Kathryn che fischiò in Bosnia

«The Whistleblower» (suonatrice/suonatore di fischietto, simbolicamente qualcuno che avvisa o attira l’attenzione) è un film che sta uscendo in questi giorni nei cinema statunitensi, protagonista la premio Oscar Rachel Weisz. Tratta della missione di peacekeeping delle Nazioni Unite alla fine degli anni ’90 in Bosnia, ed è basato su una storia vera, quella della poliziotta Kathryn Bolkovac.

Nel 1999 Bolkovac firmò un contratto con l’agenzia di contractors DynCorp, finanziata dagli Usa, che stava reclutando personale per la missione per conto delle Nazioni Unite. Bolkovac avrebbe passato 22 mesi in Bosnia, dove scoprì una vasta tratta sotterranea di donne a scopo di sfruttamento sessuale. Una tratta maneggiata proprio da individui con l’uniforme blu e la qualifica di “mantenitori della pace”. Bolkovac ha successivamente narrato queste vicende in un libro (che ha lo stesso titolo del film), è stata querelata dalla DynCorp e ha vinto la causa. Oggi ha 51 anni e “una rabbia che continua ad andare e venire. Certo, ho vinto in tribunale. Ma non ho mai avuto nessuna vera risposta.

Quella che segue è la traduzione dell’intervista che Kathryn Bolkovac ha rilasciato alla giornalista Marjorie Kehe prima dell’uscita del film. La traduzione e l’adattamento (come questa nota introduttiva) sono di Maria G. Di Rienzo

Marjorie Kehe (MK): Cosa ha indotto una madre divorziata di tre figli che vive nel Nebraska ad andare in Bosnia?

Kathryn Bolkovac (KB): Mio padre era croato. Emigrò negli Usa negli anni ’20. Ho sempre avuto interesse per quella zona del mondo. Durante gli anni avevo subìto alcuni traumi, fra cui il divorzio, e mi sentivo pronta per un cambiamento. Così, quando il volantino di reclutamento arrivò alla stazione di polizia in cui lavoravo, decisi di tentare. Pensavo anche che andare mi sarebbe servito a sostenere finanziariamente i miei figli mentre frequentavano il college e a costruirmi un curriculum migliore.

MK: La situazione che tu descrivi in Bosnia è eccezionale: 2.000 poliziotti da 45 Paesi diversi che tentano di operare come unica forza. Come andava?

KB: Alcuni degli ufficiali venivano da Paesi veramente poveri, non sapevano come usare un computer e nemmeno come guidare un’automobile. Per cui, facevamo training non solo alla polizia bosniaca sui princìpi democratici, ma anche ai membri della forza Onu su come guidare, come scrivere un rapporto, come usare il computer.

MK: Quando hai cominciato a capire che al di là delle sfide culturali stavi fronteggiando un problema come il traffico di esseri umani, e quando hai capito che alcuni dei tuoi colleghi vi erano coinvolti?

KB: Non sapevo molto del traffico di esseri umani, prima di partecipare alla missione. Però già durante l’addestramento alla DynCorp era chiaro che almeno una persona del nostro gruppo aveva familiarità con l’uso di bambine (dai 12 ai 15 anni) a scopo sessuale in Bosnia. Questo mi aveva veramente scioccato e disturbato, e ho sperato di aver frainteso quel tipo, ma dopo qualche tempo passato in Bosnia mi fu evidente che l’attività in questione era diffusa e prevalente. C’erano un gran numero di bordelli camuffati da ristoranti o discoteche, frequentati da una vasta clientela internazionale. Non era un bello spettacolo. Non riuscivo ad immaginare quegli stessi poliziotti agire nel medesimo modo a casa loro, a casa nostra, ma eccoli lì, in un Paese straniero, convinti che fosse tutto a posto.

MK: Quando hai avvisato i tuoi superiori ti sei resa conto che non volevano affrontare il problema. E infine hai perso il lavoro. Quando hai cominciato a percepire che la tua vita era in pericolo?

KB: Alcuni colleghi mi dissero che temevamo per la mia vita. Ma io ne avevo già passate tante. All’epoca era una poliziotta già da 10 anni, mi ero trovata più volte in situazioni pericolose. Diciamo che a quello ero abituata, la vera questione terribile era la fiducia: la cosa principale, per me, era che non potevo più fidarmi dei miei colleghi.

MK: Tu sostieni che il traffico di esseri umani segue i tumulti a livello globale. Cosa possiamo fare per rompere la connessione, per proteggere meglio le donne dalla violenza e dallo sfruttamento nelle zone di conflitto e post-conflitto?

KB: Dobbiamo educare i nostri poliziotti, il nostro esercito. Dobbiamo farlo davvero, non limitarci a dirlo, come troppe di quelle organizzazioni o compagnie di contractors che sostengono di avere “corsi etici” e fanno firmare alle persone pezzi di carta su cui sta scritto che non frequenteranno prostitute eccetera. Sono cose che non significano niente, perché le persone che firmano non capiscono veramente di che si parla, e perché nessuno si preoccupa di seguirle e di renderle responsabili. Non vedo tuttora uno sviluppo nell’addestramento della gente che mandiamo in giro per il mondo a rappresentare gli Stati Uniti. Si spediscono all’estero persone che non sanno nulla della legislazione locale, nulla di diritto internazionale, nulla delle culture che incontrano. Per me questo è ancora il problema principale.

MK: “The Whistleblower” sta per uscire nei cinema. Come ti senti ad essere rappresentata sullo schermo da un’attrice famosa come Rachel Weisz?

KB: Rachel Weisz è una minuta e squisita giovane donna, io sono una poliziotta grande e grossa alta un metro e ottanta… Ma è stato grandioso. Era così volonterosa di imparare da me. Mio marito e io siamo andati in Ungheria quando hanno iniziato là le riprese. Rachel fermava tutto ogni volta in cui aveva il dubbio di non avermi rappresentata fedelmente. Veniva da me e chiedeva: “Kathy, come avresti detto tu, come avresti fatto?”

MK: Il libro e il film aiuteranno la tua causa?

KB: Sto ancora cercando di capire qual è esattamente la mia causa. Sono sicura che c’è un motivo se ho passato quel che ho passato. E il motivo era il fischiare (“whistle-blow), il dare l’allarme. Sono stata descritta come un’avvocata dei diritti umani che lotta contro il traffico di esseri umani e per le donne e certamente io difendo tutto questo ma la questione che voglio risolta subito è la corruzione della DynCorp e di altre compagnie che assumono personale per mandarlo all’estero. Forse la mia causa è proprio continuare a spingere affinché le pratiche di reclutamento e addestramento migliorino, non è possibile che avendo addosso l’uniforme delle Nazioni Unite si traffichino esseri umani, armi e droghe. Vorrei veramente veder questo cambiare.


Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *