La Città – 5

di Mauro Antonio Miglieruolo

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(segue da “La Città -4”, mercoledì 19 luglio)

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OTTO

Entrai (per modo di dire). Entrarono le gambe, entrò il corpo, la mente rimase chissà dove, spersa negli oscuri meandri dei suoi ininterrotti turbinosi assilli. Entrai senza rendermi conto di quel che facevo. Non mi sentivo, non ero più uomo, ma automa.

Vidi Venere seduta su una poltrona, le gambe accavallate, tutta in sé, nel pieno della sua bellezza e non capii più nulla. Mi fissò senza battere ciglio, sorridendo vagamente. Mi osservava, la bastarda. Si divertiva, compiaciuta dai miei imbarazzi, in attesa tranquilla degli eventi, apparentemente quieta indifferente.

Anche io la guardai. O meglio, ne registrai la presenza, incapace di pensare a alcunché di coerente di là dalla sua augusta bellezza.

– Dovrei ammazzarti, – articolai a fatica, imbecillemente, perché dicendoglielo già le annunciavo che non l’avrei fatto. Quel condizionale mi diminuiva. Annunciava sì un’opinione, ma per negava l’intenzione. Il limite insormontabile a cui mi condannava la mia totale assenza di palle. Avrei dovuto farlo, ma non potevo, mi era proprio impossibile. Un’ammissione di impotenza che equivaleva a un’ammissione di debolezza nel carattere. Una specie di baco nella volontà.

Piegò la testa di lato e mi fissò in un modo che mi fece sentire idiota. Sorrise.

– Puoi sempre prendermi a schiaffi, se ritieni che lo merito…

Non era andato a cercarla io, era lei che mi era piombata addosso, con tutto il peso dei suoi vizi e un carico di turpitudini. Io me ne stavo per i fatti miei, piangendomi addosso e lei aveva fatto in modo che ne avessi ben donde!

Diedi un passo in avanti.

– Vuoi sfogarti un po’? fai pure, sono sola, nessuno te lo impedirà.

Mi smontò, irrimediabilmente. Restai come un fesso, come quello che sono, totalmente deprivato della capacità di connettere. Dire, fare, pensare… vuoto assoluto, dentro. Con la sua quieta acquiescenza, ma ancor più con la sua pacata accettazione di se stessa e delle eventuali conseguenze, mi aveva scombinato, fatto tornare bambino. Avevo molto da imparare sul mondo. E ancor più sulle donne. E prima ancora su me stesso.

Non avevo null’altro da fare lì che rendermi ridicolo. A quel punto non restava che andarsene. Mi voltai per andarmene.

– Ma tu non sei venuto per picchiarmi, vero? – aggiunse la donna, non appena le fui di spalle. – Non certo per vendicarti…

Capii allora che non potevo andarmene. Almeno non più. Ero legato dalla voce, dalle parole, alla sua presenza. Ero legato dal sottile filo della speranza.

– Tu non sei veramente arrabbiato, – continuò. – Hai solo voglia di scoparmi.

Ah, ecco! Mi dissi. Allora è questo! infatti… Era tutto lì, in quella verità imprescindibile. Nel desiderio che mi rodeva. E lei che me la gettava in faccia la verità per poter continuare a bastonarmi. Per continuare a infierire su di me. Per essermi contro, implacabilmente, beffardamente nemica. Non sarebbe mai stata dalla mia parte. Mai! Mai!

– Puoi farlo, se vuoi. Non mi dispiacerà, credimi. Non sei un brutto ragazzo.

Tornai a voltarmi, per guardarla in faccia. Adesso le sputo in mezzo agli occhi, articolai silenziosamente, con rabbia. Ma in quegli occhi mi persi. Per un attimi accedetti a una profondità inaudita, intuii più che vedere, sentii invece di criticare. Un brivido mi attraversò la schiena. Fui per inginocchiarmi e dichiarare il mio amore. Per un istante mi abbandonai al destino, non pensando, non giudicando, non pretendendo che l’essenziale di quel mio essere vivo nella possibilità d’incontro con un altro vivente. Quell’istante si consumò e ricacciato indietro, all’esteriorità comune a tutti gli esseri, tornai al mero delle apparenze. Incontrai il suo sguardo e mi resi conto che mi stava soppesando. Con freddezza, senza passione. Si interessava a me con il medesimo carico di attenzione di un allevatore di cavalli o un giocatore di poker. Sì, potevo farla divertire. Possedevo un buon fisico e una sufficiente carica di passione…

– Fai attenzione, però. Non ti sbagliare. Non sono ricca, una ricca annoiata. Mi pagano per fare quello che faccio. Non è che mi stia solo togliendo gli sfizi. Perciò, se vuoi approfittarne, approfittane. Questo momento è tuo, ma dopo niente più. Per sempre. Ho degli obblighi io, cosa credi?

Annuii. Una volta, anche una sola, andava bene.

– Hai capito quello che ti ho detto, testone? Ci divertiamo un po’ e poi sconosciuti per sempre.

– A te piace il tuo lavoro, vero?

Un velo di tristezza cadde sul suo volto. Rapido come un lampo venne e si dissolse. Sospirò.

– Dai, vieni se devi venire. Avvicinati, non fare tante storie…

La voce improvvisamente gli era diventata calda, di un tono leggermente più basso.

Non mi mossi di un millimetro.

Disaccavallò le gambe. Pigiò un pulsante e istantaneamente la poltrona diventò letto, sul quale poté allungarsi. Si stiracchiò voluttuosa. Schiuse con intenzione le cosce.

– Non la fare tanto drammatica, – invitò per l’ultima volta. – Vieni che stai morendo dalla voglia!

Andai. Qualcuno qualcosa mi disse dentro “non andare” io però andai ugualmente. Non potevo smettere di andare. Non dopo che lei, per via misteriose, s’era liberata del vestitino e si mostrava nella sua nuova lucente veste di Venere appena sorta dalle acque. Tutto di lei mi attirava. La bellezza e la determinazione con cui cercava di realizzare il suo proprio destino, la luce che emanava dall’abbagliante nudità e il fosco problematico del suo mistero. Mi attirava lei e la promessa di perdizione che da lei spirava.

Non appena fui abbastanza vicino mi attirò con prepotenza e con la disinvoltura che la lunga abitudine gli concedeva mi dispose a suo piacimento. Di qua, di là e sopra e sotto, in bocca, con le mani, che maniaci voi uomini con queste tette! adesso basta con le cosce, però! sali un po’ su, ti aspetta il Paradiso e se ti sbagli di qualche centimetro, non fa niente, viene pure meglio. Non ti ha insegnato niente, mammina? Su, non fare il bambino, lascia stare l’ombelico!

Cosicché scoprii quanto fosse versatile e perfezionista, oltre che la puttana. Quanto abile e volenterosa. Si esibì con me nel suo meglio, o in quello che credeva fosse il suo meglio. In quel che riteneva fosse l’essenziale della sua natura: una sacerdotessa del sesso. Ne esercitò le funzioni ieraticamente, con intensità, quasi si trattasse di un rito, di perdersi nella preghiera, piuttosto che dell’approdo al piacere. Perdendosi (o guadagnandosi) in numeri incredibili, ostentando di volgersi in direzione dell’incontro ideale e che si trattasse di ottenere l’applauso di un pubblico piuttosto che della nostra reciproca soddisfazione (deformazione professionale, immagino).

Noi due soli eppure tutto il mondo dentro a guardare. Versatilità era il suo motto. Arte fine a se stessa. Ogni posizione divenne esercizio atletico, divenne scultura, divenne bellezza, divenne lo scopo della scopata e non viceversa. Feci l’amore con dieci femmine, non con una. Dieci diverse Madonne. Dieci differenti Veneri. Una donna inconcepibilmente diversa da quella vista con la coppia di gorilla, selvaggia e svergognata, il giorno del pestaggio sul molo;  composta, misurata, controllata in ogni suo gesto, antitesi vertiginosa di quella intemperante sofferta nel corso del nostro primo incontro… spudorata, esigente l’una, trepida, quasi timida, nella semplicità del più puro essere donna l’altra… eppure amorosa, prodiga, imprevedibilmente interessata al mio benessere… e languida, appagata… viva e vitale… curiosa del sesso, quasi fosse al suo primo accesso… si incantò infatti a contemplarmi in erezione, quantunque fossi nella più ordinaria delle ordinarie normalità… e così via… sempre incantevole e affascinante, si mostrò con l’intera gamma di sfaccettature che le era possibile attuare. Quando però volli imprimere una svolta personale alle grandi manovre e l’afferrai per, a mia volta, praticare il su giù destra sinistra avanti dietro, tornò nel duro freddo cinico dei suoi momenti peggiori (a momenti perdevo l’erezione), articolando un glaciale, dispotico: – non darti arie, belluomo! Qui si fa quello che dico io, chiaro?

Sembrava irragionevole, dispotismo esagerato, ma c’era una sua ragione. Solo che la scoprii molto tardi. Per il momento lessi solo quel che volevo leggere, un tondo, arrogante prendi quelli che ti si dà, è meglio…

Assì! Ché se me la dava, era soltanto perché gliel’avevo chiesta, sana beneficenza; e se pure aveva deciso di essere gentile con me, non acquisivo alcun diritto, a parte quello di dir grazie e, se del caso, di godere!

Buono ragazzo! Si continua a recitare a soggetto, nella migliore tradizione porno… Quel che era Madonna, la migliore attrice porno della Città e dintorni!

Cosicché, alla fine, nonostante il piacere (lo ammetto, venne elargito a piene mani), non mi restò in bocca altro che l’amaro di quella gran recita; io estraniato da me stesso, disperato, il corpo da una parte, l’anima dall’altra, il pensiero che formulava stanchi qui mi si sta prendendo per il culo, nonostante che magari fossi io quello attivamente impegnato nella bisogna; nonostante anche le dolcezze di Madonna, le sue carezze sulla nuca e sì sì caro, bravo continua così, veri e di maniera. Io con l’amaro in bocca, il corpo con il dolce del piacere… il corpo disse basta e si accasciò privo di energie nervose, speranzoso di non essere cacciato dalla casa e scacciato dalle profondità in cui stava tanto bene.

Fu pietosa. Non mi cacciò. Non disse hai avuto quel che volevi, vattene. Poteva succedere, ma non successe. Attese paziente buona che uscissi da una specie di mezzo sonno ansimato, la coscienza rapita nella vertigine della ricerca del sollievo e infine mi diede una scossa.

Aprii gli occhi. Sorrideva sardonica, del suo peggior sorriso feroce. La stessa ferocia, sulla labbra nelle parole e negli occhi, con cui aveva dato via al pestaggio.

– In fin dei conti non mi ero sbagliata nel giudicarti, – udii che diceva con impegno. – Mai mi sbaglio nel giudicare un uomo. Basta un’occhiata e so quel che uno vale. Tu non vali nulla, ma proprio nulla. Come tutti i maschi civilizzati di oggi, oscilli tra i due opposti: il coniglio e la macchina per fottere. Il corridore e il pistone. Buoni per la riproduzione e niente altro!

Stavo ancora dentro di lei e stavo bene. Non le badai. Non mi voleva cacciare, ma neppure farmi star bene. Non era il caso di darle retta.

– Non me ne sono neppure accorta, quando sei venuto. Cosa sei, stitico?

Aveva ragione, anche se lo diceva solo per farmi arrabbiare. Non le avevo dato quasi nulla. Esclusivamente rabbia, dolore e disperazione. Nulla di me, teso com’ero alla ricerca di lei, della sua approvazione. Era stato con sofferenza che ero venuto. Digrignando i denti, stretto i pugni e con la pena segreta per l’esito infausto di tutto quell’affannarsi e rincorrere il piacere. Non avevo dato nulla a lei e neppure a me stesso. Il corpo però aveva avuto quello che s’aspettava e gli mancava da tanto e ciò mi doveva bastare. Non mi arrabbiai, perciò. Attesi gli eventi, sebbene ci fosse ben poco da attendere, in quanto tutto era già deciso, tutto segnato. Un gioco truccato la mia vita.

Sorrisi. Mi atteggiai a superiore. Purtroppo non lo ero e lei sapeva come non lo fossi.

– Su un punto però mi sono sbagliata. Nel valutare quanto poco valessi. Poco sì, ma non tanto poco. Venire a leccare la mano che ti ha bastonato! Mio dio! Ma sei proprio senza coglioni! Altro che coniglietto: un cagnolino sei, un cagnolino senza coraggio e privo di dignità!

Strinsi i denti. Ci stava riuscendo. Mio Dio, sì: ci stava riuscendo!

– Sei stato menato e preso per il culo. E pure adesso che continuo a prenderti per il culo te ne stai lì, sorridendo come uno scemo, incapace di alcuna reazione. Sembri un morto!

Non ero un morto, perché lo sentivo ancora ben vivo in lei (e pure lei lo sentiva). Ero però pieno di vergogna. Vergogna per la mia debolezza; vergogna perché le permettevo ancora una volta di manovrarmi, perché giocavo il suo gioco sebbene sapessi che sarebbe stato in pura perdita.

Mi vergognai e mi odiai a tal punto che arrivai ad accettare che le mani scivolassero dai seni verso il suo collo, verso il suo lungo collo da cigno, del quale accentuava le linee sollevando il mento, quasi m’invitasse: vediamo quel sai fare, uomo. Se hai ancora le palle, o le hai perse del tutto!

– Povero, povero Antonio, – compatì guardando scettica, le palpebre abbassate, vedendo e non vedendo le mani che avevano abbandonato i seni e scivolavano lentamente su, verso dove le invitava ad andare.

Non capii più nulla. O meglio, accettai di non capire nulla, per poter fare come Madonna comandava. Lasciai perdere il collo, mi tirai su a cavalcioni del petto, perdendo il morbido rifugio tra le sue gambe e iniziai a colpirla sulle guance. Due, tre, dieci volte, schiumando, digrignando di nuovo i denti, ansimando. Odiando.

Odiavo me per come le permettevo di guidarmi; e odiando lei perché non mi lasciava altra alternativa che quella dell’infamia: o strozzarla o batterla.

Continuai a colpirla, senza che lei protestasse. Continuai finché una voce dentro interrogando perentoria che stai facendo? mi costrinse a tornare al rispetto che dovevo a me stesso, alla mia dignità di uomo. Smisi di colpirla, appannato da un violento senso di disdoro, di atroce viltà.

Nei suoi occhi tuttavia non lessi paura, dolore o rabbia. Avrei detto stesse ridendo…

– Hai belato, piccolo. Forse adesso puoi anche ruggire… provaci, almeno.

Pronunciò le parole ansimando, gli occhi lucenti, irraggiando sensualità e approvazione.

– Sì, – dissi. – Sì, ruggire…

La colpii di nuovo, altrettante volte. Ma in questa seconda serie non si limitò a subire. Iniziò a ululare a dimenarsi, a graffiare. Graffiava dappertutto, sulla braccia, sulle cosce, sui lombi, ovunque riuscisse ad arrivare con le sue unghie affilate da gatta. Graffiando gridava “ancora! ancora!”; ed io ancora e ancora, finché me lo concesse. Perché a un certo punto mi attirò a sé e pretese di avere un nuovo rapporto, di farglielo come mai nessuno glielo aveva fatto. Non badai a nessun mai e nessun impossibile. Feci come pretendeva. Le andai sopra e tentai di contentarla come potevo, mentre a sua volta, mi tormentava meglio che le riuscisse.

Tormentare però non più la mia vanagloria di maschio, tormentare il corpo, al quale sottrasse ogni possibilità residua di vero piacere. Non più solo graffiando, ma anche picchiando, a pugno chiuso e mordendo. Senza smettere di incitarmi a fare del mio peggio, fece il suo. Mi morse gli omeri, morse sulle guance, alla base del collo e poi il collo, tanto che temetti volesse succhiarmi il sangue. Non lo succhiò. Si limitò a leccarlo. Fu allora che, credo, per qualche minuto, inferocito a mia volta dal dolore fisico, approdai al più forte! più forte! Che con insistenza reclamava, al livello che le sue esigenze abitudini usi e costumi dovevano ritenere adeguato. La scopai come pretendeva. Non per questo smise di graffiare, anzi, si accanì, fece scorrere dell’altro sangue…

All’ultimo rise. Una risata folle che annunciò l’imminenza del suo benedetto orgasmo. Lo ebbe e non rise più. Si dimenò come una biscia. Lo cercò di nuovo, rise e lo ottenne. O ridere la conduceva all’orgasmo, o l’orgasmo esigeva un preludio di risa. Rise così tanto in un continuo sempre più  ravvicinato che perdetti la possibilità di rendermi conto del succedersi delle sue estasi. Assistetti inebetito ai fuochi d’artificio. Uno spettacolo indimenticabile (infatti non l’ho dimenticato) ed anche coinvolgente, che mi obbligò, letteralmente mi obbligò ad avere il mio. Dopodiché smisi di rendermi conto di quel che succedeva, persi consapevolezza del dolore medesimo e le crollai sopra, sudato e disfatto.

Riemersi a fatica, tossendo, dalla follia in cui mi aveva cacciato. Lei mi carezzava teneramente, contenta di me.

– Bravo, – sussurrò. – Stai imparando come fare…

Continuò a carezzarmi un altro e po’ e mi diede il benservito che temevo.

– Adesso devi andare…

E poiché la fissavo smarrito si degnò di aggiungere:

– In questo posto sono ospite. In tutti i posti sono ospite. Un giorno di qua, un giorno di là, domani chissà… la vita della zingara. Finché rendo, però, è una bella vita. Dai, prendi la tua roba e vattene.

Mi alzai.

– Ecco, – aggiunse. – Ti dovevo cinquanta, no? Ecco, cinquanta più cinquanta fanno cento. Prendi.

Non le presi.

– Non fare lo stupido. I soldi non sono miei. Prendili.

Non le volevo. Le presi. Mi faceva bene farmi male. Punirmi, darmi quello che pensavo meritassi.

Mi vestii.

– Guarda che sei fortunato, – commentò come volendo consolare. O scusarsi. Non so. – Sei molto fortunato.

Non specificò il perché. Non poteva. Dovevo arrivarci da solo. Fortunato perché me ne andavo con le mie gambe? Per così poco? Non le credetti. M’era difficile considerarmi fortunato. Neppure dopo essere stato con quella perla, per una volta concessa ai porci. Cioè a uno che neppure dopo un miliardo di anno avrebbe riavuto la possibilità di avvicinarla di nuovo. Tuttavia non riuscivo a considerarmi fortunato. Nessuno che riceva il ben servito lo è. Non telefoni, le telefoneremo… fortuna del cazzo!

– Non fare quella faccia, – insistette. – Guarda che mi dispiace…

Lo disse bene. Parve persino ansiosa per il troppo dispiacere e la necessità d’essere creduta. Mi chiusi la porta alle spalle, piano piano, mentre lei continuava a dispiacersi. Senza risponderle. Senza chiedere né dare spiegazioni. Sapevo che non l’avrei rivista più. Inutile spiegarsi, inutile insistere,

Non mi toccava. Mai le cose veramente buone toccano ai poveri.

In questa città maledetta, che è poi un riassunto del mondo, non c’è speranza per chi è povero. Ed è povero chiunque non sia in condizione di vivere sulla povertà degli altri.

 

(segue “La Città -6”, mercoledì 2 agosto)

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

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