Italia, amnesie da colonizzatori

Le radici del razzismo: un’illuminante intervista a Francesco Filippi, autore di Noi però gli abbiamo fatto le strade. Le colonie italiane tra bugie, razzismi e amnesie, pubblicata da Nigrizia.

di Gianni Ballarini (*)

 

La narrazione del silenzio. La volontà dell’oblio. Se in un dibattito pubblico affermassimo che l’Italia ha avuto in gestione una colonia fino al 1960, molti spalancherebbero gli occhi. Se chiedessimo che cosa rappresenta Debre Libanos (il più grave crimine di guerra dell’Italia) nella nostra storia, molti abbasserebbero lo sguardo. Imbarazzati.

«Si può dire, con assoluta certezza, che un fenomeno di lunga durata nel nostro paese (quasi 80 anni, siamo stati più colonialisti che fascisti) rappresenta anche il più grande buco nero nella memoria dell’Italia». Ed è quel buco nero che lo storico Francesco Filippi ha cercato di svelare, di riportare alla luce con la sua ultima opera Noi però gli abbiamo fatto le strade. Le colonie italiane tra bugie, razzismi e amnesie (di Bollati Boringhieri). Libro che chiude la trilogia aperta con il fortunato Mussolini ha fatto anche cose buone e proseguita con Ma perché siamo ancora fascisti?

«La cosa che più mi ha colpito già durante la stesura dell’opera è che mentre nelle prime due dedicate al fascismo ho dovuto destrutturare per poi ricostruire su basi storiche determinati temi, qui ho trovato una prateria. Nessuno sa nulla. C’è un deserto totale. Agli incontri, sono costretto a fornire un vocabolario alla gente che ho di fronte. Innanzitutto devo spiegare loro cosa è successo, come sono accaduti determinati fatti. E poi costruire una coscienza su questo».

Perché il colonialismo italiano è rimasto sepolto nella sabbia dei deserti africani?

Sono tante le ragioni. La prima che balza all’occhio, anche se forse non è la più rilevante, è che l’oltremare era già lontano prima del ’43. Figuriamoci durante la resistenza. Dopo che per oltre mezzo secolo l’“altro” della colonia è stato investito della qualità di inferiore, di selvaggio, di essere da civilizzare, si ha improvvisamente la sua totale scomparsa nel discorso pubblico. Una scomparsa che non viene colmata da nessun altro tipo di racconto. Dopo il 1945 gli italiani si svegliano pensando di non avere a che fare con il fenomeno della decolonizzazione che, invece, sta travolgendo altri paesi “bianchi”. In particolar modo Francia e Gran Bretagna e in seconda battuta gli Stati Uniti. Uno dei grandi temi del dopoguerra gli italiani non lo affrontano. Rimane sepolta nella mancata memoria la possibilità di avere delle responsabilità nella “corsa alla civiltà” dell’uomo bianco. E questo porta al paradosso per cui negli anni ’90, quando l’Italia da terra di emigrazione si fa terra di immigrazione, gli italiani si scoprono muti, incapaci di descrivere l’“altro”. Perché non l’hanno fatto per 50 anni. E quando cominciano a descriverlo lo fanno con le ultime parole che si ricordano, quelle dell’epoca coloniale.

C’è, a suo avviso, un nesso tra la nostra amnesia collettiva su quel periodo e le difficoltà che viviamo oggi con l’alterità, con il diverso?

Il linguaggio porta conoscenza e anche descrizione di conoscenza. Se noi continuiamo a utilizzare le parole di 70 anni fa per parlare di un fenomeno, probabilmente lo descriveremo con le stesse caratteristiche di 70 anni fa. È una cosa palpabile. Lo sentiamo nella lingua di tutti i giorni. Prendete la parola ambaradan, spesso usata con i bambini perché ha un bel suono. Eppure è una parola che indica uno dei peggiori crimini di guerra dell’esercito italiano, ovvero la battaglia di Amba Aradam in cui vennero usati tutti i mezzi possibili per schiantare la resistenza etiopica con molte vittime anche tra la popolazione civile. Vi è una totale mancanza di profondità storica. Si utilizza un macello reale per parlare di caos e confusione con i bimbi.

Lei trova anche in questo vuoto le radici del nostro razzismo?

Nel nostro paese non c’è stato quell’abituarsi all’altro che, anche in maniera traumatica, altre nazioni hanno avuto con la decolonizzazione. L’Italia degli anni ’50 si pensava intonsa, sostanzialmente pulita, dedita a costruire sé stessa anche con una certa dose di vittimismo. In altri paesi la diversità è venuta subito a bussare alle loro porte.

Ormai ci sono molti studi che raccontano come l’Italia non sia stata una potenza colonizzatrice da operetta, vista la ferocia praticata. Quanto ha influito quell’Italia che si sveglia repubblicana, democratica e pure resistenziale a rimuovere dal dibattito pubblico quella memoria e le nostre responsabilità?

L’Italia, durante i lavori della Conferenza di Parigi preparatori del Trattato di pace del 1947, arriva a reclamare come meritoria e degna di continuazione l’esperienza civilizzatrice degli italiani oltremare. De Gasperi rivendica le colonie liberali, ammettendo solo la colpa fascista sull’Etiopia. C’è una totale assenza di consapevolezza di che cosa abbia rappresentato il fenomeno coloniale. E il fatto che l’Onu abbia poi affidato a Roma l’amministrazione fiduciaria della Somalia (fino al 1960), viene utilizzato in modo propagandistico dal governo repubblicano.

In che modo?

Se perfino le Nazioni Unite ci danno il mandato su una terra che avevamo conquistato per portare la libertà, significa che abbiamo fatto un buon lavoro. Significa che siamo brava gente. Da qui il rafforzamento dello stereotipo.

Com’è possibile che figure di spessore come De Gasperi abbiano ignorato questo passato richiedendo nuovamente le colonie?

Perché lui, come molti altri, non ha mai sott’occhio il punto di vista dei colonizzati. Le colonie sono per l’Italia liberale, fascista e poi anche per quella democratica solo argomenti geopolitici. Di politica internazionale. Ricordiamoci che l’Italia vuole le colonie non tanto per questioni economiche. Ma di prestigio. È una nazione di bianchi e i bianchi colonizzano. Da questo discorso, ovviamente, scompaiono i colonizzati. E il caso più evidente lo si ha in occasione della Conferenza di Parigi, nella quale l’Etiopia sedeva al tavolo dei vincitori. L’Italia non ha un dialogo aperto e diretto con Addis Abeba. Ma solo con quelle nazioni che considera le sue controparti naturali, gli stati “bianchi”. Nemmeno dopo aver perso una guerra con l’impero etiopico si può accettare che l’interlocutore sia un paese di neri.

E l’Italia repubblicana quanto è responsabile del fatto che non vi è una condanna del colonialismo in quanto tale, ma solo della sua versione mussoliniana?

C’è una enorme differenza tra storia e memoria. La storia non la puoi cambiare perché è un insieme di fatti. La memoria, invece, ha il terribile vantaggio di poter scegliere cosa ricordare e cosa no. E un paese prostrato dalla guerra, con un passato prossimo drammatico, catastrofico, disastroso come quello del fascismo ha deciso di attribuire a quest’ultimo il male assoluto. Così nel grande supermercato della storia la memoria pesca quello che più le va. Il periodo coloniale era difficile da ripulire e da inserire in un contesto positivo. Per cui si è preferito non parlarne. Certo ci sono le memorie dei singoli. Ma queste non bastano a costruire una memoria pubblica diffusa.

Con questa memoria selettiva, si è perfino arrivati a dire che Eritrea, Somalia e Libia avevano beneficiato per decenni del lavoro degli italiani e che quindi era giusto che tali territori tornassero sotto il controllo degli italiani. Una posizione rivendicata anche da una parte consistente del partito comunista.

Il Pci (come del resto la Dc) dopo il 1945 non ha una politica estera autonoma rispetto a quella del suo blocco di riferimento. I due grandi partiti italiani seguono le grande linee internazionali di frattura create dalla guerra fredda. Per cui la sinistra italiana non ha una sua coscienza diffusa su questi temi. Cambiano un po’ le cose con il cosiddetto “anticolonialismo importato” negli anni ’60, quando il Pci riscopre le tematiche della decolonizzazione. Molti cominciano ad avere empatia e simpatie per le grandi lotte per la libertà e l’indipendenza di paesi come l’Angola e il Mozambico contro il regime portoghese. Lotte a cui partecipano i cubani.

Quello della sinistra italiana è un sentimento terzomondista importato dalla rivoluzione castrista: si accorgono che c’è un tema coloniale in Angola solo perché ci sono i cubani. Ma non c’è alcuna analisi, non si commentano le esperienze coloniali italiane. Non si riscopre neppure l’esperienza di una certa sinistra che ha partecipato alla guerra d’Etiopia nel 1936-1937. Ci sono esponenti comunisti che dalla guerra di Spagna si spostano in Etiopia per organizzare la resistenza. Ecco, anche questa esperienza è cancellata dalla memoria della sinistra e degli italiani in generale. Si rivendicano le colonie solo perché abbiamo lasciato delle opere frutto del lavoro degli italiani.

Appunto, “però gli abbiamo fatto le strade”, come dal titolo del suo libro.

Ma quelle strade chi le usava? Per chi sono state costruite? Se mi si dice che nel 1882 gli ingegneri italiani accolgono le richieste della popolazione locale e costruiscono a spese di Roma la Massaua-Assab, mi sta anche bene usare quell’espressione. Ma se invece le infrastrutture sono state costruite dagli italiani per gli italiani, come strumento di dominio, allora che senso ha affermare che gli abbiamo fatto le strade e che quindi non rompano le scatole visto che li abbiamo “civilizzati”?

Che ruolo ha avuto l’accademia nel neutralizzare il fenomeno coloniale?

È un tema molto delicato e che probabilmente peserà in quella che sarà la storia della storiografia dei prossimi anni. L’accademia italiana è stata per anni afona. Non c’erano dipartimenti a occuparsi di questi temi o erano molto pochi. Oppure c’erano dipartimenti di africanistica più vicini ai temi dell’antropologia, della psicologia e della sociologia che non della storia. Questa mancanza si sta colmando negli ultimi decenni, per fortuna. C’è ancora tanto da fare. E soprattutto non basta più indagare tra italiani su quello che è stato. È il momento di dare spazio alle opere che girano per il mondo che parlano di noi visti con gli occhi degli ex colonizzati. Si deve affrontare il grande tema del rimosso. Invece, sembriamo ancora incapaci di abbandonare il nostro “monologo”, dove gli esclusi sono gli attori della controparte.

Si ritrova nella definizione di essere un Montanelli di sinistra per la sua capacità, da storico, di essere molto divulgativo?

Ho un giudizio totalmente negativo sul Montanelli giornalista-storico, anche, se non soprattutto, per il suo passato coloniale. Tuttavia, credo che sia necessaria l’operazione dell’essere molto divulgativo. Penso che in Italia non manchino storici di vaglia, men che meno lettori appassionati. Ciò che manca è quella figura che leghi questi due mondi. Si deve rifondare un nuovo patto tra gli intellettuali che si occupano di determinati temi e l’opinione pubblica.


(*) Intervista pubblicata sul numero di gennaio di Nigrizia e ripreso da qui.

Redazione
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2 commenti

  • Giorgio Chelidonio

    Fra le tante affermazioni/chiave quella delle relazioni fra Storia e Memoria sottolineerei la differenza/valenza fra “storie e memoria individuali” e radici educative famigliari e scolastiche: come esempio io sono arrivato a oltre i miei vent’anni senza avere la pur minima percezione delle tragedie coloniali, mentre sulle 2 guerre mondiali ho “bevuto” le memorie paterne. Nessuno dei miei famigliari era stato minimamente coinvolto, neppure indirettamente, nelle pagine coloniali e nomi come “il Negus” o “la regina Taitù” erano figure macchiettistiche nel loro dire. E la mia esperienza scolastica mi aveva lasciato rare citazioni. In sintesi, solo vent’anni fa un casuale incontro in libreria con “Italiani brava gente” di Del Boca ha iniziato a togliermi da quel limbo di ignoranza selettiva.

  • Gian Luigi Bettoli

    Bel lavoro, quello di Filippi. Ma con il limite, nel tenersi sul piano della divulgazione, di generalizzare fino al rischio di apparire superficiale. L’avevo già notato con il suo primo libro, tutto basato (ed è stato interessante) sulla disamina e falsificazione della legislazione fascista, salvo sottovalutare l’aspetto dell’attività antipopolare del regime, che non passava in primo luogo per la legislazione, ma per la contrattualistica.
    In questo caso: è verissimo che il Pci postbellico è “colonialista” ed eurocentrico (vedi gli articoli de “l’Unità” sui “banditi” etiopici che attaccano i coloni italiani rimasti là). Ma parlare di interesse per l’Africa solo successivo alla rivoluzione cubana è dimostrazione di parlare senza sapere. Basta leggersi la stampa comunista dell’epoca, con tutto il suo interesse per le rivoluzioni anticoloniali, dalla Malesia al Viet Nam, dal Guatemala al Kenya, dall’Egitto all’Algeria – ed alle lotte dei neri americani – e via discorrendo. Altro che solo Angola e Mozambico, che sono vent’anni dopo! Poi, a voler divagare, sarebbe interessante parlare del cambio di fronte del PCI sulla lotta di liberazione eritrea dall’Etiopia, subalterno alle scelte sovietiche dopo il colpo di stato del DERG. E poi, finiamola col considerare solo il Pci, c’era anche un grande Psi, con militanti antimperialisti come Giovanni Pirelli.

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