Kaiowá

di Loretta Emiri (*)

KAIOWá

             Il popolo guarani si divide nei sottogruppi kaiowá, nhandeva e mbyá. Il territorio tradizionale dei kaiowá si estende dalla regione del fiume Dourados a quella del fiume Iguatemi, nello stato brasiliano del Mato Grosso do Sul, continuando a ovest fino al fiume Apa e addentrandosi nel Paraguay. Il kaiowá è uno dei dialetti della lingua guarani, che fa parte della famiglia tupi-guarani del tronco linguistico tupi. Nel Mato Grosso do Sul, sedicimila kaiowá e nhandeva vivono oggi in striminzite riserve, e più di tremila fuori di esse.  Gli uomini bianchi hanno preso d’assalto il territorio indigeno; hanno divorato piante vive, radici, semi, cereali, tuberi, legno; hanno costruito termitai chiamati fattorie, villaggi, città. Prevalentemente, le donne kaiowá sono impiegate come domestiche e gli uomini svolgono lavori stagionali nelle fattorie. In alcune riserve, fra cui Dourados e Amambai, dal 1985 sono aumentati i casi di suicidio. Periodicamente, stampa, politici ed istituzioni affrontano il problema esibendo emozionate parole e nessun provvedimento.

            Ero stata invitata per contribuire alla realizzazione del “I Incontro di Maestri e Leader Guarani-Kaiowá sull’Educazione Scolastica Indigena”. Trascorsi due giorni nella cittadina di Dourados dialogando con l’équipe locale, fornendole informazioni e documenti attraverso cui attualizzarsi, leggendo relazioni e saggi sui kaiowá, abbozzando una proposta di metodologia per l’incontro. Ci trasferimmo nella frazione Vila São Pedro, dove gli indios cominciarono a giungere nel pomeriggio della vigilia dell’incontro. Si presentarono quaranta kaiowá provenienti da dodici differenti aree.            Mi spettava coordinare il primo dei tre giorni riservati all’evento. Avevo già visitato altre regioni, conosciuto indios appartenenti ad altre etnie, tutti vestiti molto semplicemente, dignitosi nella loro povertà. Mi si strinse il cuore alla vista dei kaiowá che mi stavano davanti quando detti inizio ai lavori: sguardi tristi e spauriti, corpi denutriti coperti di malattie e stracci. Visualizzavo quale differenza passa fra i termini povertà e miseria. Avevo ottenuto che i bianchi presenti partecipassero come semplici ascoltatori, perché non inibissero gli indios con il solito sfoggio di  proprietà di linguaggio e impliciti atteggiamenti di paternalismo e supremazia culturale. Chiesi ai kaiowá di presentarsi e di dire che cosa si aspettavano dall’incontro. La maggior parte si espresse in lingua materna; coloro che dominavano il portoghese tradussero le dichiarazioni dei colleghi.

            Due interventi mi colpirono più degli altri. Con voce indignata, uno dei leader ricordò un episodio occorso tempo prima in Brasília. Il presidente della Repubblica non aveva voluto incontrare una delegazione di popoli indigeni, ma il rammarico del kaiowá scaturiva dal fatto che il gruppo fosse stato ricevuto, e mantenuto sotto controllo, da militari che tenevano al guinzaglio cani-poliziotto ed esibivano manganelli. Con tono umiliato, l’uomo ripeteva: “Perché ci trattano così? Non siamo bestie, né criminali”. A sua volta, un maestro osservò che il Ministero dell’Educazione è la “coda” del Ministero dell’Economia. Sostenne che quella che viene offerta ai poveri non è vera scuola, è scadente, certamente non è la stessa di cui usufruiscono i ricchi. Scetticamente, concluse dicendo che la riunione non avrebbe prodotto altro che le solite, sterili chiacchiere.

            Ascoltandoli e sintetizzando alla lavagna le loro aspettative, perché su di esse volevo costruire i miei interventi, percepii che l’incontro sarebbe stato particolarmente ricco e proficuo per il fatto che vedeva riuniti  leader e maestri. Lo scontro con la società occidentale provoca una serie di cedimenti all’interno delle strutture indigene, dando luogo a nuovi ruoli, funzioni, categorie sociali. Ne risultano divari fra generazioni che contribuiscono, essi stessi, a disintegrare culture indigene. Mi rallegrava pensare che in eventi futuri avrei portato come esempio quell’incontro per incentivare gli anziani capi politici e i leader emergenti, cioè i giovani maestri, a riflettere e lavorare insieme alla costruzione della nuova identità indigena.

            Spiegai in che cosa consisteva il mio lavoro di coordinatrice del Settore di Educazione del CIMI – Consiglio Indigenista Missionario: incentivare e collaborare alla realizzazione di incontri e corsi per maestri indigeni; divulgare quanto avveniva a livello nazionale; accompagnare l’andamento dei progetti di legge; editare e diffondere saggi e sussidi didattici, specialmente se prodotti dagli stessi indios. Con l’enfasi che sempre modulava la mia voce quando parlavo di certi avvenimenti, raccontai ai kaiowá che i loro “parenti” (fra cui, ad esempio, i paresi, terena, xavante, macuxi) stavano partecipando all’elaborazione di leggi riguardanti l’educazione scolastica indigena. I documenti finali di incontri e corsi già realizzati da maestri di varie etnie erano stati da me personalmente consegnati a deputati e senatori attenti alla causa indigena, i quali avevano incorporato i suggerimenti degli indios ai progetti di legge.

            Dissi perché non avrei potuto trattenermi sino alla fine dell’incontro. La Commissione di Educazione del Senato Federale aveva organizzato il simposio “Educazione: la sfida dell’anno 2000”, ed era entrata in contatto con il Settore di Educazione del CIMI perché indicasse un esperto per una conferenza sull’educazione indigena. Istintivamente, avevo risposto che la persona più autorevole in materia non poteva che essere un indio. Vinta la reticenza di donne bianche che lavoravano nel CIMI, le quali avevano dato per scontato che la conferenza sarebbe stata proferita da una di loro, avevo indicato un maestro indigeno. Quindi, l’indomani avrei fatto ritorno a Brasília per riceverlo. Tracciai il profilo del giovane macuxi: la partecipazione a incontri di maestri della regione amazzonica aveva contribuito a formarlo politicamente; era uno dei fondatori dell’organizzazione dei maestri indigeni dello Stato di Roraima; se la cavava brillantemente con il portoghese. Sottolineai che incontri e corsi stavano susseguendosi un po’ in tutto il Brasile; che avevano cominciato a proliferare associazioni di maestri indigeni; che il grado di organizzazione e mobilitazione di molte etnie era incoraggiante. Con tono orgoglioso conclusi che, da lì a quattro giorni, il giovane macuxi  avrebbe parlato ai senatori della Repubblica  rappresentando  idealmente i maestri  indigeni brasiliani, e quindi anche i kaiowá. Al mio discorso seguì un lungo silenzio, ed esso rese solenne quanto venne detto dal primo indio che prese la parola: “Svegliarsi. Bisogna svegliarsi. È ora che i kaiowá si sveglino.” La parola “SVEGLIARSI” divenne lo slogan del giorno e dell’incontro.

            Mi accompagnarono all’aeroporto. Sul piccolo aereo che avrebbe raggiunto la capitale dello Stato, Campo Grande, presero posto quelli che, inconfondibilmente, erano allevatori di bestiame: stivali, cinturoni, borse di cuoio; blue-jeans, camicie a quadri, cappelli da cow-boy; anelli, orologi,  bracciali, catene d’oro; paffuti, rubicondi, spavaldi. Mi sistemai a debita distanza per non dover instaurare nessun tipo di discorso. Tutto il tempo mantenni il volto incollato all’oblò. Non ricordo esattamente ciò che vidi. Mi è rimasta dentro la nebulosa e suggestiva immagine di una immensa pianura, a tratti punteggiata da chiazze di vegetazione e corsi d’acqua. Ricordo esattamente ciò che pensai. Mi sono rimaste dentro le considerazioni fatte. Abitanti tradizionali di un esteso territorio,  i kaiowá erano costretti a vivere in striminzite riserve, come bestie nei recinti. Bovini, trasformati in carne da esportazione, andavano ad arricchire la già opulenta dieta degli occidentali. Di tanti soldi fatti, a  proprietari terrieri e importatori scoppiavano i portafogli. I kaiowá sopravvivevano contorcendosi per fame e stenti, o scoppiava in loro l’angustia e si suicidavano.  Non avvertii il rumore del motore dell’aereo, neutralizzato dalle voci indigene che continuavano ad echeggiarmi dentro. Con più intensità riascoltavo le parole di un anziano che aveva esortato il gruppo a passare dalle chiacchiere ai fatti. Aveva sostenuto che, comportandosi come fossero una colonia di termiti, i kaiowá dovevano prendere d’assalto la realtà, le leggi, la scuola, i nuovi spazi da occupare, i futuri ruoli da svolgere; dovevano divorare difficoltà e ostacoli; dovevano costruire i propri diritti come fossero solidi, inattaccabili, termitai.

            I “posti divertenti” dove mangiare prodotti a base di carne, fino a poco tempo fa circoscritti alle grandi città, stanno proliferando in tutt’Italia in medi e piccoli centri di provincia. Con emozionate parole, in questi giorni un quotidiano italiano ha riportato la notizia dell’aumento dei casi di suicidio fra i kaiowá. Nella prospettiva cristiana il suicidio è un male e questa concezione ne determina la condanna metafisica. Chi si uccide è considerato vittima o vigliacco. Il suo gesto è ritenuto passivo, come se non derivasse da una precisa volontà. Nella prospettiva kaiowá la morte voluta afferma valori. È un giudizio totale sul senso della vita. Manifesta il rifiuto di una data situazione. Prova l’attaccamento a un determinato modo di essere, non a una esistenza qualsiasi. È una soluzione fra altre, una scelta deliberata. È un atto di fedeltà alla propria società e ai suoi precetti. È un gesto etico che restaura, in chi lo compie, l’onore e il rispetto verso di sé. Tanti anni fa, in un articolo pubblicato dal quotidiano Folha de São Paulo, il senatore Severo Gomes sintetizzò bene il problema, affermando che il suicidio era una strategia radicale degli indios per recuperare il controllo sulla propria vita attraverso l’atto estremo di togliersela. Sono trascorsi più di otto anni  da quando venne pronunciato il grido di guerra “SVEGLIARSI”. Continua ad echeggiarmi dentro con la stessa drammaticità. Mi hanno regalato del mate, detto anche tè del Paraguay. Ho preparato l’infuso, che i kaiowá chiamano tererê e degustano freddo. Stringo fra le mani la zucchetta che lo contiene e porto alle labbra l’apposita cannuccia. La bevanda va ad irrorare un’idea fissa. Prendersi la libertà di morire in tempo opportuno è il gesto più attivo che un essere umano possa compiere. Morire da uomini, prima di essere trasformati in hamburger.

(*) Riprendo questo post e l’illustrazione dalla sezione «saggi» della rivista «Sagarana» (www.sagarana.net) numero 50. «Kaiowá» è uno dei capitoli del libro inedito «Amazzone in tempo reale». Loretta Emiri è nata in Umbria nel 1947. Nel 1977 si è stabilita in Roraima (Brasile) dove ha vissuto per anni con gli indios Yanomami. In seguito, organizzando corsi e incontri per maestri indigeni, ha avuto contatti con varie etnie e i loro leader. Ha pubblicato il «Dicionário Yãnomamè-Português» e il libro etno-fotografico «Yanomami para brasileiro ver». In italiano ha scritto «Amazzonia portatile», «Quando le amazzoni diventano nonne» e l’inedito «Amazzone in tempo reale». E’ curatrice dell’inedito «Se si riesce a sopravvivere a questa guerra non si muore più» è la curatrice. Fa parte del CISAI – Centro Interdipartimentale di Studi sull’America Indigena – dell’Università di Siena.

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