Isabelle Stengers: «Nel tempo delle catastrofi»

di Giuliano Spagnul

un invito a pensare insieme per ripopolare il deserto devastato delle nostre immaginazioni.

Segni premonitori e fatti straordinari non ce ne sono stati, nessun «insolito volo di cornacchie bianche sui cieli svedesi» (1) o altre manifestazioni straordinarie come quelle che nell’antica Roma annunciavano l’esito di qualche importante battaglia. Eppure l’intrusione di Gaia, il nostro pianeta vivente, si è infine compiuta senza clamori e suoni di fanfara. È un fatto ineludibile che «proprio nel momento in cui l’Uomo, dritto sulle sue zampe e impegnato a decifrare le ‘leggi della natura’, si scopriva padrone del proprio destino, libero da qualsivoglia trascendenza» una nuova «forma inedita, o forse dimenticata, di trascendenza (…) che chiamo Gaia fa esistere all’interno delle nostre vite un’incognita enorme, che è qui per restare» e, soprattutto, che «non esiste un futuro prevedibile in cui essa ci restituirà la libertà d’ignorarla; non si tratta di un ‘brutto momento da lasciarsi alle spalle’ a cui seguirà il rassicurante lieto fine di un ‘problema risolto’». L’happy end per Isabelle Stengers è, come nelle migliori commedie cinematografiche hollywoodiane della prima metà del secolo scorso, solo l’abile messinscena di una messa a parentesi della realtà che l’improvviso avverarsi di una catastrofe ha reso palese. La vita non è meravigliosa: è un’avventura rischiosa.

«Nel tempo delle catastrofi. Resistere alla barbarie a venire» appena uscito per le edizioni Rosenberg & Sellier, è stato scritto nel 2008 durante il tracollo finanziario mondiale che ha segnato l’inizio di questo nuovo secolo tanto (e forse più) quanto quello del fatidico ’29 del secolo scorso. «Non credo di sbagliarmi pensando che, se quando questo libro raggiungerà i suoi lettori sarà ritornata la calma, in cima alla lista delle priorità si troverà la sfida di ‘rilanciare la crescita’». E infatti se crescita era la parola d’ordine per il dopo catastrofe di allora, crescita è ancora l’imperativo per il dopo pandemia di oggi, così come il «riconoscere l’impellenza di una serie di riforme, dal momento che ‘il mondo è cambiato’». Déjà vu, appunto. L’inattualità di questo libro sta tutta in questa “verità disturbante” che ciò che è stata causa principale delle catastrofi la si voglia imporre come unica via per la soluzione delle stesse.

Questo libro è un “saggio” nel senso che cerca «di saggiare la possibilità di pensare a partire da quella che è prima di tutto una constatazione: ‘l’epoca è cambiata’» e «si rivolge alle persone che sentono di vivere come in sospeso» ed è dedicato «al possibile che tentano di far esistere». Sospeso e possibile, due parole che, per dirla con il Musil testimone di un altro grande passaggio epocale, ricordano: la prima il movimento mai privo di rischi di lasciarsi cadere nel futuro (2) e la seconda che la realtà non è ma si fa e quindi potrebbe essere sempre diversa da come è nel presente. (3) In questo «vivere come in sospeso» si corre il rischio di essere paralizzati «dal sentimento della dismisura tra ciò che può e ciò che dovrebbe essere fatto» ed è per questo che la parola d’ordine di questo pamphlet non può che essere il dover «fare attenzione», intesa non tanto come capacità quanto come una vera e propria arte: «se vi è arte, e non soltanto capacità, è perché si tratta di apprendere e coltivare l’attenzione – letteralmente di fare attenzione». L’annichilimento di chi si sente perduto e non riesce ad immaginare un altro mondo possibile da quello che determina il proprio senso di perdita (fino al non esserci in alcun mondo possibile delle forme di follie elencate nei sempre più aggiornati DSM odierni) può, deve, trovare nell’arte di fare attenzione quelle «altre narrazioni, che forse annunciano nuovi modi di resistenza e che rifiutano quell’oblio della capacità di pensare e di agire insieme che l’ordine pubblico richiede». Promessa per noi e minaccia per quell’ordine pubblico garante di una storia a senso unico che «ha la crescita come freccia del tempo».

Certo questo modo di pensare insieme non sarà mobilitante, non ci permetterà di rispondere velocemente ai piani distruttivi del potere perché l’attenzione comporta rallentamento piuttosto che velocità di reazione. Non è questo il modo in cui potremo sperare di prendere mai il potere ma – questo sì – dato che il potere del capitalismo si basa proprio sulla velocità con cui approfitta di ogni occasione che gli si presenta, indipendentemente dalle conseguenze (4) ogni tipo di rallentamento sarà per lui nocivo e per noi acquisizione di margini di potere. Quei margini di potere che permettono di infrangere «il sentimento collettivo di un’impotenza senza farlo scivolare nel terribile: ‘Insieme tutto diventa possibile!’».

È un piccolo libro questo che eccede quel poco più di un centinaio di pagine che lo compongono costringendoci a soffermarci quasi riga per riga in quell’esercizio di fare attenzione che ci spinge – come dice Nicola Manghi nella sua bella e approfondita introduzione a un pensiero esigente – a «cercare di scorgere lo spazio di un futuro non barbaro» e che «rendervisi sensibili, significa anche già cominciare a costruirlo». Occorrerebbe però, a questo punto, dire ancora qualcosa, almeno per ciò che riguarda «l’intrusione di Gaia» e il carattere di trascendenza che questa intrusione sottende. È trascendenza parola negletta dal materialismo dominante che si vuole emancipato da qualsiasi tentazione di sapore metafisico. Ma Stengers – che ha sempre dichiarato di avere in cima ai propri maestri il filosofo matematico Alfred North Whitehead – ha imparato a non avere di questi timori e forse sulla scia di un “azzardo” che Whitehead ha osato fare nel suo Avventure d’idee (5) «azzardo la profezia che vincerà quella religione che saprà rendere evidenti alla mente popolare quelle grandezze eterne che s’incarnano nel fluire dei fatti temporali» si è iscritta definitivamente a quella lista di sognatori e ricercatori di un materialismo dalle spalle larghe capace di non sottomettersi a quell’idea di “Finitudine” (6) così comune, nella sua algida purezza, ai tanti protagonisti di una Scienza che li trasforma, vieppiù, da fabbricatori di verità a professionisti detentori di Verità.

Nota 1: Philip K. Dick, Lotteria solare, Fanucci editore

Nota 2: «Tutto ciò che si sente e si fa accade comunque sia ‘in direzione della vita’ e il più piccolo movimento in altra direzione è difficile o inquietante. E così anche quando semplicemente si cammina; si solleva il punto di gravità, lo si porta in avanti e lo si lascia cadere; ma basta un piccolo mutamento, un lieve timore, o anche soltanto stupore di quel lasciarsi-cadere-nel-futuro e non si sta più ritti!» Robert Musil, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino, 1996, p. 141.

Nota 3: «Ma se il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci dev’essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità. Chi lo possiede non dice, ad esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà, deve accadere; ma immagina: qui potrebbe, o dovrebbe accadere la tale o talaltra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com’è, egli pensa: be’, probabilmente potrebbe anche essere diversa. Cosicché il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe ugualmente essere, e di non dar maggiore importanza a quello che è, che a quello che non è. (…) Il possibile però non comprende soltanto i sogni delle persone nervose, ma anche le non ancor deste intenzioni di Dio. Un’esperienza possibile o una possibile verità non equivalgono a un’esperienza reale e a una verità reale meno la loro realtà, ma hanno, almeno secondo i loro devoti, qualcosa di divino in sé, un fuoco, uno slancio, una volontà di costruire, un consapevole utopismo che non si sgomenta della realtà bensì la tratta come un compito o un’invenzione». Robert Musil, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino 1996 p. 13-14. Citazioni riprese da Antonio Caronia in L’anacronismo del possibile https://www.academia.edu/293950/Universi_quasi_paralleli

Nota 4: «fidarsi del capitalismo che si presenta oggi come ‘il miglior amico della Terra’, come ‘verde’, desideroso di conservazione e sostenibilità, significherebbe commettere lo stesso errore della rana nella celebre favola, quella che accettò di trasportare uno scorpione sulla propria schiena per fargli attraversare un fiume. Se lo scorpione l’avesse punta, non sarebbero forse annegati entrambi? Ciononostante, a metà della traversata, lo scorpione la trafisse col suo pungiglione. Con le sue ultime forze, la rana mormorò: ‘Perché?’ Giusto prima di sprofondare, quello rispose: ‘È nella mia natura, non ho potuto fare altrimenti’. È nella natura del capitalismo sfruttare le opportunità, non può fare altrimenti». (p. 75)

Nota 5: Alfred North Whithead, Avventure d’idee, Bompiani, Milano, 1961, p. 50

Nota 6: https://www.labottegadelbarbieri.org/finitudine/

  1. In appendice un’intervista all’autrice del 5 agosto 2020. Ricordiamo anche l’intervista pubblicata qui: https://www.labottegadelbarbieri.org/covid-19-liberarsi-dallimmaginario-capitalista/
  2. Su Isabelle Stengers ricordo anche il mio articolo su «Pulp» qui: https://www.pulplibri.it/la-narrazione-della-scienza-e-la-politica-del-cosmo/

 

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