La Città – 4

di Mauro Antonio Miglieruolo

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(segue da “La Città – 3”, mercoledì 12 luglio)

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Senza Tempo III

Porca Città, vuoi la mia morte e sicuramente l’avrai!

Porca Città, un giorno ci organizzeremo per la tua morte e chissà, il tempo è galantuomo, finiremo con l’averla!

CINQUE

La Stazione di Forza era come tutte le stazioni di Forza del Circondario. Il solito tugurio nella solita periferia, con il videoterminale, il decifratore ad aura magnetica che nessuno sapeva usare, la doppia porta in fondo alla sala dei primi adempimenti, le facce perennemente incazzate.

Due porte ho detto. Per chi non è pratico: quella a sinistra si apriva sulle celle, quella a destra era riservata ai recalcitranti.

Voi forse oggi, ormai che sono stati superati i governi della libertà (la libertà dei ricchi) non sapete cosa significasse all’epoca quella parola di troppe lettere. O non sapete cosa significasse per un membro della Forza. Io però, sì, lo sapevo bene. C’ero entrato sin troppe volte in quella di destra. Ancora oggi, sulle ossa, ne porto i segni. Non tutti, però, sapevano.

Ce n’era uno di questi, ignari e recalcitranti, che blaterava scemenze sui diritti, sull’abuso che stavano commettendo, che non c’era alcun motivo di fargli la scheda, prendergli le impronte digitali e retiniche, il DNA, che voleva andarsene per i fatti suoi e altre assurdità simili. Il tecnico di servizio non gli dava retta. Formulava le sue cazzo di domande, sebbene avesse già a disposizione, nella memoria dell’Archivio Dati Ministeriale, tutte le risposte di cui fingeva di avere bisogno e le trascriveva introducendole in qualche altro collettore remoto. Completò i codici previsti, trasmise i dati statistici, gli anagrafici e al termine indicò col pollice la stanza di destra. Due tizi sovrappeso, grandi come armadi, si materializzarono alle spalle del poveretto e la trascinarono, ancora blaterante, nella direzione indicata. Il battente si aprì silenzioso e silenzioso si chiuse. Un silenzio a cui fecero seguito urla strazianti, urla tali che l’isolamento acustico della stanza non riusciva a contenere.

Il Capitano mi guidò dal tecnico e iniziò a bofonchiare tutto ciò che sapeva su di me, con l’aggiunta di ciò che gli conveniva sapere.

– Metti, – disse al tecnico, – Antonio Tittalleva, nato il… sei quattro centoquarantadue presso la locale Clinica Senzatetto… disoccupato, senza fissa dimora, proveniente dalla Terza Regione, Primo Distretto, Centoventinovesima Circoscrizione… imputazione: fuori area di appartenenza privo di permesso… ha cercato di farci fessi… controlla in archivio se abbiamo dell’altro…

Di là intanto continuavano a urlare. Il tecnico imprecò figlidiputtana! Sarà mille volte che gli dico di imbavagliarli! Non mi ascoltano mica! Madonna! Non si riusciva a lavorare in pace! Continuò a borbottare finché il videoterminale gli fornì la risposta.

– Ah! Ecco… vediamo… AZ 01… l’identificazione… sissignore, esatto… Antonio Tittalleva, 06.04.2042… terzo, primo, centoventinove… AURA MAGNETICA: POSITIVO… ma guarda un po’! chi l’avrebbe mai detto! Un buon cittadino! Complimenti, ragazzo, mi congratulo! Ed ecco il resto… BZ 02… precedenti… fiuuuuh! Quanta roba! Guarda guarda, un vero stinco di santo…

15.06.2051: Riunione Sediziosa, Oltraggio, Resistenza                  6 mesi

12.12.2056: Danneggiamenti, Furto Aggravato                              19 mesi  –  contumace

21.04.2057: Blocco Stradale                                                            10 mesi  –  contumace

06.09.2058: Violazione del Coprifuoco, Propaganda Sediziosa     22 mesi  –  contumace

Dal 06.09.2063 al 05.02.2066 per le condanne accumulate detenuto nelle carceri del Primo Distretto; soggetto a Sorveglianza Speciale dal 06.02.2066 al 05.02.2070. Null’altro…

– È abbastanza, – commentò il Capitano. – Non ha pendenze, in compenso leggo ottimi precedenti. Che gli vogliamo dare?

Intanto avevano portato fuori, a braccia, il tizio dei diritti violati. Non si vedeva nulla di ciò che gli era successo, salvo un incauto incipiente gonfiore a lato degli occhi e un filetto di sangue che gli usciva dal naso. Una cosa da niente a guardarlo da fuori (dentro doveva essere tutta un’altra cosa), ma tremava tutto e non aveva più voglia di parlare dei suoi diritti. Una mano santa, la porta di destra. Sempre le porte di destra sono una mano santa. Bolzaneto docet.

– Sentiamo prima lui… vuoi andare anche tu di là? – chiese con fare compiaciuto l’addetto al Computer. Si sentiva in vena di spiritosaggini.

– Vorrei, se fosse possibile, – risposi, – aggiustarla qui.

Il tecnico strizzò l’occhio al Capitano.

– La sa lunga l’amico, – commentò. – È uno istruito, pratico, positivo… – E giù una sghignazzata. – Che ne dici, Capitano?

– A me bastano cinque punti.

– Anche a me, allora. Te la cavi con poco, amico. Firma qui.

Mi porse un foglio di carta in cui c’era scritto, senza mezzi termini e senza imbarazzi, che avevo cercato di sottrarmi al fermo e all’identificazione. Una volta abbrancato però non avevo opposto resistenza. Meno male che non avessi opposto resistenza. Meno male che cinque punti gli bastavano.

Firmai.

– C’è chi con roba come questa, – riprese il tecnico, in tono virtuoso, in tono di virtù offesa, – pretenderebbe di farci anche 20 o 30 punti. Gente tarata. Un po’ di orgoglio professionale bisogna avercelo, no?

Il Capitano convenne. Io convenni. Il tecnico convenne con se stesso e fummo tutti quanti felici e contenti.

 

SEI

– Sono cresciuto, padre, – annunciai entrando.

Sollevò il naso dalla striscia bianca sulla quale stava sniffando. Sussultò. Non se l’aspettava. Non volevo se l’aspettasse. “Cazzo!” lo udii esclamare. Un po’ della polverina si sparse nell’aria.

– Vai a fare in culo! – gridò subito dopo riconoscendomi. – Ti sembra questo il modo?

Mi sembrava quello il modo? Sì.

– Un’altra volta innesta la serratura magnetica, così nessuno ti sorprenderà in flagrante.

– I guardiani che fanno? Dormono?

– Si fanno i cazzi loro. Camperanno a lungo, ritengo. Sanno vivere. Comunque non ne ho visti in giro. Né saggi, né scriteriati. Sei sicuro di averli nel libro paga?

– Vattene, stronzo. Lasciami in pace.

– Prima i miei soldi, poi l’andare. Una settimana di gattabuia a cento al giorno, fanno settecento; trecento di premio e sono mille. Tu mi dai questi mille, meno i sessanta che ti devo e me ne vado.

– Che c’entro io con la tua settimana al fresco?

– Perché credi ci sia andato? Per cambiare aria? O invece per mandare in porto l’operazione sporca per la quale mi hai ingaggiato? Un centone al giorno uguale settecento. In tutto mille. Meno sessanta fa novecentoquaranta, pronta cassa.

Mi rivolse un gesto di esasperazione.

– Va bene, avrai i tuoi mille.

– Novecentoquaranta…

– Ok, novecentoquaranta… cosa credi? lavoro pulito io…

Ok, lavorava pulito. Almeno quella era la sua convinzione. Mi dava la sospirata mercede e riteneva di essere a posto. Non pensava minimamente che avrebbe dovuto avvertirmi. E che avevo rischiato molto più della settimana scontata.

Beh, non ero d’accordo che bastavano i mille per rendere il tutto OK. Intascai i soldi e glielo feci intendere.

– Mi avevi fatto una promessa…

– Sì? – fece stranito, non ricordando. O fingendo di non ricordare. – Che promessa?

Lo chiese tanto per chiedere, perché già pensava alla striscia di polvere bianca a cui si affrettò a riaccostare il naso. Aspettai che finisse. Finì e commentò:  – era roba proprio buona!

– Buona per chi?

– Per chi la fiuta, per chi altro allora?

Avevo le mie idee in proposito, ma le tenni per me.

– Ne vuoi un po’?

– Un’altra volta, magari. Ora ho una questioncina da sistemare.

– Un’altra? Ma quante cazzo di questioni hai da sistemare? Hai i tuoi mille, no? L’equivalente di sei mesi di lavoro! Che altro ti serve?

– La storia delle lettura del Profondo, ricordi?

Aggrottò la fronte. La spianò. Sorrise.

– Adesso che lo dici… ma stai ancora dietro quella storia? Ma è acqua passata, ormai, roba vecchia, son trascorse più di due settimane, di che vai in cerca? Cosa pensi di poterne ricavare? Non puoi fare niente credimi, quello che hai avuto te lo tieni, niente vendetta. Rassegnati, oppure finirai per cacciarti in un mare di guai. Cazzo! Quella è gente pericolosa! Mooooolto pericolosa…

– Non è la vendetta quella che cerco, – dissi. – Voglio solo guardare bene in faccia quella puttana, guardarla dritta negli occhi e sputarci nel bel mezzo.

Mi guardò lui dritto negli occhi. A lungo. Mi guardò e parve volermi chiedere qualcosa. Quel che vide lo convinse a desistere.

– Affari tuoi, – commentò distogliendo lo sguardo.

Già. Affari miei. Dovevano restare tali. Rimase in silenzio per un po’, guardando fisso in terra, pensoso. Poi tornò a guardare me, con intensità. Mi mossi a disagio sulla sedia. Dentro però continuavo a restare duro, chiuso nella mia determinazione. Ribollivo, ma niente usciva fuori. Niente. Neanche il più piccolo gemito. Tuttavia non potevo nascondere la tensione. L’ansia. Non del tutto. Qualcosa filtrava. Quel qualcosa bastò. Lentamente l’espressione dell’altro si addolcì, recuperò parte della sua smarrita umanità. Mi sembrò di leggere sul suo viso un che di somigliante a un moto di compassione. Odiai anche lui allora. Del tiro che mi aveva giocato non mi importava granché, potevo perdonargliela. La pietà no, era imperdonabile.

– Va bene, – consentì… se è quello che veramente vuoi… fatti trovare domani alla colonna 7 degli Elevatori in Discesa di Istman. Intorno alle nove, possibilmente.

– Per le nove, va bene…

Mi alzai per andarmene.

– Non è roba per te, quella, – volle aggiungere seguendomi con lo sguardo mentre procedevo verso l’uscita. – Convincitene.

Chissà perché, quell’assurda frase, del tutto fuori luogo, mi provocò una stretta al cuore. Il mio povero cuore che, al pari dell’inconscio, se ne infischiava altamente delle mie certezze.

E ignorava spietatamente ogni sorta di torti e di ragioni.

SETTE

Il tecnico dal quale mi portò il Mio Datore di Galera era un tipetto insignificante, un autentico mezzemaniche, piccolo, magrolino, occhialuto, in vena di spiritosaggini e immerso nella disperazione di voler apparire quel che, in quella vita, non avrebbe mai potuto essere. Un tipo in gamba. Testa però ne aveva. Un gran testone a pera dal quale partivano verso la bocca, quando si ricordava di essere un esperto, ogni tipo di frasi intelligenti. Il problema era, cosa che valeva per quasi tutti i suoi contemporanei, che raramente si atteneva al merito della sua più autentica natura. Sempre e comunque sottoposto a quello che il contesto gli suggeriva dovesse essere. E fanculo a quel che era!

AVETE FUMO? Fu la prima frase che gli uscì di bocca non appena fummo alla Sua Dimessa presenza. Il leggero tremito alle mani, che non riusciva a controllare, non prometteva niente di buono. Lo guardai in faccia un solo istante e poi non più. Non solo perché piccolo e bruttino, non si radeva da almeno sei giorni, ma per l’espressione di assoluto vuoto esistenziale che vi lessi. E pazienza, fosse stato vuoto di suo. Ma il tizio si era volutamente svuotato, per non aver nulla a che fare con se stesso e diventare insensibile rispetto alle atrocità del mondo. Un brivido mi colse. Avrei fatta la medesima fine? Ero sulla buona strada, la strada di milioni e milioni di miei simili destinati a quell’unico allucinante approdo. Io però no, non ci volevo arrivare. Me lo proposi e ancor oggi, lo ammetto, me lo sto proponendo.

– Che te ne fai del fumo? – chiese il mio Virgilio, dal basso della sua più involuta corruzione. – Credi non si veda che sei strafatto di un po’ di tutto?

– Lo ero, vorrai dire! Sono almeno dodici ore che ho esaurito le scorte e comincio a entrare in crisi di astinenza.

– Da quando ti conosco sei sempre in crisi di astinenza… e poi perché chiedi fumo quando avresti bisogno di roba in vena?

– Un po’ di fumo non si nega a nessuno, no? Vale poco ma è sempre meglio di niente.

– Non è che invece mi stai chiedendo qualcosa di più sostanzioso?

– Una mezza specie…

Ci sarebbe stato da ridere, ma il mio personale Virgilio la prese a male. Imprecò.

– Che cazzo di mente distorta, voi intellettuali… va bene, te ne farò avere un po’, ma solo dopo che avrei fatto il lavoretto del quale abbiamo parlato.

– Lavoretto? Lavorone! Mi dovrò fare il culo per arrivarci.

– Senti, poco chiacchiere: quanto chiedi?

– Prima dammi quello che hai in tasca.

– Non ho niente in tasca per te…

– Come? Neppure una cartina?

– Piantala! Dimmi quanto vuoi.

Il tecnico imprecò. Affanculo! mi sembrò di udirlo bofonchiare. Tuttavia dovette rassegnarsi. Rassegnarsi e sparare.

– Cinquecento… – sparò infatti.

– Non essere avido! È un prezzo da amico quello che devi farmi.

– Lo sono avido. Cinquecento più un paio di dosi di roba forte. Uno regolare ne chiederebbe almeno il quadruplo. Anche sul mercato nero, non meno di mille…

– Te ne do trecento, più le due dosi. Non fare il furbo con me, so quanto vale il tuo lavoro. Non ho intenzione di farmi spennare.

– Fare il furbo? Spennare? Ma se solo la protezione mi costa il 60% di quello che incasso! E dove le metti le spese di manutenzione e il consumo energetico…

– … che rubi…

– Alla fin fine cosa mi avanza? Una miseria! Senza contare i pericoli che corro! Non so proprio chi me lo faccia fare a continuare questa vita!

– È l’unica che puoi fare, bimbo. A parte il Succhiacervelli che nascondi nello sgabuzzino delle scope, non hai null’altro da offrire. Dai, contentai. Trecento vanno più che bene.

Anche sul prezzo il tecnico dovette rassegnarsi. Sospirando si rassegnò. Prese le sue lirette e baciò ripetutamente le Banconote prima di farle sparire.

– Buone, brave, benedette… – disse intascandole. Ci rivolse poi cenno di seguirlo. Lo seguimmo. Entrò in bagno e poi nel vano doccia. Il vano doccia ruotò in senso orario-antiorario un paio di volte. Quando tornò al suo posto l’interno era vuoto.

– Adesso tocca a noi…

La doccia ruotò e mi ritrovai davanti uno stretto corridoio fiocamente illuminato. Dal fondo del corridoio il tecnico mi sollecitò a uscire. Uscii e il gabbiotto poté nuovamente ruotare. Ruotò e sbarcò l’ultimo membro del terzetto. Attraversato il corridoio ci ritrovammo tutti e tre in un ambiente ampio, reso angusto da un miscuglio inestricabile di apparecchiature elettroniche e materiali edili, componenti di plastica, matasse di cavi, sacchi di durium, pannelli anecoici e indefinibile altro. Erano forse i residui di un possibile progetto di ampliamento. Alle pareti invece diagrammi, luci stroboscopiche, fiori artificiali ed enormi otto sdraiati

che oltre a costituire il logo del gruppo clandestino (probabilmente si consideravano scienziati, pur essendo solo spioni), fungevano da cornice per evidenziare i gusti sessuali di chi li aveva collocati.

In ognuno dei due cerchietti del simbolo dell’infinito erano state inserite, di volta in volta, varie gigantografie. Registrai con piacere quella di Messalina Mex, l’ultrasex cantante lirica; e quella dell’altrettanto micidiale attrice porno Angelica Eden, ambedue debitamente nude, si capisce; apprezzai assai meno l’ingrandimento da 1 a 8 del pene dell’immortale Concetto Equino, alfiere dei neovittoriani, insieme alla riproduzione 3D del sesso di un cavallo in piena erezione. C’erano anche iperbolici simboli fallici collocati sul pavimento e che terminavano a circa due metri d’altezza. L’interno dei falli era stato scavato per ospitare contenitori di supporti audio-video. Al centro del locale, unico tocco di edonismo, un condizionatore d’aria fingeva di pompare aria fresca ossigenata (se ne udiva il ronzio), ma con scarsi risultati.

L’insieme era squallido, in palese stato di abbandono. Probabilmente da anni nessuno vi faceva le pulizie, per cui l’interno oltre che sporco, caotico e polveroso risultava anche deprimente.

Che tana! Valutai con severità, sentendomi pervadere da un principio di claustrofobia. Spazio per i cristiani, in tutto quel caos, non ne restava. Salvo che per stare in piedi tra una apparecchiatura e l’altra o sdraiarsi sul divano annesso al Succhiacervelli.

– Adrano, – sussurrò il mio ex-Datore di Miseria, – …Adrano è lui, – indicò il tecnico, – ha scoperto questo stambugio alcuni anni fa. Sembra che qui lavorasse un gruppo filogovernativo prima della caduta del Berlusconi XV, l’ultimo primo ministro con licenza di delinquere. Si è trattato di un colpo di culo formidabile. Pensa è collegato con la Telematica di Stato, perciò ha l’accesso a tutte le informazioni dei Servizi Segreti! Inoltre, tramite il Terminale accanto al Succhiacervelli può servirsi della RAM e Memorie di Massa dell’Elaboratore Eurasiatico, ottenendo velocità e livelli d’efficienza formidabili. Naturalmente deve stare attento. Il sito risulta ancora assegnato a un gruppo operativo autonomo, ma se a qualcuno venisse in mente di fare dei controlli…

Non mi interessava la storia della vita di Adrano. Mi interessava quel che sapeva e poteva fare.

– Possiamo cominciare? – chiesi.

Potevamo. Adrano mi indicò il divano, esortandomi a sdraiarmi sopra. Ottemperai e un minuto più tardi ero ricoperto di elettrodi, anelli metallici (fronte, polsi, torace, cosce, caviglie) e impulsi luminosi. Cazzo! esclamai, scostumato, vagamente inquieto, rammentando le immagini, diffuse dopo la caduta di Berlusconi XV, sulle raffinate torture di regime. In che mani ero capitato? Speravo tanto non si trattasse delle solite.

La preoccupazione durò il tempo che occorse a formularla (meno di un secondo). Subito dopo caddi in stato di coscienza sospesa. Cioè, come addormentato. E però vigile, consapevole di quel che andava accadendo. Nello stesso istante in cui scendevo verso l’inconscio, l’Elaboratore iniziò a vagliare nel deposito pressoché infinito dei ricordi quelli che corrispondevano alle condizioni di ricerca ricevute. Individuò il tempo approssimativo in cui erano state impresse, le selezionò e cominciò a riorganizzarle, seguendo una logica tutta sua per tradurle in immagini. La mole di dati iniziale era enorme. Affidati all’Elaboratore E vennero ridotte drasticamente. L’Elaboratore ne operò la selezione stocasticamente in tempo reale e continuò a manipolarli finché non arrivò ai risultati di prima approssimazione, che condensò in olografie cromatiche.

Il procedimento era durato un minuto. Trascorso il minuto, nel corso del quale mi venne aspirato tutto il l’aspirabile, il Succhiacervelli mollò la presa e mi concesse di tornare all’integrale me stesso dei sessanta secondi precedenti. Un me stesso appena un po’ stordito e con una violenta sensazione di intimità violata.

– Guarda, – invitò il tecnico non appena riaprii gli occhi. – AMMIRA.

Guardai senza ammirare. Non ero in vena. Al momento non ce n’era neppure il motivo…

Quel che occorreva ammirassi era uno globo asimmetrico di luce nera, all’interno del quale si agitavano sinistre figure. Alcune di essere erano mere macchie informali di luce bianca, o dai colori vivaci; oppure ombre attorcigliate in continua dissolvenza. Altre, molto rare, assumevano forme il cui unico significato poteva essere accostato all’orrore e all’incubo.

Trascorsero un altro paio di minuti, poi l’Elaboratore gracchiò qualcosa in tono assolutamente impersonale e difficile da decifrare, che comunque riuscii a interpretare:

– Ricostruzione Primaria… – mi sembrò dicesse.

All’interno del globo nero si condensò una creatura mostruosa piena di denti e di teste. Tra le zampe teneva un animaletto che squittiva impaurito. Lo sprimacciava come un cuscino. Avrebbe dovuto sfrangerlo, considerate le reciproche dimensioni e l’energia che il mostro adoperava, ma l’animaletto sembrava di gomma. Si agitava, si torceva, urlava, eppure continuava a vivere e a prenderle.

– Ricostruzione Secondaria A – tornò a gracchiare l’Elaboratore.

Il mostro tutto denti e teste fu sostituito da un enorme drago sulla cui groppa ominidi antropofagi banchettavano allegramente con resti umani. I particolari macabri del banchetto erano volutamente messi in evidenza, spesso con primi piano sanguinolenti. Rabbrividii. La prima ricostruzione metteva in evidenza la paura; la seconda era puro ribrezzo.

– Ricostruzione Secondaria B…

Il drago disparve e comparve un cavallo gigantesco sul quale faceva bella mostra di sé un magnifico felino bello e minaccioso. Il felino teneva in bocca una grossa preda. Si trattava di un bambino. Mi sembrò di riconoscerlo. Aveva qualcosa di familiare. Il bambino non sembrava spaventato. O meglio, lo spavento non era in grado di superare il fascino che la bellezza dell’animale suscitava in lui. Il bambino infatti, invece di agitarsi e invocare soccorso, girava il capo per contemplare il suo carnefice, mortalmente affascinato dalla grazia delle linee e dalla implacabile ferocia che emanava.

– Ricostruzione Definitiva… approssimazione del dato richiesto al 98%, – concluse a quel punto l’Elaboratore.

L’immagine mutò radicalmente. Sembrò barcollare, quasi si trattasse di una ripresa guidata da un ubriaco. Comparve e scomparve. Venne messa a fuoco e tornò velata, più e più volte. E all’improvviso trionfò con la chiarezza di un film ad alta definizione.

L’intero diametro del globo fu occupato da un immenso deserto. Sabbia, dune e calore che si perdevano nella lontananza. Nel cielo nemmeno una nuvola. Il sole allucinava basso sull’orizzonte. Scivolando all’indietro lentamente il paesaggio mutò, la sabbia fu sostituita da una spianata di cemento e il calore dal silenzio. Un vasto agghiacciante silenzio (né case, né rilievi, né persone). Il silenzio fu rotto dal ronzio familiare di una potente auto cellulare che condensò diventando forma, una cacatina di mosca errante ai margini dell’orizzonte. Il rumore si spense, come privo di forza, restituendo la scena alla desolata quiete iniziale. Nel rinnovato silenzio l’automobile procedette senza meta apparente, senza apparente criterio. Andava incontro all’osservatore e se ne allontanava. Scompariva oltre l’orizzonte e tornava a riapparire. Attraversava il campo visivo da destra e sinistra e da sinistra a destra. Sempre in quella sua fantasmatica, allucinante assenza di rumore. Infine sembrò decidersi, proiettandosi con decisione verso l’osservatore. Fu lo stesso che spalancare una porta invisibile. Il rombo del motore, spinto al massimo, irruppe clamorosamente, accompagnato dallo stridii dei freni. Si arrestò alla distanza apparente di pochi passi dal margine della visione. Lo sportello sparì e mostrò il vuoto interno. Non c’era nessuno a guidarla. Solo del fumo vorticante sul sedile posteriore. Lentamente il fumo condensò nel corpo di un uomo insanguinato, rantolante. Altri versi si sovrapposero ai suoi. Versi inequivocabili. Versi osceni. Versi ridicoli…

La macchina scaricò l’uomo sul cemento e con accelerazione istantanea riprese la sua folle corsa. Disparve, questa volta definitivamente, oltre l’orizzonte.

Il suo posto fu occupato da una targa ipertrofica che, proveniente dal fondo dell’orizzonte, si posizionò in prima piano. Sotto la targa un indirizzo.

Esattamente l’indirizzo che cercavo.

 

(segue “La Città – 5”, mercoledì 26 luglio)

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

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