Istruzione, mercato e logica del profitto: il caso Italia

di Girolamo De Michele (articolo tratto da www.euronomade.info)

Relazione letta all’incontro Students are not consumers. Challenging marketization and the logic of profit in higher education, Bruxelles, Parlamento Europeo, 8 marzo 2018, organizzato dal gruppo parlamentare europeo GUE/NGL.

Un recente caso mediatico è stata la scoperta, nei Rapporti di AutoValutazione – vale a dire: nell’autopresentazione delle scuole alle famiglie – di alcuni licei di affermazioni che descrivono come un vantaggio l’assenza di migranti, di studentesse e studenti provenienti da zone svantaggiate o di condizione socio-economica e culturale non elevata, di portatori di disabilità.1
I dirigenti di questi istituti hanno, in modo diverso, attribuito la responsabilità di queste parole alla struttura dei documenti, la cui responsabilità ricade sul Ministero. Una toppa peggiore del buco, perché si tratta di espressioni inserite in uno spazio che richiedeva un commento descrittivo e sintetico – dunque rileva a maggior ragione quel che c’è. Ma che mostra la realtà materiale del processo di produzione di queste presentazioni, e chiama in causa quello stesso ministro che si è affrettato a stigmatizzare questi RAV evocando l’art. 3 della Costituzione. Queste griglie, e le parole che le riempiono, sono il frutto di anni nei quali le scuole sono state spinte a farsi concorrenza, a rendersi appetibili agli occhi della cosiddetta utenza valorizzando determinate performance – una fra tutte: i risultati dei test di valutazione degli apprendimenti, che valorizzano le scuole con pochi studenti stranieri. Nella logica del marketing e della valutazione quantitativa, è inevitabile che prevalga la considerazione del punteggio più alto alla scuola frequentata da studenti socialmente ben selezionati, piuttosto che la valorizzazione del lavoro qualitativo della scuola che opera in favore dell’inclusione, dell’apprendimento dei fondamenti linguistici e cognitivi del diritto alla cittadinanza: la scuola che si sporca le mani con i migranti di prima e seconda generazione.

Viene così alla luce un radicato classismo che la scuola italiana eredita dalla società, e che non ha la forza, perché non ne ha i mezzi, per contrastare. È un dato che la società italiana sia, fra quelle occidentali, seconda alla sola Gran Bretagna per rigidità sociale, sia in relazione alle professioni, sia al background socio-culturale. Al di là della retorica sugli ascensori sociali, l’Italia è un paese classista, dove il figlio del notaio studia legge come il padre, poi va a fare praticantato dai compagni di burraco del sabato sera del padre, e una volta acquisita la professione aggiunge un “& figli” alla targa dell’ufficio del padre. E il figlio del proletario resta proletario, come il bambino povero della celebre gag di Giorgio Gaber: quello al quale il padre, davanti a un paesaggio, non diceva: «guarda, un giorno tutto questo sarà tuo», ma soltanto: «guarda…».

Consapevole del fatto che la relativa riduzione della disuguaglianza che si attua negli anni dell’istruzione sarà riaperta dalla società, la scuola si adegua: studi accurati dimostrano che le attività di orientamento scolastico, che dovrebbe aiutare studenti e famiglie nella migliore scelta per l’istruzione superiore, lungi dal facilitare il conseguimento di titoli di studio elevati a quei gruppi sociali tradizionalmente poco presenti nei livelli più alti del sistema educativo, finiscono per rafforzare il peso delle appartenenze sociali sui destini educativi degli studenti [Marco Romito, Una scuola di classe, Guerini scientifica, 2016, p. 12].
Analizzando i rapporti Indire sull’abbandono scolastico, che nell’arco del quindicennio del percorso d’istruzione raggiunge in Italia il 30%, si trovano evidenze che L’abbandono scolastico è statisticamente legato al titolo di studio conseguito dalla famiglia di appartenenza. I figli di coloro che hanno al massimo il diploma di terza media hanno un tasso di abbandono scolastico del 58,1%, che si riduce al 30,1% tra i ragazzi i cui genitori hanno un titolo di maturità e al 13,2% quando i genitori hanno la laurea. La tendenza si incrocia con il profilo professionale della famiglia, perché di nuovo un terzo dei ragazzi che abbandonano appartiene a famiglie in cui i genitori sono disoccupati o svolgono un lavoro non qualificato, mentre il dato tende a diminuire al salire del grado di occupazione familiare [Roberto Contessi, Scuola di classe, Laterza, 2016, pp. 16-17].

In definitiva, il tempo-scuola non è in grado di colmare le disuguaglianze di partenza: quando va bene, si limita a certificarle, altrimenti contribuisce ad acuirle. Le stesse conclusioni posso essere ricavate dal recente rapporto OCSE Academic resiliens. What schools and countries do to help disavantaged students succeed in PISA [OECD Education Working Papers n. 167, 22 gennaio 2018; cfr. Table 3.1. Percentage of resilient students among disadvantaged students, p. 12], che misura in uno smagrito 20,4% la percentuale di studenti resilient, che cioè “ce la fanno” a dispetto delle condizioni di partenza (“students are academically resilient if they achieve good education outcomes despite their disadvantaged socio-economic background“).

Le disuguaglianze non riguardano solo le classi sociali, ma l’intero spettro delle differenze: centro-periferia, città-campagna, settentrione-meridione, indigeno-migrante. Il divario fra nord e sud Italia si riverbera in modo sistematico nei livelli di istruzione, e nei dati sulla condizione lavorativa:

Tranne che nella partecipazione alla scuola dell’infanzia, dice il rapporto [UrBes 2015], per tutti gli indicatori si registra un netto svantaggio del Mezzogiorno rispetto al Nord e al Centro. La quota di diplomati è del 51,4% nel Mezzogiorno rispetto al 63,1% del Centro e al 60% del Nord. Allo stesso modo, la quota di persone di 30-34 anni che hanno conseguito un titolo universitario è del 26,4% al Centro, del 23,9% nel Nord e solo del 20,5% nel Mezzogiorno. Il divario più forte si riscontra però per la quota di giovani che non studiano e non lavorano (Neet) che si attesta, nel 2011, al 31,4% nel Mezzogiorno rispetto al 15,2% del Nord e al 19,2% del Centro [fonte: Istruzione, cresce il divario Nord-Sud, “Il sole 24 ore”, 24/04/2015].

Qui mi sia consentito far riferimento a una fondamentale attestazione di metodo di un valente studioso, Luciano Ferrari Bravo, che ha saputo come pochi comprendere i rapporti fra sviluppo e sottosviluppo. Scriveva dunque il ricercatore padovano che: Il sottosviluppo non è soltanto il “non-ancora” sviluppo; ma non è neppure solo il “prodotto” dello sviluppo. Esso è una funzione dello sviluppo capitalistico: una sua funzione materiale e politica. Sviluppo è infatti quello del potere capitalistico sulla società nel suo insieme, del suo “governo” della società [Luciano Ferrari Bravo, Forma dello stato e sottosviluppo, in L.F.B., Alessandro Serafini, Stato e sottosviluppo (1972), ombre corte, Verona 2007, p. 29].

La questione dell’eguaglianza che attraversa la scuola nasce dall’uso politico, sotto forma di strumento di governo, di controllo, di disciplinamento e di assoggettamento, della segmentazione sociale.
Una segmentazione messa in luce da una pluralità di rapporti sulla povertà in Italia, che attestano l’allargamento della forbice fra ricchi e poveri, con un «peggioramento addirittura catastrofico, per almeno tre categorie cruciali: i minori, gli operai, e i membri di “famiglie miste”» [Marco Revelli, Italia, a che punto è la notte, “il manifesto”, 16.07.17]. Aumenta la povertà assoluta fra i minori – fra i quali la povertà è quadruplicata in 10 anni; fra i working poor, «dove si può leggere con chiarezza l’effetto-Renzi e l’impatto del Jobs Act sul potere d’acquisto e sulla stabilità del lavoro»; e fra «le “famiglie miste”, quelle in cui cioè uno dei due coniugi è un migrante: nel loro caso la povertà assoluta è quasi raddoppiata nell’Italia settentrionale (dal 13,9 al 22,9%) e quella relativa ha raggiunto nel Meridione il 58,8% (era il 40,3 nel 2015), con buona pace di chi ha fatto dell’urlo tribale “Perché a loro e non a NOI” la propria bandiera e considera privilegio lo jus soli in nome della propria miseria». In altri termini, i dati della lieve ripresa economica attestano che il motore di questa ripresa è la vampirizzazione della ricchezza sociale dei poveri, ai quali viene tolto persino il necessario per dare ai ricchi. Ci sarebbe da stupirsi se non si manifestasse la tendenza a una segmentazione educativa – per dirla con franchezza: licei per i figli della borghesia, istruzione professionale per i proletari, i migranti, i poveri, – che si riflette in quei Rapporti di AutoValutazione sopracitati.

È su questo piano che la mercificazione del sapere e delle conoscenze si concatena alla mercificazione dell’essere umano e alla sua trasformazione in forza lavoro. Lo si comprende bene mettendo a confronto i processi di valutazione dell’utenza e la nefasta utopia delle piattaforme digitali.

La piattaforma è un mediatore evanescente: la sua azione di connessione e direzione sembra svolgersi in maniera impersonale al servizio degli interessi dei consumatori che acquistano un pasto (Deliveroo, Foodora), si muovono in auto in città (Uber, Lyft), affittano un appartamento (Airbnb). Ai consumatori è riconosciuta la libertà di valutare il servizio ricevuto, perché così dimostrano uno stile di vita a partire dal prodotto scelto [Roberto Ciccarelli, Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale, Derive e Approdi, 2018, pp. 163 sgg].

Allo stesso modo, il gradimento dell’utenza, cioè il giudizio delle famiglie che si traduce nei numeri delle iscrizioni, delle rilevazioni, ecc. fa balenare la libertà di scelta della migliore educazione possibile, ritagliata sui bisogni e desideri dell’utenza. In entrambi i casi, l’accessibilità universale diventa una metafora di efficienza perché cancella il ruolo degli intermediari: «In fondo questo è l’obiettivo anche della cittadinanza manageriale: fare a meno dell’impresa e dello Stato, e “fare da sé” diventando padroni di se stessi». Tuttavia, come la piattaforma «impone alla forza lavoro una forma e uno scopo predeterminati», producendo una serie di «nuovi intermediari: manager, ingegneri, valutatori e certificatori di professione, pubblicitari, influencer, giornalisti-guru, esperti di innovazione, imprenditori o politici rabdomanti»; così la scuola della valutazione nell’epoca dell’Audit society, la società della consultazione permanente, impone forma e scopo all’utente, cioè a studentesse e studenti, dai quali discendono nuove figure professionali il cui ruolo, nella macchina burocratica della scuola, va ben oltre la loro effettiva competenza educativa, sia nel merito soggettivo che nei contenuti appresi.

Non è un caso se, sin dalla scuola superiore, agli studenti oggi è insegnato a gestire un «portfolio delle competenze», insieme al curriculum vitae. Il compenso per un apprendimento lungo una vita non è il salario o l’onorario, ma il riconoscimento del merito in quanto tale [R. Ciccarelli, cit.].

In concreto, questi processi si realizzano all’interno del sistema scolastico mediante la tenaglia della valutazione degli apprendimenti e della didattica per competenze. Le pratiche di “valutazione degli apprendimenti” rilanciano il carattere atomistico e privatistico che si vuole far assumere alla scuola con l’esclusione dai test di valutazione di qualsivoglia aspetto qualitativo, cooperativo e collaborativo che non sia riconducibile a un dato quantitativo misurabile all’interno di una gerarchia numerica – come afferma con involontaria comicità un documento ministeriale, un posizionamento argomentato in relazione ai dati. Ma anche, la riduzione del sapere a unità discrete, valutabili singolarmente attraverso l’uso pervasivo dei test a risposta multipla piuttosto che attraverso pratiche che implicano l’uso della ragione critica.

Al tempo stesso, la cosiddetta didattica per competenze, pervertendo l’intuizione di privilegiare le abilità all’interno dei contenuti in favore di una testa ben fatta piuttosto che di una testa ben piena, spezzetta la complessità degli apprendimenti in tanti mattoncini che rappresentano quelle abilità pratico-operative richieste oggi dal mercato, a dispetto della rapida obsolescenza di queste abilità pratiche. Non sembra casuale che l’ultimo ritrovato di questa didattica sia la proposta di un Sillabo di base dei saperi, o quantomeno della filosofia, alla quale si chiede di rinunciare alla propria vocazione di apertura verso l’imprevisto e di farsi counceling filosofico, facilitatore del marketing delle conoscenze e arte retorica della persuasione.
Peraltro, che le competenze abbiano una reale consistenza e un apprezzabile statuto epistemologico è una petizione di principio, dal momento che, come attesta una vasta letteratura, una competenza in quanto tale non è osservabile allo stato puro: sono osservabili pratiche, comportamenti, vissuti e prestazioni dai quali si dovrebbe desumere quella proprietà che, come il flogisto o l’etere, esisterebbe senza essere osservabile in vitro – ma come diceva Donnie Brasco, forget about it.

In realtà, al di là dell’inconsistenza epistemologica, valutazione e didattica per competenze si inseriscono in quel campo degli “investimenti in forme” (Laurent Thévenant) che assumono ipso facto un’autorità che non può essere messa in discussione, in nome della quale coordinano l’azione delle collettività, dopo averla spogliata di ogni valenza politica e averla transustanziata in procedure tecniche i cui elementi-chiave eccedono la capacità di critica del singolo; trasformano l’autonomia dell’individuo in una forma di autocontrollo; minano la possibilità di un’azione collettiva comunicativa e critica contro le esperienze di ingiustizia sociale, erodendo la stessa ragione sociale della cooperazione. In definitiva, si realizza una governance attraverso i numeri con la quale è inibita la possibilità che un individuo possa ricondurre la propria esperienza singolare a criteri generali.

Si afferma così un paradigma economicistico che pensa il futuro degli studenti in base a un ipotetico futuro inserimento nelle dinamiche produttive. Questi processi trovano la loro saldatura nell’Alternanza Scuola-Lavoro, consistente nella sottrazione di un monte ore equivalente a una o due materie per l’intero triennio superiore in favore di attività definite stage, che si riducono spesso – salvo qualche caso fortunato, in genere afferente a quei licei che possono vantare una clientela selezionata, e dunque selezionate relazioni con la società imprenditoriale – in attività di lavoro gratuito, talvolta al di fuori delle norme sul lavoro, con casi di sfruttamento vero e proprio, molestia sessuale, infortunio subiti dagli studenti. Uno sdoganamento del lavoro minorile, senza alcun reale aggancio al mondo dell’occupazione: tanto è vero che la stessa Confindustria, per bocca di un suo dirigente (Bruno Scuotto), tiene a sottolineare che «L’alternanza scuola-lavoro è un modello didattico che poco ha a che fare con l’occupazione, essendo un veicolo importante di occupabilità».

Ma è poi vero che l’occupabilità è una condizione preliminare, e quindi ineluttabile, della futura occupazione, per quanto precaria? Il mondo del lavoro attuale vede una coesistenza fra un capitalismo basato su intelligenze e linguaggi artificiali, algoritmi, messa a valore di stili di vita e relazioni umane, creazione di reti e piattaforme connettive; e un capitalismo che trae valore da forme sempre più sofisticate e violente di controllo sociale, di frammentazione dei tempi lavorativi, di catene sempre più lunghe della logistica. Si tratta di due modelli che coesistono e si appoggiano l’uno sull’altro, come due facce della stessa moneta. Due mondi solo in apparenza distanti, ma correlati fra loro, come il sottosopra di Stranger Things. Per il mondo di sotto non è necessaria alcuna occupabilità, alcuna formazione, alcun apprendistato in entrata: è un mondo per il quale l’ASL non ha alcuna funzione formativa, se non per l’educazione all’assoggettamento. Per il mondo di sopra è invece richiesta quella fantasia, creatività, capacità critica che la scuola dovrebbe contribuire a sviluppare. Ma come sviluppare le logiche divergenti in luogo di esperienze ripetitive, in una scuola che sottrae tempo alla formazione in favore esperienze che di formativo non hanno alcunché, se non il riempire di nozioni prefatte una testa piena, ma non ben fatta?

L’effetto reale dell’ASL è di inculcare nella mente dell’apprendista stagista la convinzione che il suo essere forza lavoro sia una condizione naturale, e non il prodotto di un rapporto sociale asimmetrico. Ancora un’analogia:

Nel caso del lavoro digitale, la forza lavoro è soggetta all’enorme potere delle piattaforme che possono disconnetterle con un click. Un’analoga asimmetria di poteri è presente nel campo della valutazione, del controllo, della certificazione delle prestazioni: attività diffuse in tutti i campi, a cominciare dalla scuola e dalla ricerca universitaria per finire all’organizzazione dei corrieri in bicicletta [R. Ciccarelli, cit., pp. 81-82].

C’è dunque una logica precisa nella torsione disciplinare e gerarchizzante che i provvedimenti legislativi dell’ultimo quarto di secolo hanno impresso all’ambiente di apprendimento. Gli stessi agenti del processo educativo, cioè gli insegnanti, sono ridotti a vagare ognuno col suo viaggio ognuno diverso, ognuno in fondo perso per i fatti suoi, in quell’angusto orizzonte giuridico che costringe a calcolare con la durezza di uno Shylock: non avrò per caso lavorato mezz’ora più di un altro, non avrò guadagnato un salario inferiore a un altro? Del resto, è nel mondo di Shylock che un essere umano è a good man se è solvibile: se il suo valore è, per dirla con Adam Smith, apprezzabile, tanto quanto lo è il sapere ridotto a merce.

Ma, dice ancora Shakespeare, «non sei ancora al peggio, finché puoi dire: questo è peggio». Il peggio, in questo caso, è il tentativo di un’ulteriore torsione disciplinare nei confronti dei docenti, che traspare attraverso il desiderio di assoggettare l’intera vita del lavoratore della scuola, e non solo le attività indicate nel contratto e nell’orario ivi previsto – in altri termini, di reintrodurre prassi precedenti la costituzionalizzazione del rapporto di lavoro: il recente linciaggio mediatico di una lavoratrice precaria che, in una situazione di esasperazione, si è lasciata andare a uno sfogo rabbioso durante una manifestazione antifascista, costituisce un’inquietante prefigurazione disciplinare.

Permettetemi, al termine di questo intervento, di ricordare quell’allievo di don Milani che disse: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”.

Una scuola che insegna a sortirne insieme, è una scuola militante.
Una scuola che non insegna a riflettere su come, attraverso quali pratiche di sfruttamento del lavoro, quali violazioni dei diritti, quali conseguenze per il futuro viene creata la società presente; che non insegna a pensare la possibilità di un altro mondo dentro il presente, è una scuola che ha perso il proprio senso e la propria funzione: e allora tanto vale venderla all’incanto.
Battersi contro questa scuola è un dovere, un Beruf: perché una scuola che non si schiera, che si adegua e depone le armi, è una scuola che diserta.

da qui

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *