Io sono Providence

Gli innominabili orrori e i libri maledettamente inesistenti in Howard Phillips Lovecraft

di Fabrizio Astrofilosofo Melodia

«Penso che la cosa più misericordiosa al mondo sia l’incapacità della mente umana di mettere in relazione i suoi molti contenuti. Viviamo su una placida isola d’ignoranza in mezzo a neri mari d’infinito e non era previsto che ce ne spingessimo troppo lontano. Le scienze, che finora hanno proseguito ognuna per la sua strada, non ci hanno arrecato troppo danno: ma la ricomposizione del quadro d’insieme ci aprirà, un giorno, visioni così terrificanti della realtà e del posto che noi occupiamo in essa, che o impazziremo per la rivelazione o fuggiremo dalla luce mortale nella pace e nella sicurezza di una nuova età oscura» («Il richiamo di Chtulhu» del 1928).

Una stanza angusta, buia, colore della fuliggine.

Finestre ricolme di ragnatele, vetri sporchi e in parte rotti, la città sonnacchiosa avvolta in una nebbia simile a un grigiastro sudario.

Libri antichi troneggiano nella biblioteca del nonno, storie dimenticate e libri misteriosi pieni di magia, alchimia ed esoterismo si fanno strada nella mente del bambino, il quale sprofonderà in una lettura che sa di tenebre, incubi e morte.

La strada di Howard Phillips Lovecraft fu una vera road map verso l’Inferno, costellato da incubi più o meno reali, scrittori divenuti folli dopo la lettura di libri proibiti, i suddetti volumi immaginari rivelatisi anche troppo reali.

Nativo di Providence (Rhode Island) – il 20 agosto 1890 – Howard Phillips Lovecraft scrisse pagine memorabili e stranianti di incubi alieni che non conoscono paragone nella letteratura fantastica, generati in buona parte dai terribili sogni che lo perseguitavano fin da bambino.

Rimasto orfano prematuramente in età adolescenziale, Lovecraft mostrerà precocemente (fin dall’età di sei anni) un singolare talento per la letteratura e la scrittura, purtroppo spesso osteggiata dalla madre, che non perderà occasione per farlo sentire diverso e sbagliato.

Questo senso di estraneità, accentuato dalle difficoltà economiche, dai frequenti traslochi e dagli stati depressivi, diverrà una costante in tutte le sue opere, in quelle fantasy come in quelle più propriamente fantascientifiche.

Influenzato per sua stessa e chiara ammissione da Edgar Allan Poe e Lord Dunsany, i quali gli trasmisero uno stile estremamente raro e prezioso, insieme alle tematiche per gli orrori dell’inconscio e per le divinità dormienti e ostili, Howard Phillips Lovecraft rimarrà fino alla morte – avvenuta per un tumore allo stomaco il 15 marzo del 1937 – un vero estraneo alla letteratura ufficiale e di consumo, essendo assai poco commerciale e troppo pesante, oltre a costituire «un inclassificabile amalgama di fantasy e fantascienza, e non è sorprendente che abbia influenzato in maniera considerevole lo sviluppo successivo di entrambi i generi» (S. T. Joshi «Saggio su Lovecraft»).

La sua fantascienza si esplica nel problema della conoscenza proibita e dalla incapacità umana di affrontare le innominabili e blasfeme creature che popolano i freddi e alteri spazi cosmici, divinità che non aspettano altro che risorgere dal loro antico sonno, per portare follia e distruzione all’ignara e impotente società civile.

I sogni sono il veicolo privilegiato con cui le entità aliene note come appartenenti ai miti di Chtulhu comunicano con gli esseri umani, incapaci altrimenti di sostenere il confronto diretto, pena la pazzia e l’alienazione globale.

Nel racconto cardine «Il richiamo di Chtulhu» (1928) assistiamo alla rinascita di una orribile mostruosità sepolta in una città affondata nell’oceano, partendo dalla narrazione della testimonianza del marinaio norvegese Gustaf Johansen. Il marinaio e il suo equipaggio sono testimoni infatti del ritrovamento casuale, a seguito di un terremoto, della perduta città di R’lyeh, ove dimora il dormiente e gigantesco dio tentacolato Chtulhu. Precedentemente altre testimonianze avevano lasciato presagire il ritorno dell’innominabile alieno: una retata di fanatici religiosi adoratori di una divinità simile a una gigantesca piovra, che comunica con loro attraverso il sussurro del sogno; il ritrovamento di una statuetta, raffigurante un dio tentacolato, a opera dello scultore contemporaneo Wilcox, il quale afferma di averla riprodotta dal vero.

Lovecraft usa spesso l’espediente dei libri immaginari, apportatori di una conoscenza che dovrebbe invece restare sepolta per sempre.

L’arabo pazzo Abdul Alazhred (gioco di parole sarcastico con la frase «All has read», cioè “ha letto tutto”) trascrive tutte le conoscenze che gli sono pervenute riguardo agli Antichi, le entità aliene innominabili e blasfeme, contro le quali nessun essere umano ha la benché minima possibilità di fare qualcosa, se non fuggire. Il libro maledetto meglio noto come «Al azif» – è il verso che gli insetti modulano durante la notte – giunto a noi attraverso varie riscritture, in particolar modo nella traduzione di Olaus Wormius con il titolo «Necronomicon», è l’esempio massimo dell’iperstizione della fantasia malata di conoscenza: un libro immaginario, reso reale dagli incubi inconsci dei fruitori dei racconti, attraverso citazioni, rimandi, apocrifi, falsi commenti di autori mai esistiti.

La fantascienza del solitario di Providence si esplica dunque in una serrata critica al capostipite H. G. Wells e nella ricorrenza dell’indagine sugli alieni provenienti da altri modi o pieghe dimensionali, entro le quali essi riposano eternamente, in attesa di ritornare a stringere fra gli artigli gli esseri umani assolutamente ignari del loro destino nefando.

«Sogno il giorno in cui usciranno dai flutti e stringeranno negli artigli immensi i resti dell’umanità insignificante, logorata dalle guerre… il giorno in cui le terre sprofonderanno e il fondo oscuro dell’oceano salirà in superficie, nel pandemonio universale. La fine è vicina. Sento un rumore alla porta, come se un immenso corpo viscido vi premesse contro. Non mi troverà. Dio, quella mano! La finestra! La finestra!» (da «Dagon» del 1917).

Il racconto d’esordio del solitario di Providence, come veniva comunemente appellato, contiene già molti degli elementi di folle pessimismo cosmico, entro il quale l’essere umano può solo sentirsi rapito e stritolato.

Nessuno può sfuggire al proprio destino, completamente imprigionato dalla sua stessa essenza corrotta, in quanto gli Alieni si sono impadroniti degli stessi umani, plagiando il loro volere e unendosi alle loro donne, trasformandoli in orribili ibridi uomo pesce, che lentamente trasportano gli abitanti della cittadina di Innsmouth nel fondo del mare.

Questa la trama del racconto che Lovecraft giudicava migliore, «La maschera di Innsmouth» (1931): vera e propria discesa all’inferno dell’umanità, dove il tema del sangue sporco e corrotto tocca tematiche universali, con chiaro riferimento autobiografico riguardante la sifilide che portò alla follia e alla morte prematura il padre di Lovecraft.

La volontà umana di conoscenza è considerata come un qualcosa destinato alla perenne infelicità; nel peggiore dei casi, porta alla follia e alla morte, nell’alternarsi tra i conflitti interni e la tensione verso un esterno percepito come alieno e nullificante.

«Questo conflitto universale si rivela nel modo più eloquente nel mondo degli animali, che si nutre del mondo vegetale e in cui ogni individuo è, a sua volta, nutrimento e preda dell’altro; in altri termini: ogni animale deve cedere la materia in cui si rivelava la sua idea, affinché un altro possa giungere, a sua volta, a una propria rappresentazione; infatti un essere vivente non può mantenersi in vita se non a spese di un altro: la volontà di vivere si nutre costantemente della sua propria sostanza e fa di sé in diverse forme il proprio nutrimento» (Arthur Schopenhauer «Il mondo come volontà e rappresentazione»: libro II, cap. 27, pag. 224).

L’essere umano crede erroneamente di nutrirsi e consumare la natura, crede di essere il centro della creazione e che tutto gli sia dovuto, mentre al contrario è la natura – in questo caso la rappresentazione dallo spazio profondo della cosa in sé – a manifestare la natura mordace verso il soggetto umano, il quale è destinato a veder non solo inespressi i propri desideri, ma a vedersi dominato da inesplicabili soggetti esterni nettamente e inesplicabilmente superiori, dotati solo di pura essenza del volere.

«La volontà è sempre volontà di qualche cosa, dunque ha un oggetto, un fine. Ora: che cosa mai vuole, a che cosa mai tende quella volontà, che ci viene presentata come l’essenza in sé del mondo? […] L’assenza di ogni finalità e di ogni limite è infatti essenziale alla volontà in sé, che si risolve in uno sforzo senza fine. […] In conclusione: la volontà, quando la conoscenza la illumina, sa sempre quello che vuole in un dato luogo e in un dato momento; ma non sa mai quello che vuole in generale: ogni atto singolo ha un fine; la volontà nel suo insieme non ne ha nessuno» (Schopenhauer sempre in «Il mondo come volontà e rappresentazione»: libro II, cap. 29, pagg. 245-248).

Le creature mostruose rappresentano l’individuazione della volontà in sé, che guida in realtà l’infelicità umana, oltre la quale l’uomo comune non ha difesa di nessun genere, destinato a soccombere al bisogno supremo che si nutre di lui, conducendolo alla pazzia e alla fobia paralizzante. Nessuno sfugge agli alieni dei miti, i quali si insinuano anche nelle terre del sogno, unica strada di una possibile salvezza per l’uomo.

Il Caos Strisciante Nyarlathotep, mostruosa e cangiante divinità malvagia e immensamente intelligente, è presente a Kadath, città della Terra del Sogno, dove il mite e coltissimo studioso Randolph Carter intraprende la sua ricerca per trovare una risposta alla difficoltà che ha nel vivere quotidiano: viaggio iniziato dapprima nel racconto «La chiave d’argento» (1926), continuato poi in «La ricerca onirica del misterioso Kadath» (1927) in cui Lovecraft unisce ai miti di Chtulhu anche la poderosa invenzione delle Dream Lands, le Terre del Sogno, descritte in modo simile a un mondo alieno extradimensionale, cui gli esseri umani accedono per mezzo di portali.

Randolph Carter, alter ego non meglio definito dell’autore, scoprirà come sconfiggere il tremendo mostro che infesta quei luoghi, volando sulla schiena dei Magri Notturni, attraversando poi la biblioteca di Leng, comprendendo alfine che la vittoria consiste nel recuperare la chiave d’argento, sconfiggendo poi in un duello onirico il Caos Strisciante.

«Un uomo, cui riesca sollevare il velo della maya, il principium individuationis, fino a sopprimere qualsiasi distinzione egoistica fra la propria persona e l’altrui, un uomo che partecipi alle sofferenze degli altri come alle proprie, che, dunque, non soltanto si mostri soccorrevole fino all’estremo grado, ma sia pronto a sacrificare il proprio individuo, se ciò è necessario, per salvare molti individui estranei, un tal uomo, riconoscendo in tutte le creature se stesso, il più intimo, il più vero se stesso, riterrà come sue anche le infinite sofferenze di tutti gli esseri viventi, e farà suo tutto il dolore dell’universo» (Schopenhauer, «Il mondo come volontà e rappresentazione», libro IV, cap. 68, pagg. 531-532).

L’essere umano di Lovecraft non giunge mai a questa meta, tranne Randolph Carter, il quale rimane definitivamente perduto nelle Terre del Sogno, unico luogo in cui affrancarsi dalla propria e costante finitezza, dalla precarietà, dal sangue sporco, dalla primigenia e totalizzante paura.

«La più antica e potente emozione umana è la paura, e la paura più antica e potente è la paura dell’ignoto» (dal saggio «Supernatural Horror in Literature» del 1927).

Per questo suo identificarsi con la purezza del sogno, con la necessità di superare la paura dell’ignoto e dell’altro, Lovecraft mirava a ritrovare l’innocenza e l’entusiasmo del bambino che dorme in ognuno di noi, imprigionato dietro la porta della chiave d’argento, oltre la quale si accede alle DreamLands, dove Chtulhu sussurra nella sua lingua incomprensibile, dove i Magri Notturni volano alti, dove i gatti possono essere preziosi alleati.

Superato questo scoglio, identificandosi ormai con la totalità ormai non più aliena, alla sua morte avvenuta prematuramente nel 1937, sul proprio epitaffio, Howard Phillips Lovecraft poté ben scrivere: «Io sono Providence».

E noi con lui.

BREVE NOTA SU QUESTA SERIE

Asimov, Moebius, Ursula Le Guin, Wells e ora Lovecraft. Di martedì Fabrizio Melodia, che non per caso è soprannominato Astrofilosofo, disegna i profili di autori e autrici che hanno allargato il nostro sguardo sugli spazi e sugli altroquando interni, esterni, possibili e impossibili, insomma su fantascienze e altri territori del fantastico, la zona del crepuscolo… Lo ritroverete qui fra 7 giorni, non mancate. (db)


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