Kus Kus Klan e papaveri – di Mark Adin

Confesso di essermi affiliato.

Mi rendo conto di aver fatto un passo importante, dal quale trarre conseguenze. In un appartamento di Barriera di Milano, in quel di Torino – e già mi disoriento – denuncio di aver partecipato a una riunione del KKK. Hanno preso parte a tale riunione altre quattro persone, sulla cui identità taccio, almeno per ora.

Ciò che sono pronto a dire riguarda la mia adesione, di anima e di corpo. Parlando della prima, annuncio di aver trovato sintonia con le altre anime, riferendomi al secondo, diciamo che di corpo, successivamente, sono andato bene.

Non faccio nomi. Per principio, ma anche per non indirizzare altri alla confraternita, di cui voglio essere gelosissimo custode. Perché tanta cautela? Di cosa si è parlato? Rivoluzione? Macché. Se mai Rivelazione:cous cous con le fave accompagnato da una bottiglia di Nebbiolo. Ossimoro? Può darsi.

Ho goduto l’essere ospite con tutti i privilegi che ne derivano, grazie davvero. Anche i miei vecchi genitori, che venivano dalla terra ma avevano girato il mondo, mostrarono a noi figli che ricevere l’Altro era un atto gioioso, nel quale far convergere le attenzioni al centro, all’Ospite. Offrire il meglio, aprire la casa, far sentire accettazione, apprezzamento, condivisione, purissima  regalità di semplici.

Una persona cara mi faceva osservare, cresciuti sull’argine di un canale di periferia, qualche sparuto papavero di campo: rosso, leggero, germogliato tra immondizia abbandonata, plastica, materiali di risulta. Stanno lì a fremere ad ogni brezza, con petali talmente delicati, vibratili, più leggeri di una carta velina, che sembra si possano staccare ad ogni soffio, ma stanno lì, alti sulla feccia, piegandosi e riprendendo la stazione eretta, a ridere tra loro: alla salute del mondo, sopra la miseria, incuranti dei rifiuti abbandonati ai loro piedi, ridono, ti sorprendono.

Abbiamo riso molto anche noi, affiliati al Kus Kus Klan, senza cappucci, senza incendiare croci. Mangiando fave di primavera alla moda dei Cabili, a viso aperto bevendo il frutto della vigna di Noè. E’ l’Internazionale conviviale.

La periferia di Torino, brulla e sgraziata come tutte le periferie del mondo, non può impedire che il rosolaccio cresca, né si può opporre all’amicizia. Si riconosce, la desolazione, anche dalla dismissione di parole come “amicizia”, che sembrano alquanto inadeguate, antiche, desuete, che oggi stride pronunciare. Non ci si sente mai vicini.

I papaveri mica si curano della prossimità; i fiori tutti, ma in particolare loro. In un campo, con l’erba alta, è il rosso delle corolle che sbuca, che permette agli altri e a loro stessi di riconoscersi, spiccano sul verde. E’ il rosso che li unisce.

Eppure, la loro fragilità non è così lontana dalla nostra. E sono tanti, come lo siamo noi.

A margine di questo appunto, voglio considerare un fatto, forse poco rilevante: le fave sono state cucinate con il loro baccello, come è pure in uso in alcune regioni del nostro centro-sud. Io le ho buttate sempre, le bucce, non lo sapevo: l’ignoranza è danno, fa perdere occasioni.

Nel leggere i giornali, al mattino, mi ha colto la consueta sfiducia, la solita nausea, la voglia di arrendermi, il desiderio di andare via, non saprei dove. E ritornando con la mente a quella sera a Torino, pensando a una tavola, alla quale Algerini e Romani-Imolesi, Rumeni e Padani, cristiani, atei, valdesi e, forse, musulmani, ridevano forte pensando al razzismo surreale di quei terroni che abbandonano il quartiere perché mal frequentato dalla nuova e vitale immigrazione, ho scoperto con chi stare.

Io sto con i papaveri.

Mark Adin

Redazione
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