Intervista a Karima Bennoune
di Anna Louie Sussman, per «Women in the World Foundation», 6.6.2012; traduzione di Maria G. Di Rienzo.
«Non arrendersi mai. L’avvocata Karima Bennoune, esperta di diritto internazionale in relazione ai diritti umani e attivista di lungo corso per i diritti delle donne, dice di averlo imparato da suo padre, attivista e dissidente algerino che aveva combattuto nella guerra per l’indipendenza del Paese. Successivamente, divenne uno dei principali critici dei fondamentalisti algerini, un’istanza che Karima ha preso su di sé. «Sino alla fine della sua vita mio padre non smise di tenere incontri e conferenze. Era a stento in grado di parlare, a causa dei suoi problemi di salute, ma non intendeva arrendersi». Docente universitaria, collaboratrice regolare del quotidiano «The Guardian», Karima sta lavorando a un libro dal titolo «La vostra fatwa non si applica qui» sui musulmani che in tutto il mondo si stanno opponendo ai fondamentalismi.
Tu hai scritto che la laicità e la separazione fra legge e religione sono cruciali per proteggere i diritti delle donne. Ci sono però gruppi che usano interpretazioni progressiste dei testi religiosi per sostenere i loro argomenti in contesti locali. Tu cosa pensi di questa strategia?
Io faccio parte del direttivo della rete Women Living Under Muslim Laws (WLUML cioè “Donne che vivono sotto le leggi musulmane”). Una delle ragioni per cui ritengo significativo lavorare con questa organizzazione è che essa mette insieme donne che stanno usando una vasta gamma di strategie: laiche, basate sui diritti umani universali, o sull’interpretazione progressista e la reinterpretazione della religione. Certamente non vedo le due cose come contraddittorie ma sono infastidita da quel che noto a livello internazionale, una cosa che potremmo chiamare “eccezionalismo islamico” come mi ha detto un’attivista iraniana. Quest’attitudine sembra progressista, ma in effetti finisce per indebolire le persone che lavorano sul campo, che magari hanno una fede personale ma stanno usando argomentazioni laiche per raggiungere i loro scopi. Rispetto chi ha strategie multiple, ma quando guardo a ciò che sta succedendo nell’Africa del nord sono sempre più convinta che la laicità è la chiave per l’ottenimento nella regione di diritti umani e di diritti per le donne in particolare.
Chi sono le persone che descrivi nel libro a cui stai lavorando e che si oppongono ai fondamentalismi?
Il libro inizia con la storia di mio padre, minacciato di morte da gruppi armati fondamentalisti negli anni ’90. A causa di ciò smise di insegnare all’Università, ma non lasciò l’Algeria, ne’ smise di scrivere o parlare. L’unica cosa che cambiò fu la casa in cui abitava, perché aveva trovato sul tavolo della cucina un biglietto con su scritto “Considerati morto”. Una delle cose che lo demoralizzava profondamente era la scarsità della solidarietà internazionale, in special modo l’atteggiamento di molte persone sedicenti progressiste: costoro pensavano e pensano di dover essere di sostegno ai fondamentalisti perché questi si dichiarano anti-imperialisti, o qualcosa del genere, nel mentre hanno per bersagli gli individui progressisti locali. Per cui, il libro nasce dal tentativo di capire perché le persone come mio padre sono ignorate e dal desiderio di portare le loro storie a un pubblico più vasto. La gente si chiede: “Ma dove sono i musulmani contrari all’estremismo?”. Sono dappertutto, ma nessuno presta loro attenzione.
Io ho intervistato oltre 250 persone provenienti da più di venti Paesi. Sono andata in Senegal, in Nigeria, nei Territori Palestinesi, in Afghanistan e in Pakistan. Ho parlato con gli algerini della diaspora in Francia. Sono stata in Russia e ho incontrato persone da tutta l’Asia centrale e dal Caucaso. Sono in partenza questa settimana per il Canada e l’Algeria. Ho parlato con un’ampia gamma di persone. Naturalmente sono diverse, tu noteresti la differenza se a esempio andassi nelle Filippine e in Italia per capire le diverse prospettive di persone con un background cristiano.
Una delle cose su cui i fondamentalisti musulmani e cristiani si stanno davvero impegnando è l’organizzarsi a livello internazionale e stabilire connessioni: hanno una grande disponibilità finanziaria per farlo. Chi si oppone ai fondamentalisti non ha questo tipo di sostegno. Ci sono reti come WLUML, per esempio, ma non sono neppure paragonabili. Parte del mio progetto è il tentativo di mettere queste persone in contatto le une con le altre e di fare in modo che siano ascoltate a livello internazionale. Sono dappertutto: avvocati, medici e gente comune, contadini algerini che sono stati vittime del terrorismo fondamentalista negli anni ’90, organizzatori comunitari a tempo pieno e volontari.
Perché sono stati ignorati sino ad ora?
Non sono sicura del perché, ma penso ci siano un paio di ragioni. A esempio, è molto più facile essere ascoltati se si assume una posizione estrema. Se la tua posizione è ragionevole è molto più difficile ottenere l’ascolto. Le esplosioni riverberano, letteralmente, ma le persone che lavorano quietamente contro di esse fanno molta più fatica a raggiungere le prime pagine dei giornali.
Un’altra ragione è che non rispondono alle aspettative. Si battono per i diritti umani, o per interpretazioni dell’Islam in cui l’indossare un fazzoletto in testa è opzionale e la violenza di genere contraria agli insegnamenti: non rispondono agli stereotipi che la gente di destra e quella di sinistra hanno rispetto ai musulmani. Perciò sono sconvenienti, fuori tema. Di solito sono anche persone molto critiche sulle politiche occidentali e questa può essere un’altra ragione per non ascoltarli.
Io ritengo assolutamente necessario ascoltare queste persone, imparare dal loro lavoro e dalle loro esperienze, trovare modi sensati con cui sostenere il loro lavoro: almeno, non minare quel che stanno facendo. Per cui sono stata molto attenta a non generalizzare. La cosa interessante è che, praticamente in tutti i contesti, questi attivisti hanno identificato la crescita dei fondamentalismi come uno dei maggiori pericoli per i diritti umani.
Negli Usa è in atto una specie di contrattacco sui diritti delle donne e in parte sembra verniciato di religione. Cosa possono apprendere le attiviste di qui dalle persone che tu hai intervistato?
C’è molto da imparare. Le donne tunisine mi hanno davvero impressionata per il modo in cui rifiutano di cedere sulle loro richieste. Sono andata in Tunisia nel marzo 2011, un paio di mesi dopo la caduta di Ben Ali. Eravamo ancora sull’onda di un momento euforico, i fondamentalisti stavano uscendo allo scoperto e diventavano più attivi. Pure, le donne che ho intervistato non intendevano “moderare” nessuna delle loro richieste. Erano di una chiarezza cristallina: volevano una Costituzione laica. In effetti, volevano anche di più! Stavano premendo perché le riserve espresse dalla Tunisia alla CEDAW (Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione verso le donne – Onu 1979) fossero ritirate. E’ stato risposto loro positivamente in via ufficiale, ma la richiesta vera e propria al Segretario Generale delle Nazioni Unite deve ancora arrivare.
Questo è veramente critico: non perdere il punto. Non perdere il punto perché le tue argomentazioni stanno diventando meno popolari e sempre più pressione religiosa si accalca sulla sfera politica.
UNA BREVE NOTA
(*) Queste preziose traduzioni di Maria G. Di Rienzo sono riprese – come i suoi articoli – dal bellissimo blog lunanuvola.wordpress.com/