La Città – 2

di Mauro Antonio Miglieruolo

***

(segue da “La Città – 1” mercoledì 28 giugno)

 

 

Senza tempo II

Il mare batteva inutilmente, eternamente contro l’uomo. Non stancava mai, ma anche l’uomo era instancabile. Da che s’era alzato sulle ginocchia, non aveva voluto altro che la lotta, la lotta di tutti contro il tutto: da allora per il mare era finita la quiete. Contro la guerra dell’uomo il mare protestava, lanciando montagne d’acqua contro i piloni della rotonda, protestando, urlando, pur senza avere possibilità alcuna di vittoria. Il mare infatti poteva demolire l’opera profana che lo inquinava, ma l’uomo l’avrebbe immediatamente ricostruita. Poteva annegarne alcuni e molti altri avrebbero danzato al ritmo delle sue onde. Sbagliava inoltre a prendersela per quella modesta profanazione del suo eterno azzurro. Molto più grave era l’altra offesa che subiva. Quella della merda. L’intera merda del mondo era sua, a lui era destinata. A lui e un pochino anche e me, che gli stavo sdraiato sopra, a una decina di metri dalla sua mobile superficie.

TRE

Mi svegliai a metà del pomeriggio, nella mia merda. E forse anche nella loro. Ero sporco di sangue, piscio e vomito. Facevo schifo. Anche i dintorni facevano schifo. A poca distanza dal punto in cui stavo raggomitolato qualcuno, uno lercio lurido sozzo qualsiasi, si era liberato gli intestini. Qualcosa di quella sostanza me la sentivo addosso, ma forse era solo una impressione, solo per l’odore che, come un’eco, emanavo. Speravo, almeno.

Non provavo troppo male, comunque. Non in proporzione a quante ne avessi prese.

Mi sollevai faticosamente.

Seduto davanti al chiosco un uomo di una certa età mi osservava. Spippettava tabacco profumato tenendo il bocchino tra i denti sopravvissuti.

L’odore del tabacco mi infastidì. Reagii con alcuni vani conati.

– Sei ridotto proprio male, amico, – bofonchiò l’uomo, togliendosi dalla bocca la pipa il tempo necessario per dirmelo.

– Per piacere… – pregai indicando la pipa. La spense ridacchiando.

– Che sbornia, amico mio!

Tentai di tirarmi su. Girava tutto. Insistetti. Fui costretto a rimandare.

– Non è stata una sbornia. Non bevo di giorno. Di giorno cerco di che poter bere la notte…

 – Ah! Hai incontrato il lupo cattivo, allora.

Annuii. Cattivi incontri. Anche lui annuì.

– Capita di vederne da queste parti. Un tempo era un luogo molto frequentato. D’estate e d’inverno i tavolini erano quasi sempre tutti occupati. Ma sai come succede, le mosche sono attirate dallo zucchero; e il giro di quattrini ha attirato l’attenzione dei soliti parassiti… di coloro che hanno troppi soldi e stanno sempre in cerca del dove investirli. O riciclarli. Gente così. Il posto per di più godeva di un vantaggio, il suo essere fuori mano, che faceva gola a tutti coloro che hanno buoni motivi per non voler dare nell’occhio. I proprietari del chiosco però erano strani, idealisti, persone assolutamente prive di buon senso. Si ostinavano con i loro no! no! con tutti quelli che venivano a chiedere soldi, o a offrirsi di darli. Puoi immaginare le conseguenze. Le assillanti richieste sono cessate ma in compenso, brutto compenso, il posto ha cominciato a essere frequentato da tipi poco raccomandabili. Sono scoppiate risse, verificate rapine, qualche accoltellamento, una sparatoria persino e la gente qualsiasi ha smesso di venire. Il business si era improvvisamente inceppato. I proprietari hanno continuato a tenere duro, non hanno venduto, alla fine però sono stati costretti a chiudere. Per salvare la pelle, credo. Sono passati gli anni e non si è visto più nessuno a tentare di rimettere su il locale. Poi, un giorno, circa un paio di anni fa, il traffico è ricominciato. Gente nuova, gente diversa, ma ancor meno raccomandabile di quella di prima. Questi di adesso fanno la loro apparizione di tanto in tanto, se ne stanno fermi alcune ore non so a far che cosa, cerco di non impicciarmi, e tornano a sparire. I risultati  di quelle apparizioni sono tali che l’unico desiderio che suscitano e tenersene lontano…

Sì, pensai. Magari l’avessi fatto anche io…

– Voglio dire, – concluse l’ometto, – non sei il primo che trovo nel tuo stesso stato… ogni tanto capita. Per lo più però si tratta di gente che viene a sbronzarsi in santa pace, senza che qualcuno venga a rompere le balle. Però a volte… – Ebbe in brivido. – Lasciamo perdere questi discorsi. Per essere uno che abita da queste parti, ho parlato sin troppo.

Cercai di mettermi in piedi. Non ce la feci.

– Mi puoi dare una mano?

Venne a darmi una mano. Non appena fui in piedi però mi lasciò andare e disse:

– Adesso tocca te…  mettici la buona volontà… se ne sei capace e vuoi aiuto, seguimi.

Lo seguii. Non avevo ancora appreso a non fidarmi degli sconosciuti, accettavo ancora le caramelle. Ma, peggio, che mi poteva capitare? Procedetti barcollando verso il corrimano e mi ci abbrancai. Ansimai per un po’ e procedetti verso le scale circolari che portavano al livello dell’acqua. Esitai nell’imboccarle. Una bufera di nausea e vertigini rischiò di travolgermi. Femminuccia! pensai. O piuttosto finsi di pensarlo. Per spingermi in avanti, al basso del livello mare, unica meta che le circostanze mi concedevano di concepire. Il dolore era tornato invasivo e tremendo. Sedetti sul primo gradino e attesi che passasse la bufera.

– Ehi, tu! Attento che ti addormenti! – udii sollecitare da sotto.

Mi frugai le tasche. Non trovai le cinquanta promesse e neppure i pochi spicci di mio con i quali ero uscito. Imprecai. Miserabili! s’erano succhiati anche quelli! S’attaccavano a tutto, a ogni miseria, quando si trattava di noi poveri. I ricchi sono fatti in questo modo. Tra loro generosi (fingono) con noi autentici pitocchi (sinceri). Non ci perdonano niente. O anche una sola volta.

Sudando sangue e rancore ripresi a scendere. Impiegai non so quanto a completare le scale. Ero tutto rotto. Tutto un unico impasto di fitte e impedimenti. Ignorai le proteste del corpo, che avrebbe voluto mi sdraiassi per sempre e gradino per gradino percorsi il mio personale calvario, un calvario verso l’inferno invece che verso il paradiso. Un calvario in discesa. Giù, fino al largo spiazzo circolare in cui terminavano le scale; e fino agli ormeggi per le quattro case galleggianti che lo giustificavano. Tre erano momentaneamente vuoti. Il quarto era occupato da un barcone fatiscente sopra la quale era stato posto un cubo della medesima larghezza del barcone. Il cubo, diviso in due, un piano di tre per tre sopra, uno sotto, era l’abitazione del vecchietto. L’interno puzzava orrendamente. D’un puzzo diverso da quello del mio rifugio. Non di chiuso e di sporco. Di sporco anche, ma soprattutto puzzava di mare e di marciume, del tipico maleodorare delle lagune. Trattenuto dal sistema dei moli quello che un tempo era stato mare aperto aveva assunto l’andamento d’uno stagno e l’odore intenso del salmastro corrotto, a zaffate periodiche, ammorbava l’aria. Soprattutto lì dentro, nel cubo chiuso, nel quale si accedeva per una stretta porticina.

– Sdraiati e bevi questo, – invitò il vecchietto non appena entrai. Prese un flacone da un armadietto che sfoggiava pretenziosamente una croce rossa (avrebbe provocato le proteste persino di un pitale) e me lo diede da bere.

Bevvi. Mi sentii subito meglio. Meglio ancora dopo essermi allungato. Posai la testa sul cuscino e caddi in un nero deserto d’incoscienza.

Mi svegliò meno di un minuto più tardi (in realtà erano trascorse alcune ore).

– Adesso lavati e butta nella lavatrice gli abiti e anche le lenzuola, – mi invitò non appena aprii gli occhi. Avevo ripreso a vomitare e le lenzuola erano tutte lorde di vomito e sangue raggrumato.

– Che cos’era quello che mi hai dato?

Ero riuscito a porre i piedi in terra. E mi sembrava pure che il malessere, nonostante la sensibile odiosa sgradevole reazione dei muscoli a ogni movimento, si fosse sensibilmente ridimensionato.

– Un intruglio che viene dal Nord. Serve a rimettere in sesto i pugili e le vittime degli incidenti stradali…

– Yes! – esclamai sollevandomi. Era proprio quel che ci voleva. Vittima di un incidente stradale. Due Tir mi erano passati sopra e nessuno che si fosse preoccupato di prendere il numero di targa! – Ha del miracoloso…

Mi lavai.

Quando uscii dalla doccia la lavatrice aveva già fatto il suo dovere con i miei abiti. Nonostante si trattasse di un macinino con più di cinquantanni, non li aveva nemmeno troppo spiegazzati. Li indossai sotto lo sguardo scettico del buon samaritano. Probabilmente ammirava i muscoli, la struttura solida, da atleta. Una volta ero così. Tutti, una volta o l’altra, siamo stati così.

– In quanti erano? – chiese ridendo.

Scrollai le spalle.

– Due, – risposi. – Ma ne è bastato uno. Mani a badile. Grande quanto un armadio. Il cazzo d’un cavallo. Con lui ce n’era un secondo, altrettanto conformato, e una donna. Il primo colpiva mentre il secondo e la donna si davano alla pazza gioia. Gente così… poi hanno deciso che quei due centesimi che avevo in tasca erano pure troppo per uno come me e se li son presi. Hanno fatto un altro po’ di porcherie e se ne sono andati.

Fece ripetutamente segno di sì con la testa. Capiva.

– Ho sentito parlare di questo genere di cose. Gente con troppo danaro e troppo poco cuore per sapere veramente bene cosa farsene. Allora fanno cose così. Porcate…

– Li hai mai visti in azione?

– Dio ne guardi! Me ne andrei tutto in sciolta… sciolta libera!

– Quanto spesso succedono queste robe?

– Abbastanza spesso. Poveretto chi ci capita.

– Sono io quel poveretto. È successo a me, capisci? A ME. È questo è tutta un’altra cosa.

Scrollò le spalle.

– Lascia perdere. Scordatelo. Meglio che dimentichi…

– Mi puoi dare un altro po’ della roba di prima?

Me ne diede. Bevvi avidamente. Mi tirò ancora più su.

– A piccoli sorsi, – raccomandò. – Fa più effetto.

Aprì una bottiglia di una qualche porcheria alcolica e mi tenne compagnia.

Svuotato un terzo flaconcino andai a guardarmi allo specchio. Uno schifo. La faccia era tutta un livido, gonfia, ributtante. L’inventario evidenziò che avevo tre denti in meno e altrettanti spezzati. Ossa però non me ne avevano rotte. Un paio di costole però erano incrinate, facevano un male boia. Professionisti, valutai. Gente che sapeva come lavorare. Come infliggere il massimo della sofferenza senza provocare danni permanenti. Fossi andato a reclamare alla Forza non mi avrebbero dato retta. Troppi pochi danni per dilapidare il loro prezioso tempo su reati di così poco conto.

– Ora basta, – disse non appena accennai a allungare la mano verso l’armadietto. – Potrebbe farti male prenderne dell’altra in tempi troppo ravvicinati. E poi costa venti euro al flacone!

Feci tanto d’occhi. Quasi mi veniva un colpo. Venti euro! Ecco perché non se ne vedeva in giro!

– Te ne devo sessanta, allora!

– Non te ne curare. Me li darai…

– Dare? Neppure campassi cent’anni potrei.

– Oh! Lascia perdere!

Tornai a sedere sul letto. Il cervello intanto procedeva con il motore imballato. Dov’era la fregatura?

– Lascia perdere! – insistette lui. – Quel che ti serve è solo un lavoro. Un buon lavoro.

– Un lavoro da cinquanta euro?

Sollevò un sopracciglio con fare interrogativo.

– È quel che mi hanno offerto per indurmi a salire in macchina.

Ridacchiò. Ridacchiava spesso. Non gli succedevano certe cose a lui, se lo poteva permettere di sorridere. Doveva avere gente importante alle spalle.

– No, non si tratta di un lavoro di quel tipo. Un lavoro. E poi ne vale cento, non cinquanta. Un centone vero… al giorno, intendo.

Rifeci tanto d’occhi.

– Che tipo di lavoro?

Non rispose.

– Come te la cavi con le barche? – domandò invece.

– Non male.

– Saresti capace di portare quella su cui stiamo più in su di dove stiamo?

– Oltre il Circondario?

– Oltre la Città.

Tacqui. Più di cinquecento chilometri di costa, con la Forza che andava su e giù ad affliggere i poveri disgraziati che provavano a sbarcare il lunario. Un lavoro, lo chiamava?

– Ah! – esclamai dopo aver taciuto a lungo. Che altro avrei potuto dire? Che avevo bisogno di sentire il fruscio della filigrana. Il chiaro nitido dei biglietti di banca? Di vederla, palparla, spenderla? – Cosa c’è nella barca?

– Non ti interessa, – disse brusco. E per essere sicuro avessi inteso, aggiunse: – Non ti deve interessare.

– Cavolo! Non posso nemmeno sapere cosa rischio?

– Non devi sapere proprio nulla. Solo il quanto ti spetta e basta. E se quel che avrai in cambio è abbastanza da indurti a correre un certo numero di rischi.

Un brontolio di protesta si formò dentro (lì rimase). Un certo numero di rischi… Ma, rischi cosa? Anni? Decenni? Una seconda ripassata di botte? (Quella, la ripassata, se mi beccava la Forza, era praticamente sicura!). Non sarebbe stata una cosa da nulla per uno nella mia condizione. Rischiavo di restarci, mi fosse capitato a breve scadenza.

Tuttavia non rivolsi al vecchio nessuna delle domande che mi roteavano nel cervello. Sarebbe stato stupido, farlo. L’indisponibilità del vecchio era più che evidente. Il brontolio interiore però persisteva. Accennava a diventare aperta protesta. Basta fare il burattino, la foglia al vento, la pattumiera della società. Basta! Urlava dentro. Basta con questo schifo di realtà! Per metterlo a tacere me ne uscii a prendere un poco d’aria pulita.

Non appena sulla piattaforma circolare il fresco del venticello che spirava mi diede un altro po’ del vigore perduto. Per un momento contemplai la possibilità di fare la bella parte dell’ultraduro, di quello che se ne infischiava. Di ficcarmi le mani in tasca e andarmene. Ma avevo bisogno di guadagnare, di avere qualche spicciolo in tasca, di non saltare più i pasti, aver qualcosa da fare, di cui riempire il vuoto e non sentirmi più un inutile contenitore di rabbia. Non potevo permettermi di fare alcuna bella figura. La strada davanti a me era obbligata. Non una strada da eroe, una da vittima. Perciò piegare il capo e prendere quel che offrivano. Anche perché offrivano tanto. Offrivano in modo sospetto. Il fatto era che avevo un debito da pagare, e l’offerta del vecchio rappresentava l’unica possibilità di farlo.

Anche il mare, battendo contro la piattaforma, sempre e comunque, mi disse che era d’accordo. Prendere e non lasciare.

Il Datore di Miseria mi raggiunse sulla piattaforma. Si fermò mezzo passo dietro. Mi pose una mano sulla spalla. Provai fastidio a quel contatto, ma non tentai di allontanarlo.

– Il premio è di trecento euro. Cento euro al giorno per il lavoro più trecento se lo porti a termine positivamente. Se dimostri di saperci fare la possibilità di altri viaggi, per cinquecento o anche mille euro di extra.

Cosa cavolo, pensai. Vuole farmi credere che sarei presto diventato ricco?

Continuai a guardare verso il mare, le onde silenziose che si frangevano contro l’orlo della piattaforma. Delle carezze, erano. Non vere onde. Il silenzioso esaurirsi di una energia inesauribile che eternamente cercava un approdo. Il mare è così. Sotto placido immoto, la tomba del silenzio e della luce. Sopra tutto instancabilità e furori. Sostanza contro apparenza. Proprio come l’uomo, all’esterno apparenza e dentro sostanza. Fuori tutto vita e dentro un desolato precipizio di lacrime e morte.

– Il motore è come il resto della barca? – finii col chiedere.

– Il motore è a posto. Più che a posto. Puoi immaginarlo quanto è a posto.

– E se mi prendono? Se mi intercettano e cercano di abbordarmi?

– Ti arrangi. Improvvisi. Preghi. Affondi la barca. Fai quello che puoi fare. Stai tranquillo, non sarai solo. Non mandiamo mai nessuno solo, al primo incarico.

È roba proprio che scotta, conclusi nell’interno smemorato della trappola in cui mi trovavo. Una trappola senza apparenti vie d’uscita.

Non gli dissi dei miei dubbi (dovrei dire certezze?), gli dissi invece:

– Ho sentito che la Forza a volte non raccoglie coloro che affondano le barche. Che gli spara persino addosso, mentre si destreggiano tra le onde.

– L’ho sentito anche io.

Per la prima volta parlò in tono veramente duro. Per la prima volta non si fingeva amico.

– Guarda, che se non te la senti, per me va bene. Non mi devi niente, non ti devo niente. Sconosciuti come prima…

– Non si fa mai niente per niente, – obiettai. – Né si può tornare sconosciuti dopo essersi conosciuti. Si può diventare nemici, debitori o creditori, ma non sconosciuti.

– Non mi devi niente, – insistette. – Niente.

Il secondo niente risuonò sprezzante. Volutamente irritato e sprezzante. Mi dava fiducia offrendomi un lavoro delicato e ben pagato e io dimostravo di non saper apprezzare. Non gli dicevo né sì, né no. Gli rivolgevo solo obiezioni e domande. Domande e obiezioni.

Proprio in quel momento al largo passò un mezzo della Forza. Scivolava sull’acqua a grande velocità. Una ondata più alta delle altre colpì la chiglia e si polverizzò in spruzzi e pulviscolo salato.

Dovevo 60 euro al tizio alle mie spalle.

Mi voltai.

– Senti, – gli dissi guardandolo dritto negli occhi. – A me interessa soltanto trovare quella donna. Voglio soltanto trovare quella donna.

Restituì lo sguardo con uguale intensità. Percorso il mio viso in lungo e in largo. Mi lesse dentro. Non ebbe nulla da dire. Non altro che ripetersi.

– Scordatela. È meglio.

– Tu puoi aiutarmi? – chiesi.

Fece segno di sì con la testa, abbassandola più volte leggermente, con impulso leggero che realizzò un movimento quasi impercettibile.

– Forse, – disse subito dopo. Un forse che non bastava.

– Puoi fare questo per me?

– Sì, se hai preso il numero di targa dell’auto… anche se fosse riservato, ci posso arrivare.

Non l’avevo preso.

– Quando ci ho pensato era ormai tardi.

– Succede proprio così. Su questo contano…

Pausa. Aspettavo.

– Li conosci, vero? – domandai. – Sai chi sono…

Lo sentii ansimare. Immaginai la sua ansia improvvisa, il ritrovarsi con le spalle al muro, la necessità di aggredirmi, darmi il colpo di grazia. Non mi girai, però. Né mi irrigidii. Era importante restare tranquillo, per tranquillizzare lui.

– Io prendo quello che resta, quando resta qualcosa, – confidò. – Ma devo non saper niente di loro, se voglio restare fuori dai guai. Grossi guai. Ti assicuro che io personalmente non ho mai avuto a che fare con loro, ne so ben poco. Forse li conoscono i tipi che forniscono la merce a me. Io non gliel’ho mai domandato, anche perché non mi avrebbero risposto. E poi preferisco non impicciarmi. Quella gente mi fa venire i brividi. Non capisco perché ti ostini…

– Nemmeno io lo capisco.

– Quella donna è puro veleno. Lasciala perdere.

– Non posso.

Silenzio. Lungo, rispettoso silenzio. La parola spettava all’acqua, al dialogo perenne tra la terra e il mare. Lo sciabordio contro la chiglia della barca riempì i pensieri, li permeò di rassegnazione. La di lui rassegnazione. Il mio personale sollievo. In un istante di vertiginosa intuizione mi sembrò di leggere i suoi pensieri. Oh, il mondo era grande ma il cammino tra gli esseri molto breve. Si allontanavano e si avvicinavano, si scontravano e tornavano ad allontanarsi, ma una volta uniti dal destino era impossibili per loro separarsi definitivamente. Rivedrò quella donna! Trionfai nel corso di un abissale alterazione dell’istinto di sopravvivenza.

– Ho un amico che possiede una macchina per leggere il Profondo, – lo sentii dire. – Ti costerà quasi tutto il premio consultarlo.

Mi leccai le labbra.

– Che tipo è questo tuo amico?

– Uno che fila dritto. Niente trucchi. Rischia molto anche lui.

Finsi di pensarci. Non finse di credermi. Gli faceva comodo credermi, era l’esca per convincermi a collaborare, ma non mi credeva. Sapeva che avevo già abboccato, inevitabilmente preso.

– Allora? – chiese.

– Ci sto, – ammisi.

Ci stavo. Ci stavo perché non potevo evitare di starci, perché preso in un ingranaggio terrificante, più potente di qualsiasi volontà esteriore, tanto più potente in quanto irragionevole e cogente. Trovare quella donna era un che di essenziale, oltre che probabilmente esiziale. Era più importante che mangiare, bere, respirare. Più importante del rispetto che dovevo a me stesso. L’avrei ritrovata, avessi dovuto pagare non solo il prezzo della dignità, ma anche della stessa vita. Mi sarei fatto ridere dietro mille volte (il che era peggio che perdere la vita), battere di nuovo e cacciato in malo modo. Ma dovevo trovarla per dare il fatto suo a quella. Per sputargli in un occhio. La cosa più importante era tornare a tiro della supertroia e sputarle in un occhio. Perciò ci stavo. Per quell’unico vero obiettivo avrei portato fuori Città la barca del mio amico, qualunque fosse stato il prezzo da pagare. E Amen.

 

(segue  “La Città -3” mercoledì 19 luglio)

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

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