Julia, ti amo

Ogni inizio mese comincio a friggere. Punto l’edicola finchè arriva il nuovo «Julia». Lo divoro. Poi di solito lo rileggo per guardare meglio i disegni, godere dei particolari. Così da oltre 150 mesi (son tanti eh?) con pochissime delusioni. Ma per delusioni non intendo che non ho trovato una bella storia ma che era un pochino meno splendida del solito (Berardi ci vizia). Come? Qualcuna-o che passa da codesto stra-blog non sa di cosa parlo? Lo temevo e infatti quasi ogni mese mi dico: «Barbiè, stavolta dovrebbe proprio (mi dò del lei per evitare eccessive confidenze con un quasi sconosciuto dall’aria losca) recensire Julia o qualcosa del genere» ma poi non trovo tempo. Ecco qualcosa del genere. Ho assemblato un paio di articoli-interviste a Berardi e li incollo qui sotto.

Quando si dice il caso: Giancarlo Berardi è nato il 15 novembre del ’49, lo stesso giorno (non lo stesso anno) di Julia Kendall. Ma questa Julia è una tipa strana: appena nata – nel 1998 – è già una nota criminologa, insegna all’università di Garden City ed è consulente della polizia. Adesso la tredicenne Julia non sembra invecchiata di un giorno ma ringiovanisce ogni estate… per un solo mese. Siamo nei territori dell’immaginario dove tutto è possibile: «Julia» è un fumetto, inventato da Berardi per la scuderia Bonelli. La protagonista è quasi identica all’attrice Audrey Hepburn (primo amore cinematografico di Berardi).

Un pur parzialissimo ritratto di Julia potrebbe iniziare così. I genitori sono morti quando lei era piccola, è stata cresciuta dalla nonna che ora – pur se Julia non vorrebbe – sta in una (bella) casa di riposo. Quasi sempre single con amori brevi, delusioni, paure e convivenze lampo. Il desiderio di figli per ora si è concretizzato solo in una convinta adozione a distanza. Progressista senza esitazioni: memorabili le sue litigate con il tenente Webb. Ha una sorella che fa la modella, quasi sempre all’estero e alle prese con storie di eroina, forse non del tutto superate. La “specialità” di Julia sono i killer seriali. Vive con una gatta molto amata (Tony), sorretta e qualche volta incasinata da una colf scatenata (con il volto di Whoopi Goldberg) e di notte incontra molti incubi. In quasi tutte le storie compaiono Leo, un amico investigatore dal cuore tenero e dal pugno duro, e vari tutori della legge (Irving è il controcanto dell tenente Webb); spesso nelle vicende si intrufolano un meccanico molto particolare, uno strano ladro (con la faccia da Cary Grant) e la super-cattiva Myrna.

Normale, fragile anche ma testarda, Julia Kendall rispetta le leggi ma spesso le critica. Ha fatto innamorare – in tutti i sensi – di sé lettori e lettrici (ne sono testimoni ogni mese le due pagine, «Il diario di Julia») fra cui – sarebbe disonesto tacerlo – anche chi scrive. Eppure chi frequenta da tempo i fumetti ancora rimpiange il precedente “figlio” di Berardi: Ken Parker (un viso che ricordava Robert Redford). Fu un western contro-corrente che debuttò nel giugno ’77 e ancora viene ristampato. Ce ne ha messo la Kendall a farsi amare altrettanto e di più. Ha lottato con killer pazzoidi e assassini in guanti bianchi, con sedicenti insospettabili e stupidi fautori della tolleranza zero, con delitti casuali e terroristi (o narcos) organizzatissimi. Con lei una squadra di eccellenti disegnatori e Berardi che suggerisce colonne sonore ad hoc (jazz, blues, rap, Kurt Cobain, Oasis, la musica classica e colta…). Non si sa chi citi di più se la Kendall o Berardi: ed ecco i rimandi a Raymond Chandler, John Fante, Dashiell Hammett, Elmore Leonard, Dalton Trambo, John Wyndham, George Simenon ma anche don Milani.

Una squadra molto varia di disegnatori – e quasi sempre all’altezza dei bei testi – accompagna ogni mese (ma bisogna aggiungere almeno uno speciale estivo, che è appunto “Julia giovane”) questa gemella di Audrey Hepbuen: se non vado errato, fra loro neanche una donna.

Se vi interessa saperne di più correte in edicola. Essendo indisponibile Julia – questioni tecniche ma anche di lingua (io sono un francofono) – per una intervista, ho ripiegato sul piano B: fare un po’ di chiacchiere (in due diverse occasioni ma sempre per posta elettronica e con tempi rilassati) con il suo babbo adottivo, il gentilissimo Berardi. Ecco il risultato.

Dal punto di vista tecnico (sia narrativo che grafico) «Ken Parker» era spesso molto innovativo mentre «Julia», in media, è più tradizionale. Perché questa scelta?

«Quando iniziai Ken Parker, nel 1974, il fumetto italiano era molto legato al romanzo popolare di origine francese e inglese, il cosiddetto feuilleton, un tipo di narrazione descrittiva e farraginosa che si riverberava sul fumetto con infiniti balloon-pensiero e didascalie esplicative. Un mucchio di parole inutili e un modo di raccontare noioso. Amo il cinema e, per me, fare fumetti significa perpetuare quel tipo di emozione. Così, in quegli anni, decisi di sgravare le mie storie dai cascami del passato, eliminando tutte le lungaggini: locuzioni di luogo, di tempo, pensieri, ecc. In questo modo, la narrazione è più concisa e il ritmo ne trae vantaggio. Julia è nata 20 anni dopo, la società era cambiata come i gusti e la cultura. Mi accorsi che i giovani, influenzati dal cinema moderno e dalla tv, avevano acquisito un linguaggio poverissimo, quello dei film Usa, degli “okay, ’fanculo, okay” e poco altro.Con la nuova serie pensai a uno stile narrativo che stimolasse il lessico e spingesse a recuperare gusto per la lettura e capacità di scrivere. Rispetto a Ken Parker, in Julia la densità di scrittura è molto più alta. Ho introdotto anche un diario – recuperando una tradizione degli scrittori noir della costa occidentale – a cui la protagonista racconta le sue emozioni più intime: un espediente molto letterario».

I suoi biografi raccontano che rifiutò un’offerta di lavorare con la Marvel. C’è stato un momento in cui se n’è pentito?

«Gli Usa, nei primi anni ‘70, cominciavano a guardarsi dentro. Dopo un secolo e mezzo di corsa all’Ovest, sfociata in guerre imperialistiche, il Vietnam aveva costretto gli statunitensi a fare i conti con le proprie sicurezze e contraddizioni. Al cinema, si era passati dal West eroico di John Wayne a quello problematico di Robert Redford. In quell’atmosfera tesa, mi trovavo a New York con l’intento di praticare la lingua inglese e i maestri dei comics. Fui fortunato. Venni accolto con simpatia negli studi di Neal Adams, Joe Kubert, Gray Morrow, John Cullen Murphy, Dick Giordano, Sergio Aragones, Dick Browne, Al Williamson, John Prentice… e tanti altri. Johnny Romita e Mort Walker mi offrirono di fermarmi a lavorare con loro, ma l’american way of life non faceva per me; in Italia mi aspettavano l’università e una fidanzata. Rifiutai e non ho avuto ragione di pentirmene. Oggi, negli Usa, le strisce umoristiche sono in crisi e il fumetto d’avventura racconta solo le gesta dei supereroi, vecchi o giovani, con la gastrite o le crisi d’ansia. Francamente, non mi importa dei problemi dei superuomini. Se fossi rimasto là, avrei cambiato mestiere da tempo. E forse nazione».

Fra la chiusura di «Kp» (’84) e la nascita di «Julia» (’98) lei ha fatto molto altro ma c’è una ragione se Julia ha una gestazione così lunga?

«Ho concepito Julia nel ‘94, dopo che le vendite di Ken Parker giunsero al minimo storico, 13.000 copie. L’editore Bonelli avrebbe continuato per amicizia, ma mi opposi. Sono un professionista, non accetto che l’editore perda denaro. Mi invitò a presentargli una nuova serie. Il risultato fu Julia. Avevo l’età giusta per affrontare un personaggio femminile e una cospicua cultura sul giallo e sulle materie criminologiche (mi sono laureato sulla sociologia del romanzo poliziesco). Malgrado ciò, per mettere a punto la saga, ci vollero altri 4 anni, tornai all’università per frequentare criminologia e lessi decine di volumi di psicologia, psicanalisi, sociologia, storia del crimine, ecc.

Altra differenza fra «Kp» e «Julia» è nelle didascalie: quasi assenti nel primo, molte nel secondo. Perché «Julia» ha una struttura complessa?

«Bisogna intendersi con il termine didascalie. Quelle tradizionali, nel fumetto, riguardano indicazioni di tempo e luogo (“Quella notte”, “Tre miglia più a nord”). Il testo fuori dalle vignette, in Julia, è invece un flusso di coscienza, che permette di conoscere emozioni e pensieri della protagonista, senza far uso degli anacronistici balloon-pensiero. Quelli con le bollicine, per intendersi».

Anche lei come Julia ha spesso incubi? O in questo siete diversi?

«Ho un’attività onirica notturna, come tutti, ma al mattino non ricordo quasi nulla. Forse è lo scotto che devo pagare, lavorando già con i sogni durante il giorno. Quanto agli incubi, mi bastano quelli che ci propinano la cronaca e la politica del mondo».

Molti i co-protagonisti in «Julia» e alcuni non-umani (la gatta e la Morgan dispettosa). Chi legge si chiede se sia una scelta studiata o se questi personaggi le prendano la mano…

«Mentre scrivo una storia incentrata su fatti criminosi, sento il bisogno di alleggerire la materia, per me e per i lettori. Una buona storia è lo specchio della vita: un misto di dramma e commedia, uno schiaffo e un bacio in bocca».

Fra le citazioni (dirette e indirette) prevalgono gli stranieri; ovvio, Julia vive negli Usa. Ma se un impertinente intervistatore le chiedesse quali artiste/i dell’Italia ama di più?

«A parte le vecchie glorie, delle nuove generazioni mi hanno colpito Luca Zingaretti, Pierfrancesco Favino, Giovanna Mezzogiorno, Laura Morante… Ottimi professionisti con un evidente curriculum di studio e professionalità. L’aspetto piacevole, come il talento, è un formidabile inizio, ma non basta. Bisogna specializzarsi, lavorare, studiare, sacrificarsi. Solo così si ottengono risultati».

Lei si documenta e la maggior parte dei disegnatori di «Julia» mostra un’attenzione maniacale ai dettagli. Eppure qualcosa scappa sempre. Confessi: esiste un errore clamoroso o una incongruenza narrativa sfuggita al principe dei pignoli?

«In 120 albi ne sono sfuggite a decine, purtroppo. Non parlerei di attenzione maniacale o pignoleria. Chi, come me, ha la fortuna di essere letto da un pubblico vastissimo, di ogni età ed estrazione sociale, sente l’obbligo e l’orgoglio di documentarsi e di offrire un prodotto il più possibile aderente alla realtà delle cose. Si chiama etica professionale. Lei se l’aspetterebbe da un chirurgo o da un idraulico. Perché no da un narratore?».

Alcune storie («Sangue del mio sangue» è l’esempio più clamoroso) affrontano temi delicatissimi, riuscendo a non banalizzarli e senza i manicheismi in voga. C’è una questione aggrovigliata che sente di dover toccare in 126 pagine?

«Una storia non vale nulla senza tensione morale. Tanto più i personaggi sono interessanti quanto più rispecchiano i nostri desideri, i nostri limiti, o quelli che impone la società. Il dualismo bene e male è alla base della storia umana. Non tener conto di questa realtà significa falsificare le cose. Uno degli aspetti inquietanti della nostra epoca è il revisionismo storico, per cui tutti hanno commesso errori prima o poi, quindi nessuno risulta davvero colpevole. Non mi sembra un buon esempio per i ragazzi, che devono capire bene i confini fra giusto e sbagliato. Quanto ai temi che vorrei trattare in Julia, sono molti: l’eutanasia, per esempio. È un dilemma sociale e morale drammatico e controverso. Non ho soluzioni da suggerire naturalmente, ma parlarne serve a chiarirsi le idee. E a costruirsi una coscienza».

Negli anni la «posta» è cresciuta d’importanza. Chi legge Julia ogni mese rimane esterefatto dal doppio coinvolgimento, cioè suo e di chi le scrive.

«La rubrica della posta è un patto non scritto fra me e i lettori: loro raccontano una storia a me e io ne racconto una a loro. A volte drammatica, a volte piena di speranza. Dialogare con i propri lettori crea una cassa di risonanza fondamentale per un narratore; è come recitare a teatro, dove si ha un ritorno immediato dalla platea. Così un’attività eminentemente solitaria, come quella dello scrittore, assume un tocco di coralità. Il pubblico di Julia è in prevalenza femminile, tra i venti e i trent’anni, spesso studentesse di psicologia o aspiranti criminologhe, che curano un diario, un animale e un fidanzato. Non sempre in quest’ordine. I giovani, oggi, hanno un disperato bisogno di punti di riferimento. Io non ho titoli al riguardo, però, se qualcuno mi elegge a questo ruolo, non mi sottraggo. Abbiamo consegnato ai ragazzi un mondo travagliato, non possiamo sottrarci alle nostre responsabilità di dialogo e di confronto con loro».

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