzata per quel che produce o consuma in termini di ricchezza. Sappiamo tutto di industrie, di mercati, di speculazioni, di guadagni, di dinamiche macroeconomiche di ogni settore, e non sappiamo niente – è una specie di tabù – dell’economia della guerra, di chi la gestisce, di chi ci guadagna, di chi ne fa core business. Il primo a nominare – e in qualche modo a battezzarlo – il “complesso militare industriale” fu Eisenhower, presidente americano che una guerra l’aveva vinta da generale. Correva il 1961 e lui metteva in guardia la prima potenza mondiale proprio da quell’intreccio inestricabile che poi avrebbe contagiato il mondo: la politica, l’industria bellica (nella neolingua tanto in voga da sempre, la guerra si chiama “difesa”), la finanza, alleate a gonfiare un apparato micidiale. Un sistema economico che doveva produrre armi, quindi usarle, quindi costruirne di nuove, quindi spingere sul comparto “ricerca e sviluppo” con esseri umani come cavie. E quindi combattere ogni voce di pace, quindi soffiare su ogni focolaio, su ogni principio d’incendio per farlo divampare.
Dalla guerra “Sola igiene del mondo” della macchietta futurista italiana, si è passati in pochissimi anni alla guerra come “Sola economia del mondo”. Difficile pensare a un comparto economico che aumenta il fatturato in doppia cifra ogni anno ininterrottamente da almeno trent’anni, il cui giro di affari è arrivato (fonte: Stockholm International Peace Research Institute) nel 2022 a 2.240 miliardi di dollari l’anno (in vorticosa crescita), il 40 per cento dei quali americani (seguono Cina, che spende un terzo degli Usa, e Russia, che spende un decimo). Non solo armi, ma tutto quel che ne consegue, personale, strutture, ricerca, apparati, informazione. Parliamo insomma della prima industria mondiale, il che dovrebbe chiarire a tutti e per sempre che ogni discorso bellico favorevole a questo o quel conflitto (abbiamo in questi giorni luminosi esempi, quelli che non saprebbero gestire una gelateria ma danno lezioni al Papa, per dire) può essere agevolmente letto come un’interessata attività di lobbying, di sostegno a tassametro, degli interessi tesi alla realizzazione della guerra.
Si parla, infatti, di uno stato di guerra permanente, con vari fronti, con varie declinazioni e vari gradi di intensità, ma con tutte le guerre – tutte – a esclusivo vantaggio di quell’apparato transnazionale controllato da non più di qualche migliaio di persone. Se esiste oggi una perfetta metafora del capitalismo, è la guerra: la disperazione di molti e il guadagno di pochissimi, quelli che un tempo si chiamavano “i signori della guerra”, sempre più signori e con sempre più guerre su cui lavorare, perché se l’affare è la guerra, la pace fa male agli affari. Ai loro.
Questa è la proposta di “decolonizzazione” adottata dalla Cia in vista del crollo della Federazione russa. Questa disgregazione veniva bizzarramente e insensatamente definita decolonizzazione, un termine destinato a edulcorare il progetto imperialista americano. (da qui )
QUATTRO MITI CHE IMPEDISCONO LA PACE IN UCRAINA – Nicolai N. Petro e Ted Snider
Se la diplomazia vuole avere una possibilità di risolvere questo sanguinoso conflitto, è necessario smascherare e confutare quattro miti persistenti sulla guerra in Ucraina.
Mito n. 1: se Putin non viene sconfitto in Ucraina, invaderà l’Europa
Funzionari ucraini e americani hanno ripetutamente avvertito che l’Ucraina non è solo una nazione da difendere da un’invasione russa illegale, ma la diga che impedisce a Vladimir Putin di invadere l’Europa. Secondo questa narrazione, gli Stati Uniti e gli alleati della NATO devono sostenere la guerra in Ucraina perché è la prima linea della guerra per l’Europa.
“Se Putin conquista l’Ucraina“, ha detto il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden al Congresso il 6 dicembre 2023, “non si fermerà lì… Continuerà ad andare avanti. Lo ha detto chiaramente“.
Ma Putin non lo ha detto “abbastanza chiaramente”. Di fatto, Putin ha sempre detto che:
“la crisi ucraina non è un conflitto territoriale… La questione è molto più ampia e fondamentale e riguarda i principi alla base del nuovo ordine internazionale“.
Biden ha anche sostenuto fin dall’inizio della guerra che Putin “ha ambizioni molto più grandi dell’Ucraina. Vuole, infatti, ristabilire l’ex Unione Sovietica. È di questo che si tratta“. Anche il Segretario di Stato Antony Blinken ha affermato che Putin “ha dichiarato che vuole ricostituire l’impero sovietico“.
Tuttavia, questi obiettivi attribuiti a Putin differiscono nettamente dai suoi obiettivi dichiarati, che includono: la garanzia che l’Ucraina rimarrà neutrale e non si unirà alla NATO, la garanzia che la NATO non trasformerà l’Ucraina in una testa di ponte armata anti-russa sul suo confine e la garanzia che i diritti civili degli ucraini russofili saranno protetti.
Come possiamo dare un senso a questo contrasto?
L’attuale narrazione deriva da una parte comunemente citata in modo errato del discorso di Putin all’Assemblea federale del 25 aprile 2005. Riferendosi alla difficile transizione del Paese verso la democrazia, Putin aveva detto:
“Soprattutto, dovremmo riconoscere che il crollo dell’Unione Sovietica è stato un grande disastro geopolitico del secolo. Per quanto riguarda la nazione russa, è diventato un vero e proprio dramma. Decine di milioni di nostri concittadini e compatrioti si sono ritrovati fuori dal territorio russo. Inoltre, l’epidemia di disintegrazione ha contagiato la Russia stessa“.
Molti in Occidente hanno sostenuto che, riferendosi al crollo dell’Unione Sovietica come a un disastro, egli alludesse a un desiderio segreto di ricrearlo. Tuttavia, leggendo l’intero discorso, è chiaro che egli stava richiamando l’attenzione sull’impatto disastroso che il crollo politico ed economico del Paese aveva avuto sulla vita personale della gente, e non sull’Unione Sovietica in sé. Continuava sottolineando che “i risparmi individuali erano stati svalutati“, gli oligarchi “servivano esclusivamente i propri interessi corporativi” e “la povertà di massa aveva cominciato ad essere vista come la norma“.
Due settimane dopo, durante una visita di Stato in Germania, Putin aveva ribadito lo stesso concetto, aggiungendo:
In Russia si dice che chi non rimpiange il crollo dell’Unione Sovietica non ha cuore e chi lo rimpiange non ha cervello. Noi non lo rimpiangiamo, semplicemente ne prendiamo atto e sappiamo che dobbiamo guardare avanti, non indietro“.
Non è certo un appello alla restaurazione dell’Unione Sovietica.
Biden sostiene che, dopo l’Ucraina, Putin “continuerà ad andare avanti” e allora “avremo qualcosa che non cerchiamo e che non abbiamo oggi: truppe americane che combattono contro truppe russe“. Tuttavia, vale la pena notare che in tutte le occasioni in cui Putin ha effettivamente schierato le forze armate russe all’estero, il loro impiego è sempre stato strettamente mirato ad un compito specifico, che si tratti della Georgia nel 2008, della Crimea nel 2014, della Siria nel 2015, del Kazakistan nel 2021 o dell’Ucraina nel 2022.
Pertanto, in assenza di prove tangibili, le affermazioni spudorate secondo cui la Russia intende attaccare la NATO dovrebbero essere prese con le molle.
Mito n. 2: L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia non ha mai riguardato la NATO
I funzionari occidentali insistono sul fatto che l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia è stata “non provocata” e che la decisione della Russia di invadere illegalmente l’Ucraina non ha mai riguardato l’espansione della NATO e il superamento delle linee rosse della Russia, ma piuttosto una “guerra insensata contro una nazione sovrana e amante della libertà“.
Ma l’insistenza della NATO sul fatto che Putin non fosse motivato dalla sua espansione verso est è messa in discussione dalla NATO stessa.
Il 7 settembre 2023, il Segretario Generale della NATO Jens Stoltenberg ha fatto la sorprendente ammissione che la decisione di Putin di invadere l’Ucraina è stata effettivamente provocata dallo “sconfinamento” della NATO in Ucraina.
Stoltenberg aveva detto che Putin, prima di prendere la decisione di invadere l’Ucraina, aveva “inviato una bozza di trattato che voleva che la NATO firmasse, per impegnarsi a non espandersi ulteriormente. Questo è ciò che ci ha inviato. Ed era una condizione preliminare per non invadere l’Ucraina. Ovviamente non l’abbiamo firmato“.
Stoltenberg aveva poi proseguito: “Voleva che firmassimo quella promessa, di non allargare mai la NATO… L’abbiamo rifiutata. Così è entrato in guerra per evitare che la NATO, più NATO, si avvicinasse ai suoi confini“. Il Segretario Generale della NATO ha poi ribadito la sua conclusione: “Il Presidente Putin ha invaso un Paese europeo per impedire un aumento della NATO“.
Diversi funzionari ucraini hanno confermato l’ammissione di Stoltenberg. David Arakhamia, capo del partito Servitore del Popolo di Zelensky, che ha guidato il team negoziale ucraino nei colloqui in Bielorussia e a Istanbul, ha confermato che l’assicurazione che l’Ucraina non sarebbe entrata nella NATO era la “questione nodale” per la Russia: “Tutto il resto era semplicemente retorica e ‘condimento’ politico“. Secondo Arakhamia, “erano disposti a porre fine alla guerra se avessimo accettato, come fece la Finlandia, la neutralità e ci fossimo impegnati a non entrare nella NATO“.
La testimonianza di Arakhamia è sostenuta anche dal Presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Il 27 marzo 2022, Zelensky aveva dichiarato a un intervistatore che la promessa di non aderire alla NATO “è stato il primo punto fondamentale per la Federazione Russa“, aggiungendo che “per quanto ricordo, hanno iniziato una guerra per questo motivo“.
L’idea che l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia non avesse nulla a che fare con le sue preoccupazioni per la sicurezza dell’espansione della NATO è quindi contraddetta dagli stessi funzionari della NATO e dell’Ucraina e non dovrebbe essere usata come pretesto per rifiutare i negoziati per porre fine alla guerra.
Mito n. 3: la guerra in Ucraina è una guerra della democrazia contro l’autocrazia
Secondo questa narrazione, non si può permettere alla Russia di vincere perché questa guerra non riguarda solo l’Ucraina. È il primo campo di battaglia di una più ampia guerra per la democrazia contro l’autocrazia.
Ma la Russia ha abbandonato l’obiettivo di esportare un’ideologia quando l’Unione Sovietica è crollata. Infatti, la sua costituzione (articolo 13) proibisce esplicitamente l’imposizione di un’unica ideologia di Stato.
La Russia non sta combattendo contro la democrazia, ma per i propri problemi di sicurezza. Né gli Stati Uniti possono affermare in modo plausibile di combattere per la democrazia, quando cercano attivamente di arruolare autocrazie come l’Arabia Saudita, l’Egitto e la Cina per unirsi al loro fianco.
Nello stesso momento in cui gli Stati Uniti dicono al mondo che l’Ucraina è una democrazia, dicono ai leader ucraini che “l’Ucraina non è pronta per l’adesione alla NATO” perché, come dice il Presidente Biden, ci sono “requisiti che devono essere soddisfatti, compresa la democratizzazione“.
È sempre più riconosciuto il fatto che l’Ucraina non sta combattendo per la democrazia, quanto per il diritto di stabilire un’Ucraina monoculturale, epurata dal patrimonio culturale, dalla lingua, dalla religione e dalla storia russa. In effetti, si può affermare che, dall’inizio della guerra, l’Ucraina ha fatto passi indietro in materia di democrazia. Ad esempio, nel marzo 2022, l’Ucraina ha messo al bando undici partiti politici di opposizione, tra cui il partito di opposizione Piattaforma per la Vita, che un tempo era il secondo partito del parlamento ucraino.
Nello stesso mese, un decreto presidenziale ha attuato “una politica di informazione unica… unificando tutti i canali televisivi nazionali… su un’unica piattaforma informativa” chiamata Telemarathon United News. L’anno scorso, una nuova legge sui media ha esteso i poteri di censura dello Stato alla stampa e ai media online, concedendo allo Stato l’autorità di esaminare il contenuto di tutti i media ucraini, di proibire i contenuti ritenuti una minaccia per la nazione e di impartire direttive obbligatorie ai media.
Infine, nonostante l’esplicita garanzia costituzionale della libertà di filosofia personale e di religione (articolo 35), il Parlamento ucraino si sta muovendo verso la messa al bando della tradizionale Chiesa ortodossa ucraina del Paese attraverso un disegno di legge che vieta i gruppi religiosi “affiliati a centri di influenza… situati fuori dall’Ucraina, nello Stato che conduce l’aggressione militare contro l’Ucraina“. Il Lord Vescovo di Leeds, il Right Revd. Nick Baines, che supervisiona le politiche della Chiesa d’Inghilterra in materia di politica estera, ha recentemente condannato questa proposta come “una misura retrograda che a lungo termine danneggerà gli interessi dell’Ucraina “.
Ci sono stati anche passi indietro nelle libertà culturali, negando agli ucraini le tutele legali che sono esplicitamente enumerate nell’articolo 10 della Costituzione ucraina, che garantisce “il libero sviluppo, l’uso e la protezione del russo e di altre lingue delle minoranze nazionali dell’Ucraina“.
Per potenziare la diplomazia, questa narrazione del tutto manichea di democrazia contro autocrazia dovrebbe essere abbandonata. Solo così le parti potranno ascoltare le legittime preoccupazioni dell’altro.
Mito n. 4: Putin non è interessato a negoziare
L’Occidente insiste sul fatto che Putin non è interessato a negoziare la fine di questa guerra. Nonostante le numerose notizie secondo cui “ha segnalato attraverso intermediari” che “è aperto ad un cessate il fuoco” e che “è pronto a fare un accordo“, la Casa Bianca continua a insistere che Putin “non ha mostrato alcun segno di essere disposto a negoziare“.
Ma i dati storici dimostrano che Putin ha cercato una soluzione negoziale fin dai primi giorni della guerra. A detta di tutti, la Russia e l’Ucraina avevano persino raggiunto un accordo provvisorio a Istanbul nell’aprile del 2022. Ciò è stato confermato da rapporti americani, dall’allora primo ministro israeliano Naftali Bennett, dall’ex cancelliere tedesco Gerhard Schröder, dal ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu e da Numan Kurtulmus, vicepresidente del partito di Erdogan.
Ancora più importante, la sincerità di Putin nel negoziare è stata confermata da numerosi delegati ucraini presenti a questi colloqui.
Di recente è stato chiesto a Oleksiy Arestovych, ex consigliere dell’Ufficio del Presidente dell’Ucraina, se pensasse che “i negoziati bilaterali tra Ucraina e Russia avrebbero potuto funzionare prima“. Ha risposto: “Sì, completamente“. Alla fine dei colloqui di Istanbul, dice, la delegazione ucraina “ha aperto una bottiglia di champagne”.
David Arakhamia, che ha guidato il team negoziale ucraino a Istanbul, ha dichiarato in un’intervista del 24 novembre 2023 che la Russia era “pronta a porre fine alla guerra se noi… ci fossimo impegnati a non entrare nella NATO“.
Oleksandr Chalyi, ex viceministro degli Esteri e anch’egli membro della squadra negoziale ucraina a Istanbul, concorda sul fatto che Putin “ha dimostrato uno sforzo genuino per trovare un compromesso realistico e raggiungere la pace“. E anche il Presidente Zelensky aveva riconosciuto pubblicamente, nel marzo 2022, che le discussioni erano state “profondamente elaborate“.
Questo non significa che gli Accordi di Istanbul possano essere resuscitati. Forse sono successe troppe cose da allora per poterlo fare. È comunque interessante notare come né la Russia né l’Ucraina avessero rilasciato alcun dettaglio sul presunto accordo, forse per evitare che quanto concordato venisse silurato dalla stampa. Tuttavia, ciò suggerisce che l’accanimento sulla presunta riluttanza di Putin a negoziare non è altro che un depistaggio volto a impedire una soluzione negoziale del conflitto.
Insieme, questi quattro miti costituiscono le fondamenta delle argomentazioni occidentali che privilegiano le soluzioni militari rispetto a quelle diplomatiche alla crisi attuale. Smascherarli sarà quindi fondamentale per invertire il corso degli eventi e porre fine a questa guerra devastante.
L’invio di armi all’Ucraina salva vite umane? – Alessandro Marescotti
L’invio di armi all’Ucraina è stato presentato come l’unico mezzo per difendere la vita degli ucraini. Tuttavia, i dati sull’aumento vertiginoso dei morti in guerra smentiscono questa tesi e dimostrano la sua fallacia.
Se i figli dei leader occidentali fossero in trincea cambierebbero punto di vista sulla guerra
Premessa
L’invio di armi all’Ucraina è stato presentato come l’unico mezzo per difendere la vita degli ucraini. Tuttavia, i dati sull’aumento vertiginoso dei morti in guerra smentiscono questa tesi e dimostrano la sua fallacia.
Mancanza di verifica
Quando una tesi è dubbia, la si sottopone a verifica. Deve esserci un criterio di verifica (e di falsificabilità) di una tesi, basato sulle evidenze a posteriori. E le evidenze a posteriori, in questo caso, sono drammaticamente abbondanti.
Evidenze ignorate
I dati reali delle perdite sul campo non vengono resi noti.
Le stime recenti ipotizzano tuttavia di un incremento drammatico delle vittime al fronte.
I media mainstream spesso tengono in secondo piano o addirittura nascondono questa escalation di vittime.
La “bandiera bianca” di Papa Francesco
Di fronte a questo orrendo massacro, la “bandiera bianca”di Papa Francesco è simbolo di umanità.
Se i figli dei leader occidentali fossero in trincea, probabilmente quei leader implorerebbero la pace e acclamerebbero il Papa.
Washinghton Post: “Mandati a morte certa”
La Russia è in superiorità numerica: 430 mila soldati russi contro 180 mila ucraini(questi ultimi con meno munizioni, meno artiglieria e senza copertura aerea).
Anche se la Nato mandasse più armi rimane la soverchiante superiorità numerica dei russi, dato su cui sorvola chi punta sulla prosecuzione del conflitto con maggiori rifornimenti bellici.
Come sottolinea il Washington Post, l’Ucraina non ha un piano chiaro per arruolare nuove truppe. Scrive il WP:“L’incapacità di Zelensky di creare un consenso politico su una strategia di mobilitazione – nonostante mesi di avvertimenti su una grave carenza di truppe qualificate sul fronte – ha alimentato profonde divisioni nel parlamento ucraino e, più in generale, nella società ucraina. Ha lasciato i militari a fare affidamento su un miscuglio di tentativi di reclutamento e ha seminato il panico tra gli uomini in età da combattimento, alcuni dei quali si sono nascosti, preoccupati di essere arruolati in un esercito mal equipaggiato e mandati a morte certa”.
Reazioni alla posizione del Papa
Il Papa ha invitato l’Ucraina a intavolare negoziati per evitare perdite ancora peggiori.
Ha citato la “bandiera bianca” perché nel diritto internazionale è il segnale della negoziazione.
La Nato, gli Usa, la Germania e l’Ucraina hanno criticato la posizione del Papa.
La Von der Leyen ha detto che la resa spetta a Putin, non all’Ucraina.
Anche alcuni esponenti cattolici sono stati titubanti a difendere le parole del Papa preferendone una interpretazione esegetica.
Conclusione
Ciò che Papa Francesco ha compreso e detto con il cuore riassume il senso di umanità che dovremmo tenere vivo in noi.
L’orgoglio brutale e insensato della sfida bellica sta uccidendo questo senso di ragionevolezza e di umanità.
Dobbiamo difendere parola per parola ciò che Papa Francesco ha detto, senza remora o vergogna: la vergogna lasciamola a chi ha detto che si sarebbero salvate le vite umane inviando tante armi.
La guerra non è mai una soluzione – Pasquale Pugliese
Quanto accade in Ucraina e in altri angoli del mondo dimostra che non si vuole cercare altra soluzione se non quella binaria della guerra, fondata sulla dicotomia vittoria-sconfitta, con la conseguente escalation di violenza. Che è inutile pensare la pace come assenza di guerra. Che non esiste solo la violenza diretta ma anche quella strutturale e culturale. E che non serve alcun impegno generico pacifista, ma percorsi di nonviolenza con i quali de-costruire tutta la filiera della violenza e costruire alternative senza il dominio delle armi. L’eredità del pensiero di Johan Galtung
Lo scorso 17 febbraio, all’età di 93 anni, ci ha lasciati Johan Galtung, fondatore e pioniere della ricerca scientifica per la pace. Ho incontrato una sola volta di persona Galtung partecipando ad un seminario/laboratorio che svolgeva – lui che aveva avviato i Peace studies internazionali e fondato il PRIO-Peace Research Institute di Oslo, insegnato nelle maggiori università del pianeta e fatto il consulente per le Nazioni Unite – all’interno di una sala civica di un quartiere a Bologna, agli inizi degli anni 2000. E per spiegare la “trascendenza” del conflitto – spiazzando tutti con la sua ironia – aveva posto la questione dell’arancia contesa da due bambini e delle possibili soluzioni, dimostrando che sono molto più di due, se solo si va oltre la superficie del conflitto e si indagano i bisogni profondi di ciascuno dei confliggenti. Per le note biografiche su Galtung rimando al profilo pubblicato su Azione nonviolenta e ai molti articoli usciti sul sito web del Centro studi Sereno Regis, qui vorrei riepilogare in estrema sintesi alcuni degli elementi essenziali del pluriverso culturale e metodologico che fonda la proposta della nonviolenza di questo poliedrico studioso.
Superare la logica binaria della guerra
Approfondire l’approccio di Galtung ai conflitti significa dotarsi di alcuni di quei saperi che mancano maggiormente e drammaticamente nel nostro tempo, nel quale, da ogni parte, non si cerca altra soluzione se non quella binaria della guerra, fondata sulla dicotomia vittoria-sconfitta. Con la conseguente escalation di violenza, vittime ed armamenti, in un ciclo dal quale non si vede via d’uscita – per di più all’interno di un’orizzonte nucleare esplicitamente minacciato – che contamina sempre più pericolosamente la cultura profonda.
“Una società strutturata attorno alla violenza diventa caricatura di se stessa – scrive Galtung –, sia che la violenza venga dalla cima di una piramide di potere, sia che provenga da piccole sacche di guerriglia: il terrorismo dall’alto è uguale al terrorismo dal basso. La cultura diventa un magazzino di ferite profonde, affondate nella memoria collettiva e nell’anima della gente, ferite che vengono usate per travisare ogni cosa e persona, piuttosto che per cercare nuovi approcci”.
Una fotografia perfetta della condizione attuale, dove il più grave dei problemi – la guerra – è spacciato per la loro soluzione.
Diagnosi, prognosi e terapia dei conflitti
Per Galtung la pace non è solo l’assenza di guerra – che è una delle forme nelle quali si esprime la violenza – ma è l’assenza, e la progressiva riduzione, di ogni tipo di violenza, attraverso la trasformazione nonviolenta di tutti i conflitti. Inoltre, “essere contro la guerra è una posizione moralmente lodevole, ma non è sufficiente a risolvere i problemi delle alternative alla guerra e delle condizioni per la sua abolizione”.
Questo obiettivo necessita di un preciso e specifico lavoro per la “pace con mezzi pacifici”, che affonda le radici e trova il suo nutrimento negli studi per la pace che sono, appunto, “lo studio delle condizioni del lavoro per la pace”. È la ricerca alla quale Galtung si è dedicato per tutta la vita, con un approccio epistemologicamente trans-disciplinare. A partire dalla scienza medica, per quanto riguarda i presupposti della triade Diagnosi, Prognosi, Terapia: “La nostra cultura è mancante della Diagnosi delle cause dei conflitti, della Prognosi di cosa sta per accadere, delle proposte di Terapia”. Affrontare i conflitti in questa chiave – comprendendone anche le specifiche strutture relative agli elementi della Contraddizione, agli Atteggiamenti ed ai Comportamenti all’interno di essi – è la precondizione per poterli “trascendere” senza violenza, la quale invece “è il pilastro per i media” che chiamano “oggettività” la cronaca della violenza. Non a caso, l’impegno culturale e formativo di Galtung si rivolgerà, sempre di più, anche a promuovere il giornalismo di pace.
Violenza diretta, strutturale e culturale
La violenza non si esprime solo nella sua dimensione manifestamente dispiegata ed esplicitamente distruttiva, come accade nella guerra e nei conflitti armati, ma ha delle componenti più profonde, implicite, nascoste, ma necessarie affinché la punta dell’iceberg della violenza propriamente detta, e percepita da tutti, possa esplodere. In un ideale “triangolo della violenza”, se il vertice in altezza è rappresentato dalla “violenza diretta”, i vertici di base sono rappresentati, da un lato, dalla violenza strutturale, che è sia una violenza in sé, per esempio nelle forme dello sfruttamento economico o della repressione del dissenso, che – in riferimento ai conflitti armati – l’approntamento delle strutture organizzative ed economiche che preparano e consentono le guerre: dagli eserciti alle spese militari, dagli armamenti alle banche armate. L’altro vertice è rappresentato dalla violenza culturale, ossia da una forma pervasiva di giustificazione della violenza diffusa dagli apparati formativi, dai dispositivi mediatici, dalle curvature linguistiche che rendono l’esercizio della guerra – e la sua preparazione strutturale – un fatto ovvio, da non mettere in discussione. Alimentando anzi, al bisogno, il bellicismo e l’odio per il “nemico”, ossia la propaganda di guerra.
La violenza culturale è, dunque, “sempre simbolica, si trova nella religione e nell’ideologia, nel linguaggio e nell’arte, nella scienza e nel diritto, nei media e nell’educazione. La sua funzione è piuttosto semplice: legittimare la violenza diretta e quella strutturale”. Come accade nel nostro paese negli ultimi due anni. E spesso chi produce e vende strumenti di guerra produce e vende anche i media che la promuovono.
I saperi della nonviolenza per trasformare e trascendere i conflitti
Per queste ragioni l’impegno nonviolento, a differenza di quello genericamente pacifista, è indirizzato a de-costruire tutta la filiera della violenza – non solo a contrastare questa o quella guerra – e a costruire alternative nonviolente in riferimento a tutti i livelli esaminati. A cominciare dalla capacità di trascendimento dei conflitti, ossia dalla loro trasformazione nonviolenta. Ciò significa che non è il conflitto in sé a dover essere eradicato, in quanto il conflitto è fisiologicamente generato dai differenti bisogni contrapposti, ma la modalità violenta – e dunque patologica – della loro conduzione. “Il maggior numero delle parti in conflitto – scrive Galtung – ha qualche posizione valida: il lavoro sul conflitto consiste nel costruire una posizione accettabile e sostenibile a partire dal quel ‘qualcosa di valido’, per quanto minuscolo possa essere”.
È necessario, dunque, aiutare le parti ad uscire dalla polarizzazione e dalla reciproca de-umanizzazione. Le tre caratteristiche necessarie, i tre saperi, per lavorare alla trasformazione de-polarizzante e umanizzante dei conflitti sono l’empatia, ossia la capacità di vedere le cose anche dal punto di vista dell’avversario, la creatività, in quanto ricerca di soluzioni non scontate e prevedibili, e la nonviolenza, in quanto metodo che porta oltre il conflitto violento, lo trascende, appunto. Saperi indispensabili per stare al mondo, in maniera non reciprocamente distruttiva, all’interno di sistemi complessi naturalmente generatori di conflitti.
La seconda Guerra Fredda
All’interno di queste essenziali coordinate di base, che si intersecano ed evolvono con altre più complesse per le quali rimando alle direttamente pubblicazioni di Galtung – tra le quali in italiano Pace con mezzi pacifici (Esperia, 1996) e Affrontare il conflitto. Trascendere e trasformare (Plus, 2008), dalle quali sono tratte le citazioni di questo articolo – Galtung ha svolto un’operazione di diagnosi-prognosi-terapia di molti conflitti sulle diverse scale (micro, meso, macro e mega). Segnalo in particolare lo scenario de “La seconda Guerra Fredda”, della quale scriveva già nei primi anni 2000, dovuto all’agenda geopolitica degli Usa che prevede “l’espansione globale a est con la Nato e a occidente con l’Ampo, il Trattato di sicurezza Usa-Giappone”. Questa agenda, diagnosticava Galtung, ha interesse a portare le alleanze “a linee di rottura radicali ed esplosive”, che generano la “seconda Guerra Fredda” tra Usa/Ampo/Nato da un lato e Russia/India/Cina dall’altro. Ma ciò, ed ecco la prognosi, non durerà a lungo perché la “seconda Guerra Fredda” è una formazione conflittuale forte. “Un incidente minore – prevedeva – lungo il confine tra Polonia ed Ucraina, (…), e queste faglie erutteranno lava come vulcani, con potenze nucleari dappertutto e senza alcun paese neutrale in mezzo a fare da cuscinetto, come lo furono Finlandia, Svezia, Austria e Jugoslavia durante la prima Guerra Fredda”. Per trascendere questo mega conflitto – generato dalla “megalomania di avere tutto il mondo come propria sfera d’interesse” – prima che esso distrugga l’umanità, Galtung proponeva, tra le altre cose, una radicale rifondazione delle Nazioni Unite, come vera Assemblea dei popoli, con un rappresentante ogni milione di abitanti della terra e senza diritto di veto.
Verità e riconciliazione per Palestina e Israele
E sul conflitto israelo-palestinese, dopo una analisi critica degli accordi di Oslo, che non potevano funzionare a causa delle loro mancanze – per esempio l’esclusione di Hamas, da un lato, e di Likud/Ortodossi, dall’altro – e le insufficienze, come l’assenza di simmetria in un accordo tra uno Stato forte e una debole “autonomia”, mentre un processo di pace si basa “sulla reciprocità, che a sua volta si basa sull’uguaglianza, diritti uguali e uguale dignità”, la prognosi era che per Israele e Palestina non ci può essere alcuna sicurezza lungo la strada della violenza. In particolare, anticipava Galtung, Israele si trova nel periodo di maggior pericolo della sua storia: “sempre più militarista, (…), sempre più isolato e con sempre più nemici, esposto a violenza, nonviolenza e boicottaggio dall’interno e dall’esterno, con gli Usa che prima o poi condizioneranno il proprio appoggio sulla base delle concessioni israeliane”.
Dunque, come si può trasformare nonviolentemente e trascendere il conflitto? Con un ampio e articolato programma di pace che, a partire dal riconoscimento dello stato di Palestina, si fonda alla costituzione di una “Comunità del Medio Oriente con Israele, Palestina, Egitto, Giordania, Libano e Siria come membri permanenti con politiche basate sul consenso multilaterale per quanto riguarda acqua, armi e commercio”. All’interno di questa comunità regionale Israele e Palestina diventano due federazioni “con due cantoni israeliani in Palestina e due cantoni palestinesi in Israele”. Inoltre, perché questo possa funzionare, andrà avviato, come in Sudafrica un processo di Verità e Riconciliazione. E se questo, al momento, può sembrare utopia è sicuramente ancora più utopico pensare di trovare una soluzione con le stragi e i massacri in corso da mesi.
Scriveva Galtung:
“Non esiste alcun conflitto – per quanto l’odio sia interiorizzato, il comportamento violento istituzionalizzato e la contraddizione, l’incompatibilità, il tema del conflitto insolubili – che non possa essere trasformato attraverso la nonviolenza”.
Se solo lo si vuole, usando mezzi pacifici per il fine della pace.
La campagna di Russia dell’Europa – Domenico Gallo
Il papa invoca la pace per un’Ucraina distrutta dalla guerra, chiamando i morti con il loro nome e invocando, per por termine all’inutile carneficina, “trattative” e “bandiera bianca”. Più o meno esplicitamente, i potenti del mondo lo accusano di collusione con il nemico e invocano una impossibile “vittoria finale”.
«Quos Deus perdere vult, dementat prius» («Quelli che Dio vuole perdere, per prima cosa li rende dementi»). Questa locuzione fu usata da Lev Tolstoj in Guerra e Pace per descrivere Napoleone Bonaparte che ordina l’avanzata in territorio russo nel 1812. La catastrofe della guerra in Russia indubbiamente fu frutto del delirio di potenza che aveva oscurato la mente di Napoleone.
Oggi ci troviamo di fronte alla programmazione di una nuova e più catastrofica campagna di Russia perseguita con stolido accanimento dalle élite politiche europee, sorde e cieche a ogni criterio di responsabilità. Lasciamo perdere la NATO che, come struttura militare per esistere e prosperare, ha bisogno di un nemico contro il quale prepararsi a combattere. Per questo non possiamo stupirci delle dichiarazioni dall’Ammiraglio olandese Rob Bauer, presidente del Comitato militare della NATO che il 18 gennaio ha dichiarato: «Vivere in pace non è un dato di fatto. Ed è per questo che ci stiamo preparando per un conflitto con la Russia», che potrebbe scoppiare entro «i prossimi 20 anni». Neppure possiamo stupirci delle dichiarazioni del Segretario Generale della NATO, Stoltemberg/Stranamore, secondo cui «i membri della NATO devono prepararsi a un possibile scontro con la Russia che potrebbe durare decenni».
Il problema sono le scelte della politica. In questi giorni stiamo assistendo a una nuova levata di scudi. Due anni di guerra catastrofica e il fallimento in un mare di sangue della tanto invocata controffensiva ucraina, non hanno insegnato nulla sull’insensatezza dei massacri in corso alla frontiera orientale dell’Europa. In Europa si è formato un partito unico della guerra, in cui confluiscono tutte le forze politiche di centrodestra e di centrosinistra, nel quale i verdi ed i socialisti si contendono la prima fila con i popolari e i conservatori.
È particolarmente inquietante che il Parlamento europeo, con l’ultima risoluzione del 29 febbraio, abbia continuato a istigare la costruzione di nuovi cimiteri di guerra in Ucraina e a percorrere la strada dell’escalation del conflitto. Secondo il Parlamento europeo non bisogna lasciare nessuna scelta alla Russia, non ci deve essere nessun negoziato per porre fine alla guerra, nessuna mediazione fra gli interessi contrapposti. La guerra deve finire necessariamente con la “vittoria” dell’Ucraina e con la sconfitta della Russia. La vittoria consiste nel recupero manu militari da parte dell’Ucraina di tutti territori perduti a partire dal 2014, ivi compresa la Crimea. In particolare, il Parlamento Europeo: «ricorda l’importanza di liberare la penisola di Crimea, occupata dalla Russia da ormai un decennio – e allo scopo – sostiene gli sforzi dell’Ucraina volti a reintegrare la Crimea, in particolare la piattaforma per la Crimea».
Per consentire all’Ucraina di conseguire una vittoria militare, che al momento appare impossibile, bisogna proseguire con la fornitura di aiuti militari all’Ucraina «per tutto il tempo necessario». Il sostegno militare deve essere incrementato quanto bisogna «per consentire all’Ucraina non solo di difendersi dagli attacchi russi, ma anche di riconquistare il pieno controllo di tutto il suo territorio riconosciuto a livello internazionale». Per questo non ci deve essere più alcuna restrizione alla fornitura di sistemi d’arma più performanti e a lungo raggio «come i missili TAURUS, Storm Shadow/SCALP e altri – di cui l’Ucraina ha bisogno – assieme a moderni aerei da combattimento, vari tipi di artiglieria e munizioni (in particolare da 155 mm), droni e armi per contrastarli». Naturalmente tutto ciò ha un costo, per cui il Parlamento Europeo «appoggia la proposta secondo la quale tutti gli Stati membri dell’UE e gli alleati della NATO dovrebbero sostenere militarmente l’Ucraina con almeno lo 0,25 % del loro PIL annuo».
Il linguaggio della guerra si alimenta di miti (come lo scontro fra autoritarismo e democrazia) per offuscare la ragione collettiva e occultare la dimensione reale di sofferenza, distruzione e morte che tali scelte politiche producono. La nuova campagna di Russia lanciata dagli irresponsabili leader europei, sulla orme di Biden, è molto più disastrosa di quella di Napoleone perché all’epoca non esistevano le armi nucleari. Pretendere di disgregare la Russia, staccandone la Crimea, che dal 2014 costituisce una Repubblica autonoma inserita nella Federazione Russa, in virtù di una decisione assunta pacificamente dalla sua popolazione con un referendum, vuol dire puntare all’umiliazione del nemico ed escludere ogni possibilità di negoziato. Molto sangue sarà versato e non sarà solo sangue ucraino, destinato a esaurirsi. Se si continua su questa strada, ce l’ha ricordato il miniNapoleone francese, sarà inevitabile l’invio di truppe di Stati europei. Se la Russia dovesse trovarsi con le spalle al muro, niente può escludere che metta mano al grilletto nucleare. Di fronte all’irresponsabilità delle élite europee, brilla la saggezza del presidente John F. Kennedy che 60 anni fa riuscì a scongiurare la guerra con l’Unione sovietica per effetto della crisi dei missili a Cuba, osservando che: «Le potenze nucleari devono evitare un confronto che dia all’avversario la scelta fra ritirarsi umiliato o usare le armi nucleari. Sarebbe il fallimento della nostra politica e la morte collettiva».
La Francia e la guerra in Ucraina: due annotazioni necessarie – Paolo Desogus
Due annotazioni sulla Francia e la guerra in Ucraina.
Il parlamento francese ha votato il pacchetto di aiuti militari all’Ucraina. Il Rassemblement National di Marine Le Pen e la France Insoumise di Mélenchon non hanno dato il loro consenso. Gli analisti più idioti hanno usato questo risultato per fare un parallelismo qualunquistico tra destra e sinistra. In realtà però solo Mélenchon ha votato nettamente contro. Il partito di Marine Le Pen si infatti astenuto, e questo lascia intendere un’attitudine simile a quella della cuginetta, l’italica Giorgia, che è passata da posizioni antisistema a un asservimento totale alla Nato.
Seconda annotazione. Sul Politico.eu sono stati pubblicati i dati sulla vendita delle armi nel mondo. La Francia è passata dal terzo al secondo posto come esportatore globlale, superando di gran carriera la Russia, che a causa delle restrizioni fatica a stare sul mercato. Anche l’Italia ha guadagnato molte posizioni passando dalla nona alla sesta posizione come esportatore di armi.
Ma del resto lo sappiamo, a fare la guerra qualcuno ci guadagna sempre.