Intorno al gioco della matassa (o ripiglino) e al futuro

Le considerazioni di Giuliano Spagnul a partire da Joanna Russ, Donna Haraway e Isabelle Stengers

«La cosa importante in una situazione nuova è di non creare spavento, e in tasca avevo proprio la cosa adatta in un’emergenza simile. Presi un pezzo di spago e cominciai a giocare a ripiglino.

Chi sei tu! – disse uno di loro. Avevano tutti delle strisce sulle tasche.

Provengo da un altro tempo, dal futuro – dissi e mostrai il ripiglino. Non è soltanto un simbolo universale di pace, ma anche un bel gioco. Era la posizione più semplice. Uno di loro scoppiò a ridere, un altro si mise le mani sugli occhi, il proprietario della scrivania indietreggiò, mentre il quarto disse: – È uno scherzo? – Vengo dal futuro. – Continua a stare lì seduta, prima o poi la verità gli si ficcherà in testa». (1)

Come scrive Donna Haraway in «Chthulucene» (2) «la categoria FS», l’acronimo che sta per FantaScienza, FemminismoSpeculativo, FabulaSpeculativa, FattoScientifico. «rappresenta una pratica e un processo, è il con-divenire l’uno insieme all’altro in una staffetta sorprendente» assimilabile alle figure di filo del gioco del ripiglino. Tirare i fili del gioco per vedere dove portano e lasciarsi sollecitare dal modello ricavato per andare avanti, passando ad altri le figure create e ricevendone nuove, facendo e disfando, prendendo ulteriori fili piuttosto che scegliendo di lasciarli perdere. Il gioco della matassa che equivale al «compito nella vita e nella morte» di «non far finire il racconto, il divenire del mondo». La fantascienza, quella classica con la quale si intende quel particolare dispositivo novecentesco che è servito a traghettarci in una modernità conclamata (piuttosto che “post”), deve il suo nome proprio a una figura di filo, scaturita dalle mani di Hugo Gernsback, un pioniere dell’elettronica con vocazione cosmica.

Tutte le storie di quel genere letterario virale – capace di contagiare progressivamente altri generi e altri media (fino all’esaurirsi in una pseudo maturità che ne occultava la precoce morte e conseguente trasformazione in qualcosa di affatto diverso) – hanno dato forma a un processo di tessitura a più mani, di figure di filo che si rincorrevano fra loro in un continuo filare e sfilare nuove norme, nuove regole, nuovi paradossi da tentare di sbrogliare. Un immaginario da costringere in un tutto coerente che, suo malgrado, non poteva non mostrarne l’irrealizzabilità assoluta.

Il difficile transito del raccontare la vita e la morte (il divenire) in un mondo orfano dall’idea di un qualunque Dio – e conseguentemente dall’impossibilità d’esistere per un Uomo che colmi questa lacuna del trascendente divenendo lui stesso Dio – ha comportato l’acquisizione della consapevolezza di ciò che da sempre era stato tenuto nascosto agli esseri umani: «il fatto che la vita umana sia nelle mani degli umani e che dunque, ci sfugga tra le dita» (3).

La nuova fantascienza, quella di cui ci parla la Haraway – non più identificabile come genere a se stante, ma altresì come dispositivo che eredita gli elementi costitutivi del genere per farli rivivere in una nuova prospettiva in cui non è più ravvisabile, o lo è sempre meno, alcuna separazione temporale fra l’oggi e il domani – rende, di fatto, evidente l’impossibilità di immaginare qualunque futuro che non sia già presente, rendendo il nostro procedere claudicante. Un’imprescindibile zoppia che tende a impedirci di correre, di stare al passo coi tempi. È questa la rivendicazione della nuova fantascienza rivoluzionaria che Donna Haraway e Isabelle Stengers (4) fanno nel loro confrontarsi sul loro tirare fili, passarseli, fare figure sempre nuove col gioco del ripiglino. Divenire zoppi o divenire mostri; in fondo si tratta di resistere all’efficienza della velocità, al suo progredire cieco verso quell’accelerazione, da ennesimo gioco per porci maschilisti (5). È un mondo nuovo quello che abbiamo trovato al termine del secolo breve, in cui ci stiamo rendendo conto che la catastrofe che temevamo, negli scenari futuribili della vecchia fantascienza, era già avvenuta, ma che al posto di un possibile esito di totale distruzione piuttosto che un salvifico, almeno in parte, giorno dopo, abbiamo trovato un paesaggio costellato di rovine ma in cui la vita sembra procedere come se nulla fosse poi realmente successo e in cui comunque occorre trovare urgentemente un modo di sopravvivere.

Una sopravvivenza che necessiterà l’imparare a giocare insieme con altri, e con altri che non siano necessariamente umani, né per forza esseri che unanimemente possiamo considerare vivi. Un gioco che non potendo metterci comunque in una posizione alla pari, come se potessimo davvero metterci nei panni dell’altro, ci impedisca di prendere decisioni che coinvolgano altri senza la presenza di questi con la conseguente finzione di prendere decisioni per il loro bene. Occorre creare una responsabilità che sia una “responso-abilità” che riguardi «sia l’assenza sia la presenza, l’uccidere e il nutrire, il vivere e il morire» e che serva «a ricordare chi vive e chi muore nelle figure di filo intrecciate nella storia naturculturale» (6).

Non è un mondo ideale da estrarre da un ipotetico contenitore di mondi FS, ma una pratica da attivare in un mondo infetto in cui si possono tentare solo «co-creazioni rischiose». Un gioco in cui «quel genere di ecologia e filosofia olistica per cui ‘tutto è connesso a tutto’ qui non ci è molto d’aiuto. Piuttosto, diremo che tutto è connesso a qualcosa, che a sua volta è connesso a qualcos’altro. Anche se in ultima analisi sono tutti connessi gli uni con gli altri, a contare è la specificità e la prossimità delle connessioni: ovvero a chi siamo legati e in quali modi. La vita e la morte avvengono all’interno di questi rapporti» (7).

Si tratta, in definitiva, per noi che proveniamo dal futuro, di non illuderci con l’ennesima utopia, dagli effetti oggi puramente consolatori; non è un mondo pacifico quello a cui dobbiamo aspirare. Nessun’arma, nessun ideale universale potrà imporre pacificazione alcuna, perché «è molto importante non dimenticare che ogni qualvolta parliamo di cosa significhi l’essere umani, di che cosa ci renda umani, ne parliamo riferendoci alla nostra storia, non in nome dell’intera umanità» (8).

E allora non si tratta di «mettersi nei panni degli altri ma di stabilire un legame tra i loro interessi e i nostri» (9). Un legame che non può darsi se non tramite un gioco in cui tutti, per quanto non pacifici, ci si presenti disarmati.

«INTERVISTATORE: Sembra strano a tutti noi, signorina Evans, che avventurandosi in un tale… insomma, in un territorio così sconosciuto… abbia deciso di venire disarmata, portando con sé nient’altro che un pezzo di spago. Si aspettava che noi fossimo pacifici?

J. E.: No. Nessuno lo è completamente.

I.: Allora avrebbe dovuto portare con sé un arma.

J. E.: Assolutamente no.

I.:: Ma una persona armata, signorina Evason, incute più terrore di una persona inerme. Una persona armata suscita paura più facilmente.

J.E.: Appunto». (10)

Nota 1: Joanna Russ, Female Man, Casa Editrice Nord, 1989, pag 34.

Nota 2: Donna Haraway, Chthulucene, Nero Edizioni, 2019.

Nota 3: La consapevolezza che rende concreto e visibile il lavorio delle mani con la sua corrispettiva “angoscia storica” rivendica proprio nella sua maldestrezza «l’immagine vivida di un tratto della specie. Possono darsi ‘invenzioni manuali’ (in questo senso lato e tuttavia tattile) come la penicillina o la dinamite nella misura in cui il progetto non coincide con la realizzazione. L’animale che stenta a imparare come allacciarsi la scarpa è lo stesso in grado di escogitare l’oggetto ‘laccio’ e l’oggetto ‘scarpa’. Se non avessimo problema nell’uso degli utensili, non avremmo alcuna possibilità d’immaginarli». Marco Mazzeo, Ciò che è mio è tuo. Magia e tecnica nell’epoca del contagio. DeriveApprodi https://www.machina-deriveapprodi.com/post/magia-e-tecnica-nell-epoca-del-contagio

Nota 4: Donna Haraway riporta in Chthulucene varie considerazioni dell’amica Isabelle Stengers sul gioco della matassa.

Nota 5: Isabelle Stengers, Matters of Cosmopolitics: On the Provocations of Gaia (conversazione con Heather Davis e Etienne Turpin) https://quod.lib.umich.edu/o/ohp/12527215.0001.001/1:19/–architecture-in-the-anthropocene-encounters-among-design?rgn=div1;view=fulltext

Nota 6: D. Haraway, Chthulucene, cit. p. 48

Nota 7: da Van Doren, Flight Ways riportato in D. Haraway, Chthulucene, cit. p. 202 nota 4.

Nota 8: I. Stengers, Una “Cosmopolitica” – Rischio, Speranza, Cambiamento, in Maria Zournazi, Tutto sulla speranza, Moretti e Vitali, 2013, p. 11

Nota 9: Ivi p. 12

Nota 10: J. Russ, Female Man, cit. p. 36

 

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