Izet Sarajlić, un poeta

di franz (*)

poesie che fanno male, e che ringrazi di poter leggere, poesie che non possono lasciare indifferenti, poesie di resistenza al male, poesie di un grande uomo.

poi ho letto, e ascoltato, come ne parla Erri De Luca, che ha avuto la fortuna di conoscerlo.

cerca le poesie di Izet Sarajlić, gli vorrai bene, non te lo dimentichi più, sicuro.

La fortuna alla maniera di Sarajevo

A Sarajevo
in questa primavera 1992,
tutto è possibile;
fai la coda per comprare il pane
e ti ritrovi al Servizio di traumatologia
con una gamba amputata.

E dopo asserisci
d’aver avuto anche fortuna.

1992

Un’altra volta saprei

Troppo poco ho goduto gli scrosci primaverili e i tramonti del sole

Troppo poco mi sono dilettato della bellezza delle vecchie canzoni e
delle passeggiate al chiaro di luna

Troppo poco mi sono inebriato del vino dell’amicizia
anche se al mondo quasi non c’è paese dove non avevo almeno due amici.

Troppo poco tempo ho dedicato al mio amore
io che all’amore avevo consacrato tutto il mio tempo.

Un’altra volta saprei incomparabilmente di più godere la vita.

Un’altra volta saprei.

1987

qui e qui

“PER IZET” – Erri De Luca

Guardo le date delle tue poesie. Sono geloso del millenovecento che tu hai esplorato con vent’anni di vantaggio su di me. Apparteniamo entrambi all’intero secolo, anche alla parte in cui non eravamo nati. Sono geloso del tempo che tu hai amato di più.
Bisogna abitare in una città fluviale per trovarsi in poesia a una confluenza di acque correnti. In te scorrono russi, tedeschi, spagnoli, francesi e qualche italiano, tu li contieni. La Mliacka di sarajevo non è il Guadalquivir né la Neva, però il suo piccolo letto regge l’onda di piena e di raccolto dello scroscio di versi di un secolo, un torrente passato nel tuo cranio di “mentsch”, persona del genere umano.
Ho bevuto con te e così, per la misteriosa proprietà transitiva dei poeti e dei bicchieri, io mi sono trovato seduto a tavole remote, dove mai mi sarei azzardato a chiedere permesso. Dietro un nostro bicchiere ho potuto stare con Bohumil Hrabal nella birreria di Praga, al suo tavolo che non ospitava scrittori né lettori, ma solo bevitori amici. Ho potuto sapere come lui portava il vetro all’altezza dei denti e come ci appoggiava sopra il silenzio. Ho tirato tardi con Nazim Hikmet, Alfonso Gatto, Esenin, all’ombra dei nostri bicchieri e ora so con che dita si stropicciano gli occhi. Ho ascoltato la parola comunismo senza inflessioni di invettiva o inno, senza versione ufficiale, come uno pronuncia la parola pioggia, sandalo, balcone.
La storia del nostro millenovecento si è tanto preoccupata di infilarsi nelle case, staccare genitori da figli, mogli da mariti, stabilire diete di scarsità nelle cucine spente, distribuendo addii come biglietti da visita. Questa invadente storia maggiore nei tuoi versi è ridotta a margine slabbrato della pagina. Conta di più la storia minore di avere amato una donna, di avere tremato meno per gli scoppi delle granate e molto di più per la febbre di una figlia, per la tosse notturna di un nipotino. È potente per te, molto più che per me, l’esclusiva della vita personale, prepotente il diritto alla felicità, scippata al volo, gustata pure prima di noi non ha avuto nessuno”. Dici giusto: anche se siamo gli ultimi di una serie innumerevole, con poco e niente margine di novità, ecco che nella felicità possiamo essere primizia assoluta, sicuri che nessuno può essere stato così felice prima di noi. È antica, ovvia, ripetuta, l’ingiustizia, la guerra, rime stantie delle generazioni, ma la felicità, quella è strepitosamente nuova, vergine per il poeta e per ognuno di noi che è poeta quando sa riconoscerla in tempo, mentre succede, mentre in cucina una pentola bolle. Poeta è chi trova la felicità nella stanza accanto e mai dice dopo: quelli erano bei tempi. Mai la felicità è retroattiva, o riconosciuta all’istante o perduta.
Ma quando è insopportabile la pena, allora servi tu, poeta, tu e non un romanziere che la tira in lungo, tu con dei versi da imprimere a memoria quando si è alle strette e viene tolta la biblioteca e la luce del giorno. Là servi tu che puoi rispondere di tutto. Ricordi Izet la fila davanti alla prigione di Leningrad, era il cinquantasette e Anna Achmatova da un anno si incolonnava insieme ai parenti dei prigionieri nella fila delle visite, al freddo. E qualcuno la riconosce, è lei la famosa poeta, perché in Russia i poeti erano famosi. E una donna che sta in fila dietro di lei, che non l’ha mai sentita nominare, le domanda a bassa voce: “A eto vi mojete opisat’?”, e questo voi lo potete descrivere?, e lei risponde con altrettanto soffio: “Mogù”, posso. E finisce il racconto scrivendo: “Allora qualcosa di simile a un sorriso scivolò su quello che era stato un volto”. Ecco, mio Izet, dentro ogni tuo verso di guerra subita, di lutto, c’è la risposta alla domanda di uno come me che sta in qualche fila all’addiaccio delle molte prigioni e chiede: “Questo voi potete descriverlo?” e tu con la carta piena del segreto dell’aria, rispondi: “Mogù”, posso.

Ho visto la tua patria, Izet, città al buio, le file per l’acqua, ho visto la guerra tornare in Europa e lasciarla illesa e uguale. La Bosnia degli anni novanta era migliaia di miglia più lontana del Vietnam del sessantasette. Sono gli anni a fare la geografia, non le distanze. Oggi si può prendere un aereo per Sarajevo, Belgrado, io ho amato le tue città quando non si poteva prendere un caffè. Amo il tuo suolo, amo: un verbo che è stato la tua sola bandiera e ha sventolato sul bavero della tua giacca per una vita intera. Da te imparo di nuovo a dire: amo. A cinquant’anni bisogna pronunciarlo spesso, in quante più lingue possibile, lavandosi i denti al mattino, sciacquandoli bene e poi asciugandoli con l’aria di quel verbo all’indicativo presente. Tutte le tue poesie vengono da questa igiene del verbo amare, da questa soglia delle labbra. Bentornato in italiano, benvenuto col tuo verbo a grattare la ruggine della nostra pentola e a farla profumare, noi t’invitiamo ma tuo è il fuoco e la pietanza, tuo il vino che dà profondità ai nostri occhi, un grano d’infrarosso per vedere al buio.

da qui

(*) così si presenta franz (rigorosamente minuscolo): «Ah, i libri! Sono bottiglie lanciate in mare, come nei film di pirati, i migliori sono mappe del tesoro, solo bisogna saper leggere quello che qualcuno, che non ci conosceva, ci ha donato. Credo davvero che quanto più s’allarga la nostra conoscenza dei buoni libri tanto più si restringe la cerchia degli esseri umani la cui compagnia ci è gradita. Noi siamo come nani sulle spalle di giganti e la lettura di tutti i buoni libri è come una conversazione con gli uomini migliori dei secoli andati. Una cosa è necessaria: non leggete come fanno i bambini per divertirvi o, come gli ambiziosi, per istruirvi. No, leggete per vivere. Risponde qualcuno alla domanda sugli scrittori del momento: “Non so niente della letteratura di oggi, da tempo gli scrittori miei contemporanei sono i greci”. I libri non si scrivono sotto i riflettori e in allegre brigate, ciascun libro è un’immagine di solitudine, un oggetto concreto che si può prendere, riporre, aprire e chiudere e le sue parole rappresentano molti mesi, se non anni, della solitudine di un uomo, sicché a ogni parola che leggiamo in un libro potremmo dire che siamo di fronte a una particella di quella solitudine. Un libro è uno specchio. Se ci si guarda una scimmia, quella che compare non è evidentemente l’immagine di un apostolo».

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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