Ink
susanna sinigaglia
Ink
Dimitri Papaioannou
con
Dimitri Papaioannou, Šuka Horn
L’acqua, l’io e l’altro
In un mondo invaso dall’acqua, che scroscia copiosa da una canna mobile disegnando nell’aria lunghi zampilli,
un uomo in nero si muove riempiendo e svuotando, incessantemente, due bocce di vetro o travasando l’acqua dall’una all’altra. La scena evoca il moto perpetuo raffigurato su certi quadri di Escher; alla mente riaffiora l’immagine della fatica di Sisifo. L’uomo si applica a queste operazioni con molta precisione e coscienziosità, anche se in alcuni momenti non si può evitare l’insorgere della buffa visione di qualcuno che cerchi seriamente di svuotare il mare con un cucchiaino. Il palco è immerso nella semioscurità e il fascio di luce che appena l’illumina va a infrangersi sulla plastica che ricopre le quinte e il fondale creando strani effetti ottici: a tratti sembra d’intravedere dei giganti che si agitano in quel mondo misterioso.
… il riferimento inconscio è stato il primo Alien, di Ridley Scott, film sulla nascita, quasi un archetipo. In scena ci sarà un flusso permanente di acqua con cui cerco di ricreare la bellezza delle immagini in bianco e nero[1].
Mentre è intento alle sue attività, sedendo ogni tanto in un angolo come in meditazione e per riprendere fiato, sotto il piano scenico comincia a intravedersi una forma in movimento che l’attraversa. All’inizio è appena percettibile, poi si delinea sempre più nettamente fino a emergere e rivelarsi un giovane uomo: nudo, come se fosse nato in quel momento. L’uomo in nero – finora padrone incontrastato del mondo acquatico – cerca di bloccarlo. Afferra una lastra di plastica trasparente per rinchiuderlo, soffocarlo, tenerlo prigioniero;
lo immobilizza, gli impone la tortura dell’acqua.
Lo lega con corde immobilizzandolo a terra; gli getta una specie di straccio sui genitali.
Ma l’altro riesce a divincolarsi, a sfuggirgli, così che il nostro uomo è costretto a ingaggiare un confronto-scontro, in certi momenti perfino a entrare quasi in sintonia con lui in un gioco che delinea un rapporto fra i più classici: quello di amore-odio. Fra padre e figlio, fra amanti?
Per due volte l’uomo nudo scompare e l’altro ricomincia le sue attività ordinarie, svuotando e riempiendo le bocce di vetro mentre l’acqua continua a scrosciare. E quando l’uomo nudo ricompare, arriva di nuovo a turbare l’ordine; allora ricomincia lo scontro, il confronto, l’incontro. A un tratto il palco s’illumina: in un repentino quanto un po’ incongruo cambio di scena l’uomo in nero, indossato una sorta di frac rosso iridescente, si trasforma in domatore di circo per soggiogare il suo antagonista. Gli getta addosso una canna arrotolata per tenerlo prigioniero nelle sue spire come fra quelle di un serpente.
Tutte queste manovre dell’uomo vestito per imprigionare l’uomo nudo fanno pensare al tentativo di reprimere i desideri, alla paura di scoprire lati sconosciuti di sé e quindi anche della propria sessualità.
Infine, s’impone una domanda: se la performance si svolge in un mondo dove domina l’acqua, perché intitolarla “ink”, inchiostro?
Forse perché con l’uomo nudo, entra in gioco una presenza cui ancora non ho accennato, quella del polpo. Infatti, l’oggetto che ho precedentemente indicato come “straccio” è in realtà un fantoccio di polpo. Afferma Dimitri Papaioannou in una intervista rilasciata a “Vogue”: “Il polpo rappresenta una sorta di ossessione carnale, la stranezza e l’assurdità dell’esistenza carnale che ovviamente include la sessualità.” Il polpo spruzza il getto d’inchiostro per nascondersi e colpire il nemico, ma nello stesso tempo “… ti avvinghia con i suoi tentacoli…”.
Il finale vede il giovane nudo librarsi fra spirali di luce in corsa verso la libertà,
mentre l’uomo vestito torna alla solitudine del suo mondo acquatico: oltre a quella di attrazione-repulsione, la metafora del rapporto fra figura paterna e filiale si riaffaccia velando l’epilogo di malinconia.
[1] https://www.teatrionline.com/2023/02/teatro-argentina-dimitris-papaioannou-in-ink-play-for-two/.