intanto i fuorilegge israeliani continuano l’occupazione, sotto gli occhi indifferenti del mondo

ACCADE IN PALESTINA: un dossier con articoli (e video) di Fayez Rasheed, Gianni Sartori, Gideon Levy, Motasem A Dalloul, Patrizia Cecconi, Uri Blau …

 

Mass media in uniforme, carabinieri in borghese e il perfido Hamas – Patrizia Cecconi

 

Un giallo si è svolto ieri a Gaza e ha visto coinvolta l’Italia. Non sappiamo con certezza se anche gli italiani, ma l’Italia sì.

Secondo i nostri media di sicuro sono stati coinvolti anche gli italiani, infatti basta vedere i titoli dei quotidiani, cioè “il” titolo, perché il Corriere come la Repubblica, il Messaggero come il Giornale o il Fatto quotidiano e le agenzie di stampa hanno tutti in sostanza lo stesso titolo, una specie di uniforme da elegante valletto al servizio dallo stesso signore.  Tutti hanno parlato di “carabinieri italiani rifugiati nella sede dell’ONU e assediati da Hamas”. Il perfido Hamas, cioè il partito che governa la Striscia di Gaza e che –  come ci ricorda Vincenzo Nigro su La Repubblica –  “l’Italia considera un movimento terroristico con cui i rapporti politici sono congelati.”

Noi ne prendiamo atto chiedendoci, però, come mai, se i rapporti sono congelati l’Italia manda i suoi carabinieri, non turisti o operatori umanitari, ma rappresentanti dell’Arma, dentro la Striscia? E come li manda? Clandestini?

Bene, corre l’obbligo di spiegare ai quattro lettori che ci seguiranno, che Gaza è sotto assedio israeliano, illegittimo e illegale ovviamente, ma sotto assedio e non si può entrare se non con un permesso speciale di Israele. E fin qui certo niente di strano, visto che il governo italiano è amico del governo israeliano. Ma poi serve anche il permesso di Hamas e per avere il permesso di Hamas qualcuno dall’interno della Striscia deve aver fatto la richiesta e questa richiesta deve essere accolta dalle autorità locali, cioè Hamas e presentata alla frontiera.

Lo conoscono  tutto questo iter i bravi valletti che hanno scritto i loro articoli titolandoli tutti “carabinieri italiani assediati da Hamas”?  Forse lo sanno, ma nella velina  c’era l’indicazione di saltare questo passaggio. Forse invece proprio non lo sanno e sono andati tutti dietro la stessa onda senza accorgersi che stavano dando un’informazione non parziale, ma totalmente deformata, il che è più grave che dire parziale o inesatta.

Allora ricostruiamo i fatti.

Dopo l’attentato di due mesi fa contro Nour Barake, uno dei leader della resistenza, commesso da un commando terrorista israeliano entrato presumibilmente di notte da un varco creato ad hoc nella rete dell’assedio, gli addetti alla sicurezza – detti sempre security di Hamas perché fa più effetto – avendo scoperto che il commando mascherato aveva documenti falsi e che a Gaza erano entrati, sempre con documenti falsi, una quindicina di agenti dei servizi segreti israeliani con scopi ovviamente non di tipo caritatevole o umanitario, ha ristretto molto il già esiguo numero di  permessi e ha punteggiato la Striscia, soprattutto nelle due strade principali che uniscono il nord al sud per circa 40 km, con un fitto numero di posti di blocco. In alcune parti addirittura si possono trovare ogni 500 metri.

I posti di blocco, quelli che in Israele si chiamano comunemente check point e che sono tristemente famosi per il numero di omicidi dovuti al grilletto facile dei soldati dell’IDF, i posti di blocco gazawi, che al contrario di quelli israeliani finora non si sono mai macchiati di sangue, consistono solitamente in due blocchi di cemento e una sbarra, lasciando lo spazio perché una vettura passi senza rimuovere la sbarra stessa, ma costringendola a rallentare per entrare nello spazio lasciato libero. Lì ci sono di solito tre o quattro militari che guardano il conducente e i passeggeri, qualche volta chiedono i documenti, ma il più delle volte si affidano al loro intuito e salutano con un sorriso. Una security che contrasta un po’ con l’idea  che la fantasia, con l’aiuto dei media, costruisce di questi militari immaginati sempre come feroci terroristi.

Ad uno di questi posti di blocco la sera del 14 gennaio non si sarebbe fermata una vettura con dentro tre o forse quattro uomini. Al tentativo di fermare la vettura i passeggeri, tutti in borghese, avrebbero estratto delle armi automatiche e sarebbero scappati forzando il blocco. Iniziava un breve inseguimento, breve perché la vettura clandestina andava a ripararsi dentro lo stabile delle Nazioni Unite a poche centinaia di metri e qui la vettura dei militari palestinesi non veniva fatta entrare.

Se lo stesso fatto fosse avvenuto in Israele i tre (o quattro) occupanti della vettura fuggitiva sarebbero stati tre (o quattro) cadaveri crivellati di colpi, ma i feroci terroristi con i quali l’Italia non comunica sono stati dei gentlemen e i fuggiaschi sono ancora vivi.

Una domanda che nessuno dei nostri media mainstream si è posta  pubblicamente è “perché questi signori non hanno mostrato i documenti? Allora erano clandestini? E a servizio di chi?” No, questo non appare nel pezzo della Repubblica, né su quello del Corriere, su nessuno. Forse non era nell’indice della velina.

Dunque i tre (o quattro) giovani uomini, capello corto o cortissimo, aria qualunque, anche palestinese volendo, o comunque mediterranea, potevano essere e probabilmente lo erano spie israeliane, come i quindici precedentemente scoperti.

Le autorità governative, dette dai media minacciosamente “Hamas”, a questo punto fanno circondare il palazzo dell’Onu dai militari, chiedendo che venga fornita l’identità di quei delinquenti che hanno sfondato il posto di blocco e sparato contro la polizia locale.

Per la verità, in qualunque altro paese, Italia compresa, sarebbero stati già arrestati, magari solo per due giorni, ma sarebbero stati arrestati subito per i due reati commessi.

I nostri quotidiani, la nostra Lilli Gruber, i nostri cronisti televisivi e compagnia servente, si sono tutti affannati a dire che Hamas assediava l’Onu, dimenticando di dire che avevano il diritto di  identificare i tre trasgressori e dimenticando anche di dire che Gaza è sotto assedio e che strani personaggi si erano infiltrati sparando contro la polizia locale o, comunque, forzando un posto di blocco.  Si sono anche dimenticati di dire che tutte le forze politiche di Gaza, compresa Fatah, avversario numero uno di Hamas, erano concordi in questa azione.

E’ lecito chiedersi se i personaggi della vettura in questione fossero ubriachi, cosa molto difficile dato il divieto  imposto da Hamas di far entrare alcolici, o se fossero dei provocatori  che hanno agito ad hoc per creare un incidente e poi sviluppare un piano che al momento non ci è dato conoscere.

Da dove sono entrati? Perché Hamas, che rilascia i permessi ai pochissimi internazionali che possono accedere alla Striscia, non li conosceva?

Alla fine, ma solo dopo un giorno e mezzo che deve essere stato abbastanza lungo, è venuto fuori che questi signori erano dei carabinieri italiani in borghese. Carabinieri italiani? E perché non hanno mostrato i documenti? E perché l’Italia, che non comunica con Gaza in quanto governata dal movimento dichiarato terrorista di Hamas, ha mandato i suoi carabinieri? Dalla Farnesina, attraverso il consolato a Gerusalemme rispondono, come ci comunica sollecitamente Davide Frattini, inviato del Corriere della Sera, che si trattava di “personale della sicurezza italiana, entrato a Gaza per una missione ufficiale”.  Una missione ufficiale? Ma allora la Farnesina tratta con Hamas? Ma no, che missione ufficiale poteva essere se i cosiddetti carabinieri erano in clandestinità?  C’è del giallo in tutta questa storia.

Frattini aggiunge e il Corriere lo evidenzia in neretto che “I carabinieri stavano verificando le condizioni di sicurezza… per una visita ufficiale al monastero di Sant’Ilarione”.

C’è del giallo sì, e non c’è neanche conoscenza dei luoghi; infatti i giornalisti, al pari dei lettori che dovrebbero informare,  non sanno che il monastero di Sant’Ilarione si trova a Nusseirat, quindi abbastanza a sud di Gaza city, e in realtà lì c’è un mosaico cristiano di circa 1700 anni fa sopravvissuto miracolosamente ai criminali bombardamenti del 2014. Ma le visite ai siti archeologici non si fanno di notte, e tornare da Nusseirat a Gaza city comporta solo una mezz’ora,  quindi come mai si trovavano a tarda sera a Gaza city? E dove avrebbero alloggiato, visto che il valico di sera è chiuso e non avrebbero potuto far ritorno alla loro sede a Gerusalemme? E su tutte, ancora la stessa domanda: perché fuggire al posto di blocco invece di fermarsi? E poi quanti posti di blocco hanno passato da Nusseirat a Gaza city, ammesso che venissero dal sito archeologico, senza essere fermati? Tutto stranissimo e, per chi conosce Gaza, più che strano INCREDIBILE.

Intanto le voci che l’ambasciatore o il console italiano si sarebbero incontrati con Ismail Hanyeh per risolvere la questione vengono smentite, così come l’UNRWA smentisce che ci sia stato un assedio nella propria sede. Alla fine, dopo circa 48 ore, le autorità della perfida Hamas rompono il cordone di sicurezza, ovvero il cosiddetto “assedio dei nostri carabinieri”, accettando la versione che si tratti di tre italiani e non di tre sabotatori dei servizi segreti israeliani.

Questo viene raccontato ai lettori, ma noi vogliamo aggiungere una chicca che i nostri media mainstrem non conoscono e che i feroci capi di Hamas non hanno preso in considerazione. Si tratta della proposta fatta da un docente dell’Università Islamica di Gaza, il prof. Khalid El Khalidi il quale ha trovato che nella sua magnificenza e misericordia Dio, detto anche Allah, ha offerto a Gaza la possibilità di liberarsi dall’assedio e di ottenere un risarcimento monetario per le privazioni sofferte in questi anni. Il prof. El Khalidi chiedeva infatti che i tre (o quattro) violatori della legge venissero arrestati. Trattati ovviamente con tutte le cure, ma arrestati e se si scopriva che si trattava di ufficiali dei servizi segreti, cosa di cui lui era convinto,  proporre uno scambio tra la loro liberazione e la fine dell’assedio, chiedendo inoltre di risarcire  Gaza e il suo popolo per l’assedio e la distruzione derivata dalle  tre massicce aggressioni con  20 miliardi di dollari, da consegnare alla resistenza prima dell’estradizione dei tre ufficiali.

Il prof. El Khalidi, come molti altri, seguita a non credere infatti alla versione data dopo 48 ore e aggiunge che “Il nemico ha la capacità di mobilitare per salvare i suoi soldati tutti gli ambasciatori e i presidenti dell’Occidente.” Il suo pensiero è il pensiero di molti gazawi e per questo lo riportiamo, e noi stessi abbiamo il diritto di dubitare che l’Italia si sia prestata a questo gioco potendo contare su un’informazione mediatica telecomandata e giocando sul fatto che la gente non sa che a Gaza non si può entrare in anonimato come turisti qualsiasi.

In conclusione il giallo non è risolto e resta da chiedersi perché il perfido  Hamas si sia così addolcito, fino ad accettare di credere che i tre giovanotti fossero carabinieri italiani in borghese venuti a fare un’indagine su un sito archeologico di Gaza senza le autorizzazioni del ministero di Gaza e senza il permesso di entrata. C’è forse dietro un ricatto? E perché erano armati? I carabinieri in borghese non possono essere armati, soprattutto non possono esserlo a Gaza! E seppure fossero  italiani possono sempre avere la doppia cittadinanza ed essere a servizio dello Stato ebraico, come ad esempio l’ ex-deputata di Forza Italia e colona ebrea Nirenstein, che ha la cittadinanza israeliana poiché, in quanto ebrea, le spetta di diritto. Diritto interno a Israele ovviamente.

A fronte dell’abito borghese dei cosiddetti carabinieri, abbiamo l’uniforme dei valletti mediatici e le due cose insieme spengono le domande di chi invece avrebbe diritto a un’informazione onesta. Perciò seguitiamo a chiederci non solo perché Hamas non ha arrestato o non ha potuto arrestare i tre che hanno violato un bel po’ di norme a partire dalla più banale: l’aver forzato il  posto di blocco, cosa che a un gazawo qualunque sarebbe costata l’arresto e una forte multa., ma ci chiediamo anche perché è stata tirata in mezzo l’Italia e perché l’Italia ha acconsentito. Un ricatto anche qui? O forse una promessa? O semplicemente un ossequio verso un paese amico? Potremmo eliminare, almeno in parte, i dubbi se i tre ex rifugiati, ora liberi, apparissero in televisione a dare la loro versione facendoci conoscere anche i loro nomi.

In assenza di ciò noi facciamo il nostro lavoro di giornale libero, realmente libero, senza diktat né veline e senza uniformi e diciamo che questo è un giallo in cui l’Italia, insieme ai media mainstream fa la parte del servitore che fornisce l’alibi all’assassino.

da qui

 

 

Tolta di mezzo la statua in memoria di Ghassan Kanafani – Gianni Sartori

 

Niente da fare. Lo Stato – nella fattispecie quello israeliano, ma esempi simili non mancano in giro per il Pianeta –  non si smentisce.

E l’arroganza istituzionalizzata non recede nemmeno di fronte alla statua, piccolina tra l’altro, in memoria di un grande scrittore.

Ovviamente non di uno qualsiasi.

Lo scrittore palestinese Ghassan Kanafani – comunista – era nato nel 1936 e con la sua famiglia aveva subito la Nakba, la “Catastrofe” nel 1948.

La sua città natale, Acri, all’epoca era abitata da palestinesi musulmani, cristiani, ebrei e baha’i. Ma al momento della nascita dello Stato di Israele il 75% della popolazione subì una vera e propria deportazione.

Oltre che come maggior teorico ed esponente della “Letteratura della resistenza” (Adab al-Muqawwama ) era noto come esponente del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Ancora nel 1960, all’epoca di George Habbas, entrò a far parte della redazione di al-Hurriyya e in seguito anche di al-Muharrir, a Beirut.

Proprio nella capitale libanese incontrò l’insegnante danese che sarebbe divenuta sua moglie, Anni Hoover. Risale appunto ai primi anni sessanta il suo libro più conosciuto: Uomini sotto il sole.

Altro romanzo importante, Ritorno ad Haifa scritto dopo l’amara esperienza, per i palestinesi, della Guerra dei sei giorni.

In seguito, dopo un periodo di collaborazione con il giornale al-Anwar, nel 1969 sarà tra i fondatori di al-Hadaf, destinato a diventare la voce del FPLP.

Ma a causa del suo impegno politico, della sua adesione alla lotta di liberazione del popolo palestinese, venne eliminato con un attentato (un’autobomba, presumibilmente opera del Mossad) insieme alla giovane nipote.

Nel suo necrologio venne scritto: “Era un combattente che non aveva mai sparato un colpo, la cui arma era la penna biro e il campo di operazioni le pagine dei giornali”..

 

Come dicevo, la settimana scorsa, lo Stato di Israele ha fatto togliere una statua eretta – all’interno di un cimitero di Acri – per commemorare lo scrittore scomparso nel 1972.

Già al momento della installazione,  il ministero israeliano dell’Interno aveva intimato al Waqf locale  di farla sparire.

Il ministro dell’Interno Aryeh Deri (esponente del partito Shas, ultraortodosso) l’aveva definita “un memoriale in onore di un terrorista” aggiungendo che non lo avrebbe consentito.

Di diverso parere, ovviamente, i palestinesi. Per Ahmad Odeh,  consigliere comunale della città “ Ghassan Kanafani è un simbolo per l’intero popolo palestinese”.

Stando alle dichiarazioni di un familiare dello scrittore palestinese, la statua dovrebbe essere ricollocata nel giardino privato – sempre nella città di Acri – di un altro parente.

A quando i falò dei suoi libri?

 

 

LIBERTA’ DI UCCIDERE IN ASSENZA DI GUERRA E DIVIETO DI ESPRESSIONE – Patrizia Cecconi

 

Palestina. La regione del mondo in cui si sperimenta sui corpi vivi di una popolazione occupata, la possibilità di uccidere in violazione di ogni norma etica e giuridica senza perdere il rispetto dei governi democratici e la tolleranza delle Istituzioni Internazionali e sovranazionali.

Numerosi video girati clandestinamente arrivano tramite la rete a far conoscere l’incredibile, ma sembra che il loro contenuto sia visibile solo agli attivisti per i diritti umani e sfumi nelle nebbie dell’indifferenza senza raggiungere la vista di chi dovrebbe fermare lo Stato più “deliberatamente assassino in assenza di guerra” che questo secolo e il precedente abbiano conosciuto.

L’ultimo video in proposito mostra un ragazzo disarmato, circondato da cinque o sei militari israeliani che dopo averlo schernito per un po’, decidono di sparargli a freddo uccidendolo, così, senza motivo. Non è il primo video del genere e quei militari sanno che al pari dei tanti loro commilitoni che hanno fatto la stessa cosa con uomini, ragazze e addirittura bambini, non subiranno alcuna punizione e quindi possono spezzare la noia del loro servizio “di sicurezza” ammazzando il palestinese di turno.

A Gaza uccidono chi chiede la fine dell’assedio, e a farlo sono tiratori scelti assoldati ad hoc. Bombardano edifici del governo locale suggerendo ai media l’espressione ormai consolidata di “colpite postazioni di Hamas” come fosse normale e, anzi, come ci fosse una guerra la quale, se realmente ci fosse, autorizzerebbe le forze militari gazawe a “colpire postazioni di Israele”. Ma la logica lascia il posto alla coazione a ripetere basata su una sola semplice e vincente parola d’ordine: Israele ha diritto alla sicurezza.

Mentre oggi, nel 42° venerdì  della “Grande marcia” per la rottura dell’assedio, le milizie israeliane hanno seguitato a prendere di mira ambulanze e giornalisti in totale disprezzo del reato di crimine di guerra, facendo numerosi feriti tutti inermi e uccidendo Amal Mustafa Taramsi, una donna di 43 anni; mentre l’aviazione ha bombardato alcuni edifici governativi riducendoli in macerie; mentre in Cisgiordania in questi giorni è stata “inaugurata” una strada divisa in due da un alto muro per separare i palestinesi dai coloni ebrei e impedirgli di raggiungere Gerusalemme e di viaggiare liberamente nella propria terra, praticamente applicando in forma assolutamente indiscutibile l’ apartheid, sebbene col cartellino ad usum delphini e valletti di “sicurezza per Israele”, mentre tutto questo e molto altro, quali arresti arbitrari, ferimenti, violenze e mortificazioni gratuite seguitano a tormentare la Palestina, nell’ America di Trump si è arrivati alla farsa del servo che per compiacere il padrone lo supera in zelo.

Parliamo del ritiro del premio “Fred Shuttlesworth” per i diritti umani attribuito alla docente universitaria Angela Devis dal Birmingham Civil Rights Institute dell’Alabama. Il premio, già assegnato, è stato revocato, come dichiarato dal sindaco di Birmingham, Randall Woodfin, su richiesta della comunità ebraica locale a causa del sostegno di Angela Davis ai diritti dei palestinesi. Non importa che la docente sia stata molto attiva nella lotta all’antisemitismo come forma di razzismo nel suo paese, il sostegno ai palestinesi privati del godimento dei diritti umani è considerato dalla comunità ebraica locale – evidentemente longa manus del razzista Stato ebraico dell’apartheid – un delitto che non ammette premi.

A questo punto ci si torna a chiedere da dove nasce tanto potere, capace di asservire i rettori delle università italiane (come verificatosi in diverse occasioni), di tacitare istituzioni che dovrebbero avere la “democrazia” quale loro garanzia di libertà di espressione, di far vincere premi ad hoc e addirittura di revocare premi già attribuiti riducendo la dignità della giuria a melma accondiscendente priva di ogni autorevolezza.

Possibile che le lobbies ebraiche abbiano davvero tanto potere? Possibile che opporsi al loro arbitrio comporti rischi tali che solo chi possiede una dignità ferrea e inattaccabile sia disposto a correre?

Tutto questo ci porta ad osservare che mentre quel che succede ogni giorno in Palestina riguarda i palestinesi e solo in secondo luogo riguarda tutti gli umani sensibili all’ingiustizia, al pari di quel che succede in altre disgraziate parti del mondo, quello che riescono a fare le lobbie ebraiche va invece oltre e, come dice Angela Davis, è un attacco “contro lo spirito stesso dell’indivisibilità della giustizia” e in quanto tale ci riguarda davvero tutti, almeno tutti quelli che credono nella democrazia e in uno dei suoi pilastri: la libertà di espressione.

da qui

 

 

Nel 2018 è caduta la maschera di Israele – Gideon Levy

 

Il 2018 non è stato un buon anno per Israele. Ovviamente per i palestinesi è stato persino peggiore. In apparenza non è stato un anno particolarmente drammatico – solo un po’ più del solito, senza nuove guerre significative e senza molto spargimento di sangue, se confrontato con gli anni precedenti. Le cose sembrano bloccate. L’occupazione è continuata senza ostacoli, come l’impresa di colonizzazione. Gaza ha cercato di resistere energicamente da dentro la sua miserabile gabbia, facendo uso delle sue misere e limitate forze.

Il mondo ha distolto gli occhi dall’occupazione, come ha fatto solitamente negli ultimi anni, e si è concentrato totalmente su altre cose.

Gli israeliani, come il resto del mondo, non si sono interessati dell’occupazione, come ormai hanno fatto da decenni. Hanno silenziosamente continuato con la loro vita quotidiana ed è buona, prospera. L’obiettivo dell’attuale governo – il più di destra, religioso e nazionalista nella storia di Israele – di conservare lo status quo in ogni modo è stato totalmente raggiunto. Non è successo niente che interferisse con la cinquantennale dura occupazione.

Verso un’annessione formale

Tuttavia sarebbe un grave errore pensare che ogni cosa sia rimasta uguale. Non c’è nessuno status quo riguardo all’occupazione o all’apartheid, anche se a volte così sembra.

Il 2018 è stato l’anno in cui è stata predisposta l’infrastruttura giuridica per quello che sta per avvenire. Un passo alla volta, con una legge dopo l’altra, sono state poste le fondamenta della legislazione per una situazione che esiste già in pratica da molto tempo. Poche proposte di legge hanno provocato una discussione, a volte persino con un dissenso chiassoso – ma anche questo non ha lasciato traccia.

Sarebbe un errore occuparsi separatamente di ogni iniziativa legislativa, per quanto drastica e antidemocratica. Ognuna è parte di una sequenza calcolata, funesta e pericolosa. Il suo obiettivo: l’annessione formale dei territori, iniziando dall’Area C [più del 60% della Cisgiordania, in base agli accordi di Oslo sotto totale ma temporaneo controllo di Israele, ndtr.]

Finora le fondamenta pratiche sono state poste sul terreno. La Linea Verde è stata cancellata molto tempo fa, i territori sono stati annessi di fatto. Ma ciò non è sufficiente per la Destra, che ha deciso che dovessero essere prese iniziative giuridiche e legislative per rendere permanente l’occupazione.

Prima hanno costruito colonie, in cui ora risiedono più di 700mila ebrei, compresa Gerusalemme est, per creare una situazione irreversibile nei territori. Questa impresa è stata completata, e la vittoria dei coloni e dei loro sostenitori è chiara e inequivocabile. Lo scopo delle colonie – sventare ogni prospettiva di fondazione di uno Stato palestinese nei territori occupati nel 1967 ed eliminare dalle trattative una soluzione dei due Stati – è stato pienamente raggiunto: hanno vinto. Ora, vogliono che questa situazione irrevocabile debba essere anche inserita nella legge, per neutralizzare l’opposizione all’annessione.

Contrastare l’opposizione

Questo è il principale obiettivo di ogni legge discriminatoria e nazionalista approvata nel 2018 dalla ventesima Knesset [parlamento, ndtr.] israeliana. Ognuna di esse intende contrastare ciò che resta dell’opposizione all’annessione dei territori.

Ci si aspettava una resistenza da parte del sistema giuridico israeliano e anche dai piccoli e rinsecchiti resti della sinistra nella società civile. Contro entrambi è stata dichiarata una guerra per indebolirli e sconfiggerli una volta per tutte, mentre ci avviciniamo all’annessione. Fino a quel momento, e se questa tendenza continuerà nel prossimo governo, non ci sarà nessuna ulteriore resistenza significativa nella società civile, e Israele potrà continuare a mettere a punto il suo nuovo regime.

L’apartheid è stata istituita nei territori da molto tempo e ora sarà anche nelle leggi. Quelli che negano che ci sia un’apartheid israeliana – i propagandisti pro-sionisti che affermano che, a differenza del Sud Africa, in Israele non ci sono leggi razziste o una discriminazione istituzionalizzata dal punto di vista legislativo – non saranno più in grado di diffondere i loro argomenti privi di fondamento.

Alcune delle leggi approvate quest’anno e quelle in via di approvazione, minano l’affermazione che Israele sia una democrazia egualitaria. Eppure tali norme hanno anche un aspetto positivo: queste leggi e quelle che arriveranno strapperanno la maschera e una delle più lunghe finzioni nella storia finalmente avrà termine. Israele non sarà più in grado di continuare a definirsi una democrazia – “l’unica del Medio Oriente”.

Con leggi come queste non sarà in grado di smentire l’etichetta di apartheid. Il prediletto dell’Occidente svelerà il suo vero volto: non democratico, non egualitario, non l’unico in Medio Oriente. Non è più possibile fingere.

L’apparenza dell’uguaglianza

È vero che una delle prime leggi mai adottate in Israele – e forse la più importante e funesta di tutte, la Legge del Ritorno, approvata nel 1950 –ha segnato molto tempo fa la direzione nella maniera più chiara possibile: Israele sarebbe stato uno Stato che privilegia un gruppo etnico sugli altri. La Legge del Ritorno era rivolta solo agli ebrei.

Ma la parvenza di uguaglianza in qualche modo ha resistito. Neppure i lunghi anni di occupazione l’hanno alterata: Israele ha sostenuto che l’occupazione era temporanea, che la sua fine era imminente e non faceva quindi parte dello Stato egualitario e democratico che era stato così orgogliosamente fondato. Ma dopo i primi 50 anni di occupazione, e con la massa critica di cittadini ebrei che sono andati a vivere nei territori occupati su terre rubate ai palestinesi, l’affermazione riguardo alla sua provvisorietà non avrebbe più potuto essere presa sul serio.

Fino a poco tempo fa i tentativi di Israele erano soprattutto diretti a fondare e allargare le colonie, reprimendo al contempo la resistenza dei palestinesi all’occupazione e rendendo il più possibile penose le loro vite, nella speranza che ne traessero le necessarie conclusioni: alzarsi e andarsene dal Paese che era stato il loro. Nel 2018 fulcro di questi sforzi è passato al contesto giuridico.

La più importante è la legge dello Stato-Nazione, approvata in luglio. Dopo la Legge del Ritorno, che automaticamente consente a qualunque ebreo di immigrare in Israele e una legislazione che consente al Fondo Nazionale Ebraico di vendere terra solo agli ebrei, la legge dello Stato-Nazione è diventata la prima della lista per lo Stato di apartheid che sta arrivando. Conferisce formalmente uno status privilegiato agli ebrei, anche alla loro lingua e ai loro insediamenti, rispetto ai diritti dei nativi arabi. Non contiene nessun riferimento all’uguaglianza, in uno Stato in cui in ogni caso non ce n’è affatto.

Contemporaneamente la Knesset ha approvato qualche altra legge ed ha iniziato alcune ulteriori misure nella stessa ottica.

Prendere di mira i sostenitori del BDS

In luglio è stato approvato un emendamento alla legge sull’educazione pubblica. In Israele è chiamata la legge di “Breaking the Silence” [“Rompere il silenzio”, associazione di militari ed ex militari che denuncia quanto avviene nei territori occupati, ndtr.], perché il suo vero proposito è impedire alle organizzazioni di sinistra di entrare nelle scuole israeliane per parlare agli studenti. Ha come scopo spezzare la resistenza all’annessione.

Allo stesso modo un emendamento alla legge sul boicottaggio, che consente di intraprendere un’azione legale contro israeliani che abbiano appoggiato pubblicamente il movimento Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), renderà possibile intentare una causa per danni contro sostenitori del boicottaggio, anche senza dover dimostrare un danno economico.

Un altro governo di destra come questo e sarà vietato appoggiare il boicottaggio in Israele, punto. Quindi verrà vietato anche criticare i soldati israeliani o il loro ingiusto comportamento nei territori. Proposte di legge come queste stanno già circolando e il loro giorno arriverà piuttosto rapidamente.

Un’altra legge approvata quest’anno trasferisce i ricorsi da parte di palestinesi contro gli abusi dell’occupazione dalla Corte Suprema Israeliana, che comunque non gli è poi stata così d’aiuto, al tribunale distrettuale di Gerusalemme, dove ci si aspetta che riceveranno un sostegno legale ancora minore.

Una legge per espellere le famiglie di terroristi ha superato la prima lettura alla Kensset, contro il parere della procura generale; consentirà punizioni collettive nei territori, solo per gli arabi. Stanno anche discutendo della pena di morte per i terroristi.

Ed è stata approvata anche la legge sugli accordi, che legalizza decine di avamposti delle colonie che sono illegali persino secondo il governo israeliano. Solo la legge sulla lealtà culturale, il livello legislativo più basso, che intende imporre la fedeltà verso lo Stato come precondizione per ottenere finanziamenti governativi a istituzioni culturali e artistiche, per il momento è stata congelata – ma non per sempre.

Copertura legale

Le leggi approvate quest’anno non devono essere viste solo come norme antidemocratiche che compromettono la democrazia in Israele, come la situazione viene di solito descritta dai circoli progressisti in Israele. Sono pensate per fare qualcosa di molto più pericoloso. Non intendono solo minare la fittizia democrazia, per imporre ulteriori discriminazioni contro i cittadini palestinesi di Israele e trasformarli per legge in cittadini di seconda classe. Il loro vero scopo è fornire una copertura legale per l’atto di annessione formale dei territori oltre i confini riconosciuti dello Stato di Israele.

Nel 2018 Israele si è avvicinato alla realizzazione di questi obiettivi. La calma relativa che è prevalsa nel Paese è ingannevole. Sta iniziando lo Stato di apartheid di diritto, non solo di fatto.

 

(Middle East Eye – Traduzione di Amedeo Rossi – Zeitun)

 

da qui

 

 

 

Una questione che ogni americano deve affrontare: apartheid israeliana o democrazia USA? – Ramzy Baroud

 

Bahia Amawai è una cittadina statunitense e una logopedista texana che aiuta bambini autistici e non udenti a superare la loro disabilità.

Nonostante la fondamentale e nobile natura del suo lavoro, è stata licenziata dal distretto scolastico indipendente di Pflugerville, che fornisce servizi nella zona di Austin.

Ogni anno Amawai firma un contratto annuale che le consente di svolgere la propria attività senza interruzioni. Tuttavia quest’anno qualcosa è cambiato.

Incredibilmente il distretto scolastico ha deciso di aggiungere al contratto una clausola che chiede agli insegnanti e ad altri dipendenti di impegnarsi a non boicottare Israele “per tutta la durata del loro contratto.”

L’“impegno” ora è parte della sezione 2270.001 del codice del governo del Texas ed è stabilito nel contratto con una formulazione chiara, in modo che chi desidera lavorare o continuare a conservare un impiego con il governo del Texas non trovi alcuna scappatoia per evitare di essere penalizzato:

“‘Boicottare Israele’ significa rifiutarsi di aver a che fare con, interrompere attività economiche con o comunque prendere qualunque iniziativa che intenda penalizzare, infliggere un danno economico o limitare i rapporti commerciali espressamente con Israele o con una persona o un ente che faccia affari in Israele o nel territorio controllato da Israele…”

Il fatto che il Texas consideri inaccettabile persino il boicottaggio di attività economiche che avvengono nelle colonie ebraiche illegali nella Cisgiordania occupata lo mette in contrasto con le leggi internazionali e di conseguenza con la grande maggioranza della comunità internazionale.

Ma non esprimiamo subito un giudizio affrettato, condannando il Texas per essere l’infame e stereotipato “selvaggio West”, come dipinto persino negli stessi mezzi di comunicazione degli Stati Uniti. Infatti il Texas non è che una piccola parte di una massiccia campagna governativa americana intesa a soffocare la libertà di parola come sancita dalla stessa costituzione del Paese.

Venticinque Stati degli USA hanno già approvato leggi contro il boicottaggio di Israele o hanno emesso decreti che prendono di mira le reti di appoggio al boicottaggio, mentre altri Stati stanno per seguirne l’esempio.

A livello del governo federale, la legge contro il boicottaggio di Israele del Congresso, accolta con entusiasmo dai parlamentari USA, intende sanzionare e incarcerare chi boicotta Israele.

Mentre c’è una forte opposizione della società civile contro così evidenti violazioni dei principi basilari della libertà di parola, quelli che fanno campagna a favore di Israele sono impazziti.

Il Texas – che ha approvato e messo in pratica leggi che criminalizzano l’appoggio al boicottaggio di Israele, come sostenuto dal movimento della società civile palestinese per il Boicottaggio il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) – continua a indicare la strada ad altri Stati.

Nella città texana di Dickinson, che lo scorso anno è stata devastata dall’uragano Harvey, alle vittime dell’uragano è stato chiesto di firmare un impegno a non boicottare Israele in cambio di aiuti umanitari di primo soccorso.

Per gli abitanti sfollati della città dev’essere stato assolutamente sconcertante apprendere che le misere provviste che stavano per ricevere dipendevano dal loro appoggio al governo di estrema destra del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

Ma al momento questo è il triste stato della democrazia negli USA, in cui gli interessi di un Paese relativamente piccolo e lontano sono diventati il centro delle politiche del governo USA, in patria e all’estero.

I facoltosi sostenitori di Israele stanno lavorando mano nella mano con gli influenti gruppi della lobby israeliana a Washington, ma anche a livello statale e persino cittadino per fare in modo che il boicottaggio di Israele sia punibile per legge.

Molti politici USA stanno rispondendo all’insensata richiesta della lobby di criminalizzare in tutto il Paese il dissenso politico. Benché in realtà a molti di loro non interessi affatto o non comprendano neppure realmente la natura del dibattito relativo al BDS, essi sono disposti a fare uno sforzo in più (fino a violare la sacralità del loro stesso sistema democratico) per guadagnarsi il favore della lobby, o almeno per evitarne la collera.

Negli USA la campagna contro il BDS è iniziata seriamente pochi anni fa e, a differenza della strategia del BDS, ha evitato tentativi dal basso, concentrandosi invece sulla rapida creazione di un organismo ufficiale per il lavoro legale che metta sul banco degli imputati chi boicotta Israele.

Benché il linguaggio giuridico messo insieme in fretta e furia sia stato coraggiosamente sfidato e, a volte, completamente ribaltato dagli avvocati e dalle organizzazioni della società civile, la strategia israeliana è riuscita a mettere sulla difensiva i sostenitori del BDS.

Questo limitato successo può essere attribuito ai potenti amici di Israele che hanno risposto generosamente ed energicamente ai tamburi di guerra di Tel Aviv.

Il magnate del gioco d’azzardo di Las Vegas Sheldon Adelson ha impugnato le redini del comando. Ha preso l’iniziativa formando l’“Unità Operativa Maccabea”, che ha raccolto milioni di dollari per lottare contro quello che fonti ufficiali israeliane definiscono come una minaccia letale per Israele e la delegittimazione del Paese come “Stato ebraico”.

Una delle principali strategie che il campo israeliano ha proposto nella discussione è l’ingannevole nozione che il BDS chieda di boicottare gli ebrei, invece del boicottaggio di Israele in quanto Stato che viola le leggi internazionali e numerose risoluzioni delle Nazioni Unite.

Un Paese che pratica il razzismo come se nulla fosse, difende la segregazione razziale e costruisce muri dell’apartheid non merita altro che il boicottaggio totale. Questo è il livello minimo di responsabilità morale, politica e giuridica, considerando che gli USA, come altri Paesi, hanno l’obbligo di onorare e rispettare le legge internazionali a questo proposito.

Tuttavia gli USA, incoraggiati dalla mancanza dell’obbligo di pagarne le conseguenze, continuano a comportarsi allo stesso modo di Paesi che Washington attacca in continuazione per il loro comportamento antidemocratico e per la violazione dei diritti umani.

Se eventi così bizzarri – il licenziamento di insegnanti e il fatto di subordinare l’aiuto in base a prese di posizione politiche – avvenissero per esempio in Cina, Washington avrebbe guidato una campagna internazionale di condanna dell’intransigenza e della violazione dei diritti umani da parte di Pechino.

Molti americani devono ancora comprendere come la sudditanza degli Stati Uniti ai voleri politici di Israele stia pregiudicando la loro vita quotidiana. Ma con sempre maggiori restrizioni legali di questo tipo, persino l’americano medio si ritroverà presto a lottare per diritti politici basilari che, come Bahia Amawai, ha sempre dato per scontati.

Sicuramente Israele può aver avuto successo nell’obbligare alcune persone a non impegnarsi apertamente nell’appoggiare il BDS, ma alla fine perderà anche questa battaglia.

Soffocare le voci della società civile raramente funziona per molto tempo, e la campagna anti-BDS, che ora è arrivata al cuore del governo USA, è destinata prima o poi a suscitare un dibattito a livello nazionale.

Difendere l’apartheid israeliana è più importante per gli americani che conservare la natura fondamentale della loro democrazia?

Questa è una domanda a cui ogni americano, indipendentemente da quello che pensa dell’apparentemente lontano conflitto mediorientale, deve rispondere, e con urgenza.

Le opinioni esposte in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)

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NUOVE NORME NELLE CARCERI ISRAELIANE? I DETENUTI PALESTINESI NON CI STANNO – Gianni Sartori
Stando a quanto si poteva leggere su Asharq Al-Awsat nelle carceri israeliane dove sono rinchiusi i prigionieri palestinesi soffia aria di insubordinazione. O forse di rivolta.
Con una dichiarazione – firmata da cinque fazioni (Fatah, Hamas, Jihad islamica, Fronte popolare per la Liberazione della Palestina e Fronte democratico per la Liberazione della Palestina) – hanno voluto protestare contro l’applicazione del piano di Gilad Erdan, ministro israeliano della Sicurezza interna.
Affermano i prigionieri:
“ In risposta alla dichiarazione di Erdan, noi, i prigionieri, ci uniremo per affrontare questo attacco, armati di un autentico sentimento di unità nazionale ” appellandosi quindi al popolo palestinese affinché sostenga il loro movimento.
Il piano introduce ulteriori restrizioni (tra cui perfino la riduzione della quantità d’acqua disponibile, oltre alla proibizione di cucinare il proprio cibo, la fine della separazione tra detenuti di fazioni rivali…)  e viene considerato come una “dichiarazione di guerra”.
Non si esclude – stando a quanto dichiarano le organizzazioni firmatarie – di dover  icorrere a una “ massiccia insurrezione ” all’interno delle carceri per far valere i diritti dei prigionieri.
Nel testo si sostiene che il governo israeliano ricorrerebbe a tali misure sostanzialmente per ragioni elettorali. Oltre che – beninteso – per mantenere “ lo stato di guerra permanente contro di noi, il popolo palestinese”.
Ma secondo alcuni osservatori, in Israele il piano di Erdan non è stato nemmeno preso in considerazione. Valutato come un gesto propagandistico privo di fondamento o
addirittura “ volgare campagna elettorale”.  Anche secondo alcuni funzionari delle carceri “
la maggior parte delle cose proposte da Erdan sono impossibili da applicare”.
E intanto si allunga la lista dei palestinesi uccisi dal piombo israeliano al confine con la Striscia di Gaza. L’11 gennaio un uomo di 43 anni, Amal al-Taramsi, è stato colpito alla testa
durante una manifestazione. Con lui sono 241 gli abitanti di Gaza uccisi dal marzo dell’anno scorso, la maggior parte in prossimità della frontiera.

 

QUALCOSA DI TERRIBILE SI STA PREPARANDO PER I PALESTINESI A GAZA – Motasem A Dalloul

 

Un membro di rilievo dell’Ufficio Politico di Hamas lunedì ha affermato che “il peggio deve ancora venire” per quanto riguarda la Striscia di Gaza. Il commento di Musa Abu Marzuk ha seguito l’annuncio dell’Autorità Palestinese (ANP) che ritirerà i suoi addetti alla sicurezza dal Valico di Rafah, la sola via tra Gaza e il mondo esterno attraverso l’Egitto. Ha twittato opinioni simili dopo che il ministro degli Affari Civili dell’ANP Hussein Al-Sheikh ha promesso che sono in arrivo ulteriori misure punitive per irrigidire lo stato di assedio ai Palestinesi nell’enclave costiera.

La dichiarazione ha fatto seguito a un incontro tra il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas e il presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi avvenuto al Cairo. Abbas si trovava lì per partecipare all’apertura di una moschea e di una chiesa nella nuova zona della capitale amministrativa, ma non è chiaro cosa sia intercorso esattamente tra i due uomini. Il membro del Comitato Centrale di Fatah, Dalal Salama, ha dichiarato che il suo movimento terrà incontri con Abbas dopo il suo ritorno dal Cairo per discutere di misure “più severe e precise” contro i palestinesi a Gaza.

La settimana scorsa, quando l’ANP ha pagato i suoi dipendenti nel territorio assediato, migliaia di essi non hanno ricevuto i loro stipendi. Più tardi è stato rivelato che erano membri di Fatah fedeli all’ex leader, Mohammed Dahlan — un rivale politico di Abbas — oppure si trattava di coloro che ancora disobbediscono all’editto di Abbas di rifiutarsi di lavorare nella pubblica amministrazione sotto il governo guidato da Hamas. Abbas diede l’ordine nel 2007 quando Hamas espulse Fatah dalla Striscia di Gaza, mettendo fine a diciotto mesi di disordini che fecero seguito alla netta vittoria del Movimento di Resistenza Islamica alle elezioni generali del 2006. Il leader dell’ANP ha pagato i dipendenti pubblici per rimanere a casa negli ultimi 12 anni al fine di usurpare il voto popolare.

Secondo il quotidiano Maariv, Abbas probabilmente prenderà misure punitive supplementari contro il popolo palestinese a Gaza nei suoi sforzi per segnare un punto a livello politico contro Hamas. Il giornale ha riportato le scoperte degli agenti della sicurezza israeliani che ritengono che misure punitive più severe contro Gaza possano influenzare la situazione della sicurezza in Israele perché la resistenza palestinese accusa lo stato di occupazione di essere dietro a tutte queste mosse e risponderà attaccando obiettivi israeliani. Tutto ciò suggerisce che si stia preparando qualcosa di molto spiacevole per Gaza.

Dalla Norvegia, il direttore del Global Network for Rights and Development (GNRD – Rete globale per i diritti e lo sviluppo), Lo’ay Deeb, ha riportato fonti informate che affermano che “un’escalation senza precedenti contro Gaza arriverà presto”. Ha aggiunto che un accordo firmato dai principali paesi arabi include l’annuncio che Gaza è “territorio insorto”. Non sono stati solo gli stati arabi a sottoscrivere tale accordo; anche Israele lo ha fatto.

Inoltre, il canale televisivo israeliano Channel 20 ha appena riferito che le autorità di occupazione hanno annunciato la sospensione degli aiuti finanziari da parte del Qatar che vengono portati tramite Israele verso Gaza. Il canale ha dichiarato che il governo israeliano ha dato la colpa di tale sospensione al fatto che un missile sarebbe stato presumibilmente lanciato da Gaza ad Ashkelon durante la notte. Il governo ha chiesto all’ambasciatore del Qatar in Palestina, Mohammad Al-Emadi, di rinviare la sua visita a Gaza prevista per domenica, quando avrebbe dovuto consegnare i fondi del Qatar per pagare gli impiegati del governo nell’enclave. Anche l’Egitto ha aderito all’accordo. Quando l’ANP e Fatah adottano misure contro Gaza o Hamas, l’Egitto solitamente chiede loro di riflettere due volte sulle loro decisioni o di annullarle. Questa volta, però, quando l’ANP ha annunciato il ritiro dei suoi ufficiali da Rafah, l’Egitto ha dichiarato che avrebbe chiuso il confine da martedì; permetterà di rientrare a Gaza solo ai palestinesi che si trovano all’estero e progettano di tornare a casa.

L’ANP ha imposto ulteriori misure punitive alla popolazione di Gaza; le autorità di occupazione israeliane hanno vietato il trasferimento di somme consistenti di denaro sul territorio; l’Egitto ha chiuso il Valico di Rafah e un’escalation israeliana sembra essere all’orizzonte. Si sta preparando qualcosa di serio per la Striscia di Gaza e sembra che Abu Marzuk abbia ragione: il peggio deve ancora venire. Se ciò accadrà, la comunità internazionale continuerà a tacere, come ha fatto durante le precedenti offensive militari israeliane, anche se le punizioni collettive rappresentano una grave violazione del diritto internazionale? Il mondo ha la possibilità di fare qualcosa ora; se i diritti umani e lo stato di diritto significano qualcosa, la comunità internazionale deve opporsi alla continua oppressione di oltre 2 milioni di persone imprigionate a Gaza prima che sia troppo tardi.

(Traduzione per InfoPal di Giulia Zeppi

© Agenzia stampa Infopal
E’ permessa la riproduzione previa citazione della fonte “Agenzia stampa Infopal – www.infopal.it”)

 

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Revocato premio ad Angela Davis perché sostiene diritti dei palestinesi

 

Il Birmingham Civil Rights Institute dell’Alabama ha revocato il premio “Fred Shuttlesworth” per i diritti umani alla filosofa, docente universitaria e storica attivista dei diritti umani americana Angela Davis. Il motivo dietro la decisione è il sostegno che Davis manifesta per i diritti dei palestinesi sotto occupazione militare israeliana. “Ho imparato ad oppormi con la stessa passione sia all’antisemitismo e sia al razzismo. In questo contesto mi sono avvicinata alla causa palestinese”, ha spiegato la docente 74 enne dicendosi molto stupita dalla decisione presa alla commissione del premio. Davis ha denunciato chi vuole punirla per aver chiesto che lo Stato di Israele smetta di opprimere i palestinesi. “L’attacco nei miei confronti è un attacco contro lo spirito di indivisibilità della giustizia”, ha protestato.

A spingere affinché il premio fosse revocato è stato in particolare il “Centro per la conoscenza dell’Olocausto” di Birmingham che ha espresso “preoccupazione e delusione” per il riconoscimento assegnato a Davis. Ha quindi invitato il centro per i diritti umani a “riconsiderare la decisione” in considerazione del “sostegno esplicito” offerto dalla docente alla campagna Bds per il boicottaggio internazionale di Israele. Dopo questo intervento il Birmingham Civil Rights Institute ha comunicato che “in seguito a un esame più attento delle dichiarazioni della signora Davis abbiamo concluso che non soddisfa tutti i criteri su cui si basa il premio”.

Davis da parte sua ha annunciato che il mese prossimo andrà ugualmente a Birmingham per prendere parte a “un evento alternativo”. Una coalizione locale di attivisti e cittadini ha organizzato una iniziativa pubblica a sostegno della docente centrata sul suo impegno per i diritti umani e il lavoro che svolge contro l’ingiustizia in giro il mondo.

Angela Davis è un’attivista del movimento afroamericano ed è stata militante del Partito Comunista degli Stati Uniti d’America fino al 1991. Nata a Birmingham in un quartiere dominato da un profondo razzismo contro i neri, sin da adolescente si avvicina al Partito comunista e alla lotta per i diritti degli afroamericani. Laureatasi alla Brandeis University, in Massachusetts, si trasferì in Francia e in Germania dove divenne allieva del grande filosofo ed esponente della Scuola di Francoforte, Herbert Marcuse. Tornata negli Usa, venne arresta e incarcerata per il suo presunto collegamento con la rivolta del 7 agosto 1970 guidata da Jonathan Jackson e dalle Pantere Nere che vide anche l’uccisione di un giudice. Davis risulterà innocente e verrà assolta con formula piena. In carcere la militante comunista scriverà alcune delle pagine più famose della contestazione statunitense. La sua liberazione fu sostenuta, fra gli altri da Jean-Paul Sartre.

Di recente Angela Davis ha insegnato nel dipartimento di storia dell’Università della California a Santa Cruz, dove ha diretto il Women Institute. Negli ultimi anni si è opposta all’orientamento islamista di una parte del movimento  afroamericano.

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Fierezza sionista – Patrizia Cecconi

 

Netanyahu finalmente ammette E CON VANTO! di aver effettuato centinaia di raid in Siria per colpire l’Iran.

Qualunque altro paese avesse fatto qualcosa del genere, senza una dichiarazione di guerra ma per ingerenze arbitrarie, sarebbe stato sanzionato dall’ONU, ma Israele è uber alles e finché lo sarà non  scatterà nessuna sanzione.

Intanto questa mattina il piccolo Abdel Raouf Salha, colpito venerdì scorso alla testa da un assassino ebreo israeliano, è morto. Aveva solo 14 anni. Era a manifestare nell’accampamento a est di Jabalia al 42° venerdi per il diritto al ritorno e la fine dell’assedio.

Hanno provato a salvarlo i medici dell’Indonesian hospital, poi l’hanno trasferito allo Shifa Hospital, il più grande e più attrezzato, ma chi lo ha colpito alla testa voleva ucciderlo e l’agonia è stata inutile. Forse è stato usato un proiettile ad espansione, o forse un proiettile semplice, sempre arma criminale  come tutte quelle che usa Israele, ça va sans dire, e forse anche di questo si vanteranno i criminali sionisti.
La marcia del 42° venerdì aveva come parola d’ordine “la nostra determinazione spezzerà l’assedio”. Forse hanno ragione i gazawi, è questione di tempo ma vinceranno. Forse!
Chi scrive ha partecipato a più di 20 marce e ha visto la determinazione e insieme l’incredibile entusiasmo con cui si svolgono queste manifestazioni. Nessuno vuole morire, ma tutti sono consapevoli che per guadagnare la libertà va messo in conto anche il rischio di perdere la vita. Anche i bambini come Abdel lo sanno, e anche gli altri piccoli martiri uccisi prima di lui lo sapevano. Non lo sapevano soltanto i neonati o i bimbi di due anni sui quali gli assassini in divisa hanno comunque fatto il tiro a segno, ma gli altri lo sanno tutti. E comunque vanno.

Ma perché questo? e qui la domanda interroga tutti noi. Perché rischiare la vita per ottenere ciò che è un diritto dichiarato solennemente dall’Organizzazione delle Nazioni Unite?Perché lasciare che uno Stato distrugga un diritto di tutti ridicolizzando la massima espressione sovranazionale con l’impunità dei suoi crimini?

Se qualcuno si pone al di sopra del Diritto internazionale, questo Diritto non è più tale. Per sua definizione, o è valido erga omnes o non è diritto internazionale.

E allora fa bene Netanyahu  ad essere fiero dei suoi crimini, cioè di quelli ordinati alle forze militari del suo Stato, fa bene ad esserne fiero perché questo dimostra che è al di sopra di ogni legge umana comprese quelle emanate dall’autorità più alta.

 

Forse si ispira alle pagine più feroci dell’Antico testamento per sentirsi tanto fiero. Magari alle pagine relative a Giacobbe, colui che sconfisse Dio acquisendo il nome di “Israele”.

Del resto l’ONU rappresenta, almeno teoricamente, la massima espressione laica del Diritto e Israele la scavalca, quindi la vince, così come nella narrazione biblica cui il sionismo si ispira, Giacobbe vinse Dio, la massima espressione della fede, ricevendone in cambio, sempre secondo la narrazione biblica, la promessa di ottenere tutta la terra di Canaan. Ma questo appartiene a narrazioni religiose più o meno apprezzabili. Tornando invece alla realtà secolare, se uno Stato si pone al di sopra del Diritto internazionale, questo Diritto non è più tale. Quindi è l’intero consesso umano che viene ferito dalla fierezza sionista che offende il Diritto internazionale e che viola costantemente il Diritto umanitario universale.

Il piccolo Abed è stato ucciso con un colpo alla testa, forse dallo stesso cecchino che nello stesso giorno ha sparato alla testa ad Amal la donna di 43 anni che era lì, a qualche centinaio di metri dalla rete a dire “la nostra determinazione romperà l’assedio“. La loro determinazione! e perché la loro? avrebbe dovuto già romperlo l’ONU! Ma l’ONU non ha potere davanti a Israele e quindi ogni assassino israeliano è libero di giocare con le vite dei palestinesi senza pagare alcun prezzo, tranne quello di incontrare l’esasperazione di due ragazzini di 14 anni che potrebbero accoltellarlo per la strada, come successo al militare Weissman in Cisgiordania 3 anni fa. Omicidio per il quale il pubblico ministero israeliano ha chiesto la condanna a 35 anni, nonostante la minore età dei ragazzi, e una multa impossibile da saldare, pari a qualche milione di shekel.

Quindi Israele seguita a dimostrare al mondo la sua essenza “uber alles” e il mondo seguita a tollerare o, peggio, a condannare per antisemitismo chiunque si esprima contro i suoi crimini.  Dovranno arrivare i suoi missili anche sulle nostre città per capire che il mostro va fermato? Forse, però allora sarà troppo tardi.

Intanto riposino in pace i tanti martiri palestinesi che ora sarebbero tra noi, se l’ONU avesse ragion d’essere e capacità di agire nel rispetto della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
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I maltrattamenti subiti dai prigionieri palestinesi detenuti da Israele devono diventare “un caso internazionale” – Fayez Rasheed

 

Durante una conferenza stampa tenuta alcuni giorni fa presso gli uffici del ministero per la Sicurezza Pubblica nella Gerusalemme occupata, il ministro israeliano Gilad Erdan ha annunciato che imporrà ulteriori misure punitive nei confronti dei prigionieri palestinesi. Tra queste, vi sarà la separazione dei prigionieri di Fatah e di Hamas l’uno dall’altro, smantellando così le fazioni tra i detenuti e abolendo l’indipendenza accordata loro prima che venissero ridistribuiti e mischiati. Ha inoltre deciso di abolire la posizione del portavoce dei prigionieri, vietare di cucinare autonomamente, abbassare l’ammontare di denaro consentito per l’acquisto di cibo e bevande dalla mensa, e cancellare completamente qualsiasi deposito di denaro in contanti dall’Autorità Palestinese a tempo indefinito. Secondo lo Yedioth Ahronoth, Erdan ha dichiarato che deve essere istituito uno stato di deterrenza e antiterrorismo, e ciò deve continuare sia all’interno delle carceri che all’esterno di esse.

Nelle carceri israeliani stanno soffrendo circa 7.000 detenuti palestinesi, comprese donne, anziani e bambini. Molti di loro sono stati condannati all’ergastolo; alcuni si trovano dietro le sbarre da oltre trent’anni. La battaglia portata avanti dai prigionieri palestinesi si concentra soprattutto sul miglioramento delle difficili situazioni della loro detenzione che hanno lo scopo di ucciderli lentamente, sia fisicamente che psicologicamente. Vengono tenuti in condizioni difficili e di sovraffollamento e devono affrontare la mancanza di alimentazione adeguata e un trattamento medico scadente (o addirittura mancante); non possono accedere ai libri; alla radio non possono ascoltare nient’altro che le notizie israeliane, mentre è vietato guardare la televisione. Inoltre, su di loro vengono testati nuovi medicinali che, assieme alle difficili situazioni di vita, conducono molti prigionieri allo sviluppo di malattie croniche e di disabilità permanenti.

Le visite familiari vengono spesso bloccate del tutto o annullate casualmente. Quando vengono permesse, le autorità del carcere usano barriere di filo spinato in modo da obbligare i detenuti ed i loro parenti a stare lontani tra di loro di almeno un metro.

Una delle pratiche israeliane più pericolosa attuata contro i detenuti palestinesi è quella della tortura psicologica derivante dal fatto di essere trattenuti in detenzione amministrativa, senza nessuna accusa o processo. Questa forma di detenzione è rinnovabile e può quindi continuare per molti anni, senza nessuna visita familiare per mesi e mesi. Spesso si verificano malattie mentali croniche.

Statistiche recenti dimostrano che oltre 1 milione di Palestinesi nei territori occupati sono stati prima o poi detenuti da Israele. Questo significa che, in media, almeno un componente di ogni famiglia palestinese è stato arrestato o incarcerato.

Dal 1967, quando è iniziata l’occupazione israeliana della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, 218 detenuti palestinesi sono stati uccisi nelle carceri di Israele: 75 a seguito di omicidi premeditati, 7 sono stati uccisi sparando loro, 62 sono morti a causa di negligenza medica e 73 sono stati torturati fino alla morte.

Le donne che vengono arrestate mentre sono in gravidanza devono far nascere i loro bambini in condizioni molto dure, in una camera dell’ospedale all’interno del carcere, sorvegliate da un’infermiera. Alcune sono state ammanettate al letto mentre partorivano. I bambini restano in carcere con le loro madri.

Queste sono le condizioni di vita sopportate dai prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane, che somigliano a campi di concentramento sotto molti aspetti. Israele impone la punizione collettiva sui prigionieri, e le autorità detentive hanno utilizzato le guardie di frontiera in innumerevoli occasioni per attaccarli con munizioni vere, lacrimogeni ed altre armi, semplicemente perchè avevano chiesto migliori condizioni di vita.

E’ strano come Israele non solo si auto-proclami una democrazia, ma anche che il resto del mondo gli creda. La comunità internazionale ha, chi più chi meno, trascurato il problema dei prigionieri palestinesi trattenuti da Israele.

Tuttavia, nonostante l’oppressione di Israele e le politiche neo-fasciste, i detenuti palestinesi sono riusciti a trasformare le loro celle in luoghi di apprendimento, luoghi che aiutano a sviluppare la consapevolezza politica dei prigionieri e la lealtà verso il proprio popolo e la loro causa nazionale. I detenuti iniziano così a comprendere e a credere nella totale giustizia della loro causa, ed incrementano la loro determinazione per raggiungere l’obiettivo palestinese che è la libertà, la dignità, il ritorno e la creazione di uno stato di Palestina indipendente e sovrano.

Per di più, in carcere le divisioni politiche tra Palestinesi vengono accantonate poiché i detenuti condividono il desiderio di raggiungere l’unità nazionale tra tutte le organizzazioni palestinesi. Sono uniti anche nel cercare di contrastare i piani israeliani tesi a voler distruggere il loro desiderio.

Di tanto in tanto, i prigionieri palestinesi ricorrono all’unica arma a loro disposizione ed attuano lo sciopero della fame. Se non fossero solo dei Palestinesi – ma ebrei, ad esempio, od americani – i loro scioperi della fame otterrebbero il supporto di tutto il mondo e probabilmente se ne discuterebbe nei forum internazionali, tra questi il Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Ma essi sono Palestinesi, e quindi si applicano due pesi e due misure.

Il problema dei prigionieri palestinesi rinchiusi da Israele deve diventare una causa per qualsiasi Palestinese nel mondo, così come per gli stati arabi e musulmani; la loro causa deve essere portata in primo piano e per essa si deve combattere ai livelli più alti in tutta l’arena internazionale. Noi dobbiamo lottare perchè il trattamento riservato da Israele ai prigionieri palestinesi diventi una causa internazionale di rilevanza fondamentale. Questo è il minimo che possiamo fare per loro.

 

(Traduzione per InfoPal di Aisha Tiziana Bravi

© Agenzia stampa Infopal
E’ permessa la riproduzione previa citazione della fonte “Agenzia stampa Infopal – www.infopal.it”)

 

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Un report confidenziale, basato su venti anni di monitoraggio, afferma che nella città di Hebron Israele sta sistematicamente violando il diritto internazionale – Uri Blau

 

Una missione di osservatori internazionali, che fu istituita venti anni fa nella città occupata di Hebron, ha prodotto uno dei rapporti interni più esaurienti ed accusatori nei confronti della politica israeliana nella città: questo è quanto riferiscono persone che hanno avuto modo di accedere al dossier e di parlare poi con Haaretz a condizione di restare anonimi. Questa è la prima volta che un rapporto del TIPH (Temporary International Presence in Hebron) viene rivelato sulla stampa.

Il dossier confidenziale del TIPH, a lungo considerato un ente senza efficacia da parte dei Palestinesi, riporta numerose violazioni del diritto internazionale da parte di Israele e sembra confermare il fatto che la città è lacerata da un’occupazione sia militare che civile. A venti anni dall’istituzione di una missione che avrebbe dovuto conferire un senso di sicurezza ed assicurare il benessere dei Palestinesi, il rapporto avverte che la città è più divisa che mai a causa delle politiche del governo israeliano e delle azioni dei coloni.

Secondo il documento, Israele è colpevole di “violare sistematicamente e in maniera grave” il diritto di non discriminazione e l’obbligo di proteggere la popolazione che vive sotto occupazione dal rischio di deportazione. L’insediamento israeliano nella città di Hebron è una violazione del diritto internazionale e i “coloni estremisti” rendono la vita dei Palestinesi molto difficile nella parte della città controllata da Israele (nota come zona H2).

La missione TIPH fu istituita nel 1997 come parte del Protocollo di Hebron previsto dagli Accordi di Oslo, che autorizzava il parziale ridispiegamento militare delle forze israeliane nella parte della città di cui avevano il controllo. La missione fu successivamente ampliata grazie al Memorandum di Wye River firmato nel 1998 da Benjamin Netanyahu, all’epoca primo ministro per la prima volta, e dal leader palestinese Yasser Arafat. Alcune delle persone con cui Haaretz ha parlato per questo articolo hanno espresso il timore che la pubblicazione del rapporto possa spingere Israele a rifiutarsi di rinnovare il mandato del TIPH nella città, come deve avvenire ogni sei mesi.

Durante una visita a Parigi in novembre, Netanyahu ha affermato che a dicembre avrebbe deciso “in merito al rinnovo del mandato del TIPH”. A tal proposito il premier ha subito molte pressioni da parte della destra affinché sia revocato il mandato degli osservatori.

Negli ultimi mesi, la missione del TIPH è stata al centro di polemiche per due incidenti che hanno coinvolto gli osservatori del gruppo: nel primo, uno dei dipendenti del TIPH fu filmato, secondo la polizia, mentre perforava le gomme di un’auto appartenente ad un colono, mentre l’altro ha visto protagonista un osservatore svizzero che è stato deportato da Israele per aver schiaffeggiato, a quanto pare, un giovane colono. In seguito a questi episodi, in luglio Netanyahu ha convocato il capo della missione per una riunione.

Il rapporto di quasi cento pagine era stato commissionato in occasione del ventesimo anniversario della missione. Una precedente missione internazionale era stata formata dopo che nel febbraio 1994 Baruch Goldsteind aveva assassinato 29 fedeli musulmani nella Tomba dei Patriarchi della città. Attualmente la missione consta di 64 operatori internazionali provenienti da cinque nazioni che finanziano la loro presenza: Italia, Norvegia, Svezia, Svizzera e Turchia, dopo il ritiro della Danimarca. La missione sottopone i suoi rapporti solamente ai rispettivi paesi d’origine e alle autorità palestinesi ed israeliane, senza renderli pubblici.

Il TIPH ha una reputazione controversa. Ad Hebron lo chiamano ironicamente “ Tutti gli impotenti che Pattugliano Hebron” giocando con le iniziali della missione. Tuttavia, nonostante abbia un potere limitato, il TIPH ha sicuramente una reputazione migliore di tante altre organizzazioni internazionali che operano nell’area. Le organizzazioni no-profit e per la difesa dei diritti umani che operano nella zona sono spesso accusate dalle autorità israeliane di essere anti-israeliane o di sinistra. Il TIPH è diverso: i membri della missione si incontrano periodicamente con le forze di difesa israeliane e con i funzionari dell’amministrazione civile israeliana; possono muoversi liberamente in una città nota per le sue restrizioni alla mobilità; ma, soprattutto, il gruppo ha operato ad Hebron per più di vent’anni con l’autorizzazione israeliana.

Un altro degli obiettivi della missione è quello di aiutare la promozione e la realizzazione di progetti finanziati dai paesi donatori e di incoraggiare la crescita e lo sviluppo economico della città.

“Dure e sistematiche”

Alla fine del 2017, il TIPH ha realizzato uno dei lavori più significativi dalla sua istituzione: un rapporto che include i suoi venti anni di monitoraggio e che punta i riflettori sui problemi e sulle tendenze identificate dal gruppo.

Il dossier si basa, fra l’altro, su più di 40.000 “rapporti di incidenti” compilati dagli osservatori TIPH nel corso degli anni e giunge alla conclusione che la città si sta muovendo nella direzione opposta da quella auspicata da Israele e dall’OLP nel Protocollo di Hebron.

Quest’ultimo fu firmato nel 1997 e divide Hebron in due parti: H1, l’area controllata dall’Autorità Palestinese che comprende circa l’80% della città e 175.000 Palestinesi; H2, l’area controllata da Israele in cui 500/800 coloni vivono a fianco di 40.000 Palestinesi.

 

Secondo il dossier, Israele sta violando il diritto di non discriminazione sancito dalla Dichiarazione Internazionale sui Diritti Civili e Politici, ratificato da Israele nel 1991. I Palestinesi che vivono nell’area sotto controllo israeliano (H2) non godono della libertà di movimento né di quella di culto, due evidenti violazioni dei loro diritti. Inoltre il TIPH afferma che Israele viola sistematicamente l’Articolo 49 della Convenzione di Ginevra (IV), che proibisce la deportazione delle persone protette (cioè quelle che vivono sotto occupazione e non sono cittadini del paese occupante) fuori dal territorio occupato.

Un diplomatico che ha avuto accesso al dossier ha riferito ad Haaretz che vi si legge: “questo diritto umano basilare è violato sistematicamente e in maniera sempre più grave ai danni dei Palestinesi di Hebron, soprattutto quelli che risiedono in H2, per quanto riguarda la mancata libertà di movimento e di culto.”

Il rapporto afferma che una “vita normale”, soprattutto nel centro storico di Hebron, all’interno dell’area H2 controllata da Israele, non si trova da nessuna parte, facendo riferimento al mandato del TIPH secondo il quale la missione “assiste nel monitoraggio e nell’impegno a mantenere una vita normale nella città di Hebron”. Inoltre, il vecchio mercato ortofrutticolo palestinese è diventato un’area militare israeliana, spesso occupata dai coloni ed utilizzata come parco giochi per i loro figli, come riportato nella relazione.

Il rapporto contesta anche certe rivendicazioni di proprietà dei terreni nel centro storico di Hebron da parte di coloni che dicono di rappresentare precedenti proprietari ebrei fuggiti od uccisi durante il massacro di Hebron del 1929. Secondo il rapporto, gli attuali coloni non hanno legami familiari con i precedenti proprietari, e la questione della proprietà di terre abitate od utilizzate da ebrei prima del 1929 non è ancora stata risolta chiaramente. A prescindere da tali rivendicazioni di proprietà, il TIPH afferma che la presenza di qualunque insediamento israeliano in Hebron è da considerarsi una violazione della legge internazionale.

Il rapporto riferisce anche che c’è un esodo dall’area H2 di quei Palestinesi che si possono permettere di trasferirsi nell’area H1, controllata dall’Autorità Palestinese, dove devono subire meno restrizioni. Secondo il rapporto, coloro che non possono o non vogliono lasciare l’area H2 sono costretti ad affrontare i “coloni israeliani radicali”, sostenuti dal governo israeliano e dalle fondazioni ebraiche all’estero.

Il rapporto avverte che la suddivisione delle responsabilità per la sicurezza nelle aree H1 ed H2 contrasta con il protocollo di Hebron ed ostacola lo spostamento di persone, beni e veicoli all’interno della città. Gli ostacoli e le barriere tra le due aree si sono trasformati in una fortificazione militare che consiste in numerosi sbarramenti e posti di blocco gestiti da forze di sicurezza israeliane, che controllano principalmente gli abitanti palestinesi.

Il rapporto evidenzia la situazione di Shuhada Street, probabilmente la più famosa strada di Hebron. Un tempo teatro di un florido mercato palestinese, oggi è priva di Palestinesi e tutte le saracinesche dei negozi sono abbassate. Secondo il rapporto, i Palestinesi non hanno ancora il permesso di percorrere la strada in auto né di attraversarne a piedi certe parti. Inoltre, negli ultimi 20 anni, il TIPH ha assistito all’estensione di tali restrizioni degli spostamenti dei Palestinesi lungo Shuhada Street ad altre zone dell’area H2.

Al contrario, gli automobilisti israeliani possono accedere a tutte le strade dell’area H2. Poco a poco, secondo quanto riportato, i coloni hanno avuto il permesso di costruire e di estendere le proprie attività di insediamento, anche su territori palestinesi. Il rapporto riferisce anche che la costruzione di infrastrutture e la manutenzione di strade, acquedotti e vie di accesso è stata concessa in via prioritaria ai coloni israeliani.

Il TIPH riferisce anche che un territorio nell’insediamento di Tel Rumeida, affittato da Palestinesi per più di una generazione, è stato chiuso secondo ordini militari israeliani ed utilizzato per scavi archeologici, finalizzati a dimostrare la presenza ebraica in quella zona fin dal primo secolo a.C..

Allo stesso tempo, dice il rapporto del TIPH, la libertà di movimento dei Palestinesi che vivono a Tel Rumeida è stata drammaticamente ridotta. Negli anni, la zona è stata chiusa e circondata da numerosi posti di blocco, con conseguenze disastrose per i suoi abitanti palestinesi. Ad esempio, non possono ricevere visitatori che non siano registrati su una lista in possesso delle guardie dei posti di blocco. Il TIPH osserva che i Palestinesi sono spesso molestati in questi posti di blocco, e che possono trasportare cibo o altri rifornimenti nelle loro abitazioni solo a piedi. Lo studio, il lavoro ed i rapporti familiari sono molto difficili per questi cittadini.

Il TIPH testimonia anche come, nel corso degli anni, siano stati tracciati sentieri e strade all’interno di aree rurali palestinesi, per creare percorsi ad uso esclusivo di devoti ebrei diretti dall’insediamento di Kiryat Arba al centro di Hebron. Inoltre, per ampliare queste strade, sono stati demoliti antichi edifici palestinesi risalenti all’era ottomana che erano situati lungo il percorso.

Gli osservatori del TIPH sottolineano anche che i Palestinesi devono affrontare numerosi ostacoli per accedere alla Moschea di Abramo, un sito religioso importante sia per i Musulmani che per gli Ebrei (vi si trova anche la Tomba dei Patriarchi). Oggi ci sono solo due accessi al luogo sacro musulmano ed i devoti sono costretti ad oltrepassare prima diversi posti di blocco controllati da Israeliani. I devoti sono perquisiti e talvolta costretti a sollevare le proprie vesti. Il muezzin, dice il TIPH, non ha il permesso di chiamare i fedeli per la preghiera del venerdì sera e del sabato a causa dello Shabbat ebraico. Gli osservatori aggiungono che, se –in un dato venerdì del 2003– circa 1600 fedeli palestinesi frequentavano la moschea, nel 2017 quel numero si è dimezzato.

Sebbene il rapporto sia molto critico nei confronti di Israele, non contiene alcuna richiesta o proposta di provvedimenti né da parte degli Israeliani né dei Palestinesi. È stato consegnato ai ministri degli esteri dei cinque stati membri contribuenti ed è stato recentemente presentato ai diplomatici in visita ad Hebron.

Haaretz ha invitato il TIPH a commentare il rapporto e ha chiesto se fossero state prese eventuali iniziative sulla base delle sue conclusioni. Un portavoce ha risposto che il loro mandato “afferma che il TIPH assiste nel monitoraggio e nell’impegno a mantenere la vita normale nella città di Hebron, in accordo con il protocollo di Hebron e con l’accordo tra le parti. I rapporti sono regolarmente sottoposti alle autorità palestinesi ed israeliane ed ai cinque stati contribuenti. Come richiesto dalle parti, tutte le informazioni prodotte dal TIPH sono strettamente confidenziali. Il TIPH ha un dialogo regolare con entrambe le parti.”

Haaretz ha chiesto all’Ufficio del Primo Ministro un commento sul rapporto e sulle sue conclusioni, ma la richiesta è stata reindirizzata al Ministero degli Esteri, che ha risposto: “Le relazioni del TIPH non sono finalizzate alla pubblicazione. Esse sono condivise con entrambe le parti secondo l’accordo che non prevede che esse siano trasmesse ad altre parti, e di certo non ai mass media. Di conseguenza, non intendiamo commentare informazioni parziali o qualunque altra pubblicazione su questo tema.” (pubblicato su Haaretz)

Traduzione di Sonia Valentini e Rosaria Brescia

 

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Un commento

  • I perseguitati di ieri sono i persecutori di oggi. E pare che nemmeno i Palestinesi siano esenti da critiche, spaccati, come sono, al loro interno. Tutto questo ha un solo nome: la logica del Potere.

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