«Inside»: un videogioco per post-umani

di Pietro Fratellino

Negli ultimi mesi, con non poca fatica, sto cercando di riaffacciarmi al mondo dei videogiochi. So che l’espressione “con fatica” potrà far sorridere molti, ma lasciatemi spiegare. Quando, nel lontano 1999, passai definitivamente da Windows a Linux, quello fu anche l’ultimo anno in cui mi tuffai in un videogioco. Da appassionato giocatore di Dungeons & Dragons, fu naturale per me innamorarmi di Diablo e, successivamente, della sua – seppur criticata – espansione Hellfire, in cui usavo il Monaco. Qualche anno dopo, una zia mi regalò una PlayStation 2 e giocai per un po’ a Kingdom Hearts. Tuttavia, persi quasi subito interesse: quello non era un periodo felice. Era il mio primo, vero periodo di depressione. E, si sa, la prima volta non si scorda mai.

Recentemente, grazie a una creator italiana, Phenrir, che ho scoperto attraverso la sua recensione della serie televisiva L’uomo nell’alto castello, mi sono riavvicinato al mondo del gaming. Ho cominciato con alcuni giochi indie, come To the Moon, Machinarium, Nocturnal, The Bridge, Swapper e Sheepy. Poi, grazie ai suggerimenti e a Steam (che sia benedetto!) mi sono imbattuto in un titolo che mi ha lasciato senza fiato: Inside. Questo gioco, uscito nel 2016 e sviluppato da Playdead, si basa su una trama minimalista ma potentissima.

Il protagonista è un bambino che deve sopravvivere in un ambiente ostile che sembra volerlo eliminare a ogni costo. Fin dalle prime scene viene inseguito e ucciso da poliziotti, e si intuisce subito che, per qualche ragione, la sua esistenza rappresenta una minaccia per l’intero sistema. Paludi fangose, cani feroci, macchine assassine: tutto sembra cospirare contro di lui. Gli unici alleati sono esseri zombificati, creature viventi ma prive di vitalità, che possono essere controllate tramite un casco ipertecnologico. La figura del bambino si distingue dagli zombie grazie alla sua maglietta rosso scarlatto, un elemento distintivo che lo accompagnerà fino alla fine del gioco. In una fase avanzata della storia, il bambino acquisisce la capacità di respirare sott’acqua grazie all’intervento di una sirena dall’aspetto demoniaco, che lo attacca e gli dona questo potere.

Il gameplay è coinvolgente, ma – spoiler alert – è il finale a lasciare davvero interdetti. Il bambino, giunto alla fine del suo percorso, entra in un laboratorio scientifico dove gli scienziati osservano con attenzione qualcosa. Si scopre che quel “qualcosa” è un blob, una massa informe fluttuante in una gigantesca piscina e collegata a macchinari, che contiene centinaia di esseri umani. Nudo, vulnerabile e capace di nuotare, il bambino stacca il blob dai macchinari e viene inglobato al suo interno. A quel punto, il mostro informe, ormai senza controllo, distrugge il laboratorio e cerca la fuga. Stranamente, alcuni scienziati lo aiutano, fornendogli strumenti per aprire porte, indicandogli la strada e agevolando il suo percorso.

L’ultima scena è di una bellezza poetica: il blob, ormai libero, rotola giù da una valle e si ferma sulla riva del mare, illuminato da un raggio di sole. Tuttavia, non c’è nulla di umano o vitale in quell’ammasso informe. Quella libertà, ottenuta a caro prezzo, ha un sapore amaro: nulla potrà mai essere come prima.

Forse è il mio bias personale, ma ci vedo una potente metafora della lotta contro il capitalismo: puoi combatterlo, persino vincere, ma una volta libero neanche tu sarai più come prima.

 

 

Redazione
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