Iran: sull’orlo del terremoto

Una vecchia (ma attualissima) intervista di Marina Forti alla scrittrice Mahsa Mohebali

A Tehran c’è il terremoto e tutti cercano di mettersi in salvo, ma l’unico pensiero di Shadi è la sua scorta di oppio quasi finita. Il pusher non risponde, gli sms vanno a vuoto. Tra gli strilli della madre e i rimproveri di un fratello, la ragazza scivola in strada e comincia a vagare alla ricerca degli amici spacciatori. Eccoci così in una capitale iraniana in preda al delirio. Politici e religiosi sembrano scomparsi, i bancomat sono presi d’assalto, le buone maniere svaniscono. Mentre la terra continua a tremare la città è invasa da giovani: d’improvviso sono i padroni della scena. Musica a tutto volume, chi balla, chi urla. Blues, jazz, rock, metal, tutto ciò che è bandito ora è possibile: «Abbiamo la città in pugno», urla un ragazzo saltando sul tetto di un’auto. La polizia incombe, partono le cariche, ma il controllo gli sfugge. Intanto Shadi continua il suo vagare tra amici tossici e famiglie disgregate, tra il tragico e il comico con sguardo ironico e disincantato. Un aspetto dell’Iran che difficilmente sentiremo mai raccontare.

Shadi è la protagonista di Non ti preoccupare, romanzo dell’iraniana Mahsa Mohebali (pubblicato in Italia da Ponte33, nella traduzione dal farsi da Giacomo Longhi). Nata a Tehran nel 1972, Mohebali è laureata in discipline della musica ma ha coltivato la scrittura fin da adolescente, quando frequentava il seminario di un noto scrittore.

«Il primo libro l’ho pubblicato a mie spese, avevo 27 anni, e l’ho distribuito agli amici», mi ha detto un pomeriggio di maggio nel caffè di un cinema di Tehran. «Non è stato un gran successo, credo che ne sia rimasta una pila in un sottoscala a farsi rosicchiare dai topi», ride. «Ma penso che la chiave della scrittura sia leggere molto e continuare a scrivere, restare fedeli a sé, concentrarsi». Oggi Mohebali è molto apprezzata soprattutto dal pubblico più giovane (ma non solo), e ha vinto due volte il prestigioso premio letterario Golshiri: con la raccolta L’amore a piè di pagina (2004) e poi con Non ti preoccupare (2009).

«Shadi è un po’ me stessa, un po’ i miei amici», mi ha detto Mohebali in quel pomeriggio quasi estivo. Non ha alcuna pretesa di rappresentare «i giovani», dice: ha raccontato una storia spinta dalla sua stessa esperienza, punto. «Capisci, qui la droga costa poco». L’Iran è un ponte tra l’Afghanistan e l’occidente, spiega, una via del traffico di oppiacei che il governo tenta di fermare, ed è anche un punto di smercio. «L’alcool è illegale ma l’oppio no, non c’è nessuna proibizione religiosa. Insomma, è più facile trovare droga che alcool. Io ne ero coinvolta, come molti miei amici. So che non è comune scrivere di essere stata tossicodipendente, suscita riprovazione. È vero, è stata un’esperienza difficile, ma ne sono uscita. E volevo scrivere cosa succede quando ci sei dentro, come ti senti: quando sei un tossico non vuoi nulla, non pensi a nulla, non t’importa di nessuno: vuoi solo la tua prossima dose. Non hai tempo per niente altro. Certo non pensi alla politica né alcun tipo di impegno sociale. Tra parentesi, credo che in fondo allo stato non dispiaccia che una generazione intera non sia attiva nella società».

Poi c’è quel terremoto che scuote la città anche se non crolla nulla.

Non è una metafora, è l’Iran. A Tehran ogni giorno c’è il terremoto. È un po’ come quando c’è un evento, fai conto una vittoria al mondiale di calcio, e tutti escono in strada a festeggiare: è qualcosa che dà un click, fa saltare il tappo, e allora fai ciò che di solito non si fa. Inoltre il terremoto costringe a prendere decisioni ultimative, mostrare la tua vera faccia. Shadi abbandona la famiglia e si fa i fatti suoi, ma così fanno tutti gli altri. Volevo togliere la maschera alla città e ai suoi abitanti: al dunque, tutti se ne fregano di tutti.

Se ne ricava l’impressione che la società iraniana sia una pentola a pressione pronta a scoppiare. Pubblicato pochi mesi prima delle elezioni del 2009 e delle grandi proteste dell’onda verde, il suo libro è sembrato premonitore.

Macché premonizioni, non sono mica Nostradamus. Ma in qualche modo era ovvio. In una società sotto pressione, un piccolo spiraglio diventa l’occasione per scatenarsi. I giovani in particolare non hanno niente da perdere, e vogliono cambiare. Il terremoto è l’opportunità per ballare in strada, fare ciò che è vietato. È la logica conseguenza della repressione. Ricordo quando la nazionale di calcio iraniana vinse all’ultimo minuto una partita del campionato mondiale, nel 1998: a Tehran migliaia di persone uscirono a festeggiare, era poco dopo l’elezione del presidente Khatami. Quella sera le ragazze lasciavano cadere i foulard e gli agenti non potevano impedirlo. Finì con uno scatenamento generale, macchine della polizia rovesciate. Un amico mi disse: era una manifestazione di felicità, pensa se fosse stata di rabbia. C’è un potenziale di energia nei giovani, lo vedono tutti. Sei mesi dopo la pubblicazione del mio romanzo c’è stato il movimento dell’onda verde: no, non avevo previsto nulla, avevo solo visto ciò che tutti potevano vedere, l’energia pronta a esplodere.

Ha trovato difficile pubblicare i suoi libri?

Pubblicare oggi è più facile rispetto a quando ho tentato con i primi racconti. Gli editori sono interessati, i lettori ci sono: forse una nicchia, ma una minoranza che frequenta librerie, letture, seminari. E c’è un’esplosione di scrittori. Ora sono nella giuria del Premio Fereshteh, istituito dalle librerie Bookcity: pensa che per un concorso di racconti brevi abbiamo selezionato 250 scritti su un migliaio ricevuti, e il tema era gli anni ’80. Cioè: un migliaio di persone ha voluto scrivere le proprie storie su quel tempo di rivoluzione, guerra, eventi travagliati. Lo trovo sorprendente. C’è un boom della scrittura in Iran. Considera che tutti qui abbiamo una sorta di doppia vita, quella pubblica e quella privata. Questo crea situazioni spesso strane, paradossali, fonte continua di ispirazione. Un’amica mi dice che in Iran «le storie crescono per strada, basta raccoglierle».

Però c’è sempre la censura a porre dei limiti. Non ti preoccupare ha avuto problemi?

Come sempre in Iran: la prima volta che l’ho presentato non mi hanno dato il nullaosta. Poi però ho trovato un amico che conosce un amico che sta al ministero della cultura e forse poteva fare qualcosa. Questo signore mi ha detto che a lui il romanzo piaceva, solo dovevo fare qualche modifica. Piccole frasi, addirittura semplici parole: abbiamo fatto 78 correzioni, lui sapeva perfettamente quali parole sono inaccettabili ai censori, quali sono le linee rosse. Per esempio: mai menzionare Tehran o la Repubblica islamica. È fiction, una città immaginaria, un paese immaginario, non c’è polizia ma “persone in grigio”. Così è stato autorizzato (ma per la traduzione italiana abbiamo usato la versione originale). Naturalmente è un auto-inganno, tutti riconoscono ciò di cui parlo. In Iran ciò che è impossibile diventa possibile, e viceversa.

Che reazioni ha trovato tra i lettori?

Molti giovani mi hanno detto che è stato il primo romanzo che hanno letto: perché parla di loro, dicono, non della generazione dei genitori. Tre anni fa però, dopo l’undicesima edizione, la censura l’ha vietato [ogni riedizione ha bisogno di un nuovo permesso, ndr]. Il libro resta nelle librerie, ma sempre con la dicitura “undicesima edizione”, anche se credo sia ormai la trentesima.

Il fatto è che ora il mio nome significa guai, per gli editori, e nessuno vuole avere a che fare con me. Il mio nuovo romanzo è stato rifiutato dall’editore, non dal ministero. La protagonista è una “donna oggetto”, personaggio di fantasia ma molto diffuso: spesso in Iran le donne danno enorme importanza all’aspetto esteriore, trucco, chirurgia estetica, acconciature. Una società maschilista si aspetta da loro che siano carine e compiacenti, e la mia protagonista è così: un oggetto sessuale. Ho scritto in seconda persona: tu fai, tu vai, perché neppure lei si vede come un individuo autonomo, è abituata a prendere ordini. È in balia delle cose, passiva.

Quando ho presentato il manoscritto all’editore però mi ha detto che a lui non piace questo tipo di donna e non può pubblicarlo. Per questo dico che non c’è solo la censura ufficiale: in questo caso c’è una cultura maschilista e patriarcale che non accetta di essere discussa. Ora però ho deciso di pubblicarlo in proprio: ci ho lavorato sei anni, e senza feedback uno si deprime. Devo pubblicarlo, liberarmene, e poi potrò cominciare a pensare altro.

Eppure l’atmosfera sociale sembra migliorata negli ultimi due anni.

Non c’è dubbio. Ma sono anche molto furbi. In un paese sotto pressione ogni piccola libertà, un foulard portato un po’ più indietro, sembra chissà cosa. Ma in fondo il controllo resta. Anzi è subdolo, spingono all’autocensura, mettono gli editori contro gli autori. Se ho pensato di andarmene? No, per scrivere devi vivere nella tua lingua, lo scrittore che emigra perde l’ispirazione. Comunque: intanto ho scritto una sceneggiatura, e poi tengo un seminario di scrittura. Alcuni dei miei studenti hanno cominciato a pubblicare, ottimi lavori, e ne sono molto orgogliosa. Chi sono? I miei studenti vengono dagli strati bassi. Alcuni sono religiosi. Ho scelto deliberatamente di tenere il seminario in una zona centrale della città, accessibile dai quartieri meridionali, i più modesti di Tehran. Molti cominciano a scrivere della propria vita, del gap sociale, di poveri e ricchi. Ne parlano perfino con qualche ostentazione, in uno speciale slang di Tehran sud. È come esplorare una storia sconosciuta: Tehran ha due facce, la città benestante o sfacciatamente ricca e quella che vive in povertà, di cui nessuno sa e nessuno parla. Sarebbe un errore pensare che la cultura appartenga solo ai ricchi.

 

 

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