Migranti: bugie, criminalizzazione e affari d’oro

Quattro articoli (da il manifesto, Dinamo Press, Sport alla rovescia) più due link. Fa scuola l’Italia, ma dalla Grecia alla Spagna sono molti i Paesi europei che hanno scelto la via autoritaria.

Criminalizza e diffama. Le nuove politiche migratorie

di Francesco Martone (*)

«I tentativi in corso volti a limitare le operazioni Sar da parte di Ong rischiano di mettere in pericolo migliaia di vite, limitando la possibilità che le imbarcazioni di soccorso possano accedere alle acque prospicienti la Libia. Campagne di diffamazione contro i difensori dei diritti dei migranti e Ong e la loro criminalizzazione contribuiscono ulteriormente alla stigmatizzazione di migranti e rifugiati rafforzando la xenofobia in Italia». È il testo di una comunicazione inviata a novembre dello scorso anno al governo italiano da molti Relatori speciali Onu, tra cui quello sui difensori dei diritti umani, Michel Forst, e quello sui diritti dei migranti, Gonzales Morales. Dal governo non è mai arrivata nessuna risposta.

Sia Forst che Morales erano stati precedentemente in visita accademica in Italia. Il secondo a ottobre scorso, al SabirFest di Palermo, per partecipare alla presentazione del rapporto del Transnational Institute (Tni) di Amsterdam sulla «Restrizione degli spazi di agibilità per chi pratica solidarietà con migranti e rifugiati». L’istituto di ricerca internazionale collega da 40 anni esperienze legate ai movimenti sociali, accademici impegnati ed esponenti politici. Nel dossier indica le responsabilità dell’Unione europea e degli stati membri nella criminalizzazione della solidarietà. Un fenomeno che va di pari passo con la securitizzazione delle politiche del governo e dell’Ue sul controllo dei flussi migratori. Non è un caso che la criminalizzazione della solidarietà subisca un’impennata dopo la fine dell’operazione di salvataggio dei migranti Mare Nostrum, condotta da marina e aeronautica italiana tra il 2013 e il 2014.

Tale strategia colpisce chi fa soccorso in mare, ma anche chi cerca di salvare vite a terra. Come nel caso di Helena Maleno, tra Spagna e Marocco, o di Cedric Herrou e delle guide alpine di Tous Migrants, tra Francia e Italia. Ci sono poi gli attivisti di Lesbo o quelli della «giungla» di Calais. Fino agli inglesi che hanno rischiato anni di carcere per aver bloccato un volo charter dall’aeroporto di Stansted, al reverendo Norbert Valley in Svizzera e a Felix Croft a Imperia. In Italia, gli ultimi in ordine di tempo a rischiare l’imputazione per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina sono Pietro Marrone, capitano della Mare Jonio, e Luca Casarini, capo missione di Mediterranea.

La delegittimazione della solidarietà non avviene solo in paesi governati da coalizioni costruite sul discorso nazionalista, anti-migranti e xenofobo, come la Polonia o l’Ungheria. Nella Spagna di Sánchez, la nave di Proactiva Open Arms è ferma all’ancora da settimane. L’ Olanda, dove nelle recenti elezioni i partiti sovranisti hanno aumentato i loro consensi, tiene bloccata a Marsiglia quella di Sea Watch con un cavillo legale. Nuovi attacchi a organizzazioni che praticano solidarietà arrivano da Lesbo e altre parti della Grecia di Tsipras.

Nella maggior parte dei casi attivisti e attiviste sono assolti o scagionati, ma i danni che scaturiscono dalle inchieste, in particolare dalla strumentalizzazione mediatica utile a creare consenso intorno a chi governa e ad attizzare l’odio razziale, sono sostanziali. Su questo punto è chiara la comunicazione dei Relatori speciali. Non è un caso, come riporta il Tni, che in almeno 10 paesi europei le denunce contro chi pratica solidarietà provengano da formazioni di estrema destra.

Alla fine chi soffre direttamente le conseguenze peggiori sono i migranti: dalla restrizione degli spazi di agibilità civica si è arrivati a una situazione di diniego e interdizione di praticare soccorso in mare e a terra. Diniego che corrisponde alla negazione dei diritti umani e della dignità di chi dovrebbe essere soccorso e messo in salvo e invece viene riportato al punto di partenza e finisce in un lager libico. O di chi si ritrova abbandonato per giorni in balia delle onde, in condizioni fisiche disumane e degradanti. O, ancora, di chi in mancanza di aiuto muore in mare o in montagna. Questa situazione configura corresponsabilità in crimini contro l’umanità, come denunciato nella sessione del Tribunale permanente dei popoli tenutasi a Palermo nel dicembre dello scorso anno. I risultati del lavoro del Tribunale sono stati resi pubblici recentemente in un evento al Parlamento europeo, a Bruxelles.

Un segnale chiaro per ricordare che la crisi dell’Europa è anche segnata dalla torsione autoritaria e securitaria contro i migranti e chi li soccorre. Toccherà a movimenti, ai cittadini e alle cittadine europee contrastarla. «Attraverso la disobbedienza civile e il sostegno dei diritti dei migranti, questa società rappresenta la vera e propria forza “costituente” di un nuovo progetto europeo decolonizzato, che si fonda su giustizia e diritti per tutti», dice il Tni. Ad oggi pare l’ultima possibilità per contrapporre alla «necropolitica» una vera politica della vita.

(*) articolo pubblicato sul quotidiano il manifesto

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Criminalizzare l’immigrazione serve al mercato della sicurezza

di Alessandra Briganti (*)

 

Rendere clandestina l’immigrazione ha un suo tornaconto. Spacciarla per emergenza e dichiararvi guerra, quel tornaconto lo fa lievitare in modo esponenziale. C’è un tornaconto politico, quello dei sovranisti che basano il loro consenso elettorale sulla distorsione del fenomeno migratorio e delle dinamiche complesse che gli sottendono. C’è poi un tornaconto economico, quello dell’industria della sicurezza che ha trasformato l’Europa in una trincea militarizzata: motovedette, droni, veicoli per la polizia di frontiera, telecamere di sorveglianza, sistemi biometrici.

UN GIRO D’AFFARI di 16 miliardi di euro con una previsione di crescita dell’8% all’anno. Insomma un mercato in piena espansione che aumenta al crescere delle tensioni ai confini. I dati sui flussi migratori ci raccontano però che il numero di migranti giunti in Ue nel 2016, uno degli anni record in termini di arrivi, corrisponde appena allo 0.25% della popolazione europea. Una percentuale troppo bassa per parlare di invasione. Per trarre dei profitti sempre più consistenti quindi è necessario alimentare l’idea emergenziale del fenomeno. In che modo?

LA PARTITA SI GIOCA su vari livelli. La ricerca, ad esempio. Nei progetti finanziati da programmi europei come Horizon 2020 le industrie del settore figurano a volte come partner. In tali progetti si inquadra l’immigrazione clandestina come una “minaccia alla sicurezza” che può essere affrontata solo con l’uso di adeguati sistemi di sorveglianza. Quelli forniti da loro, ça va sans dire. Società come Thales, Airbus, Leonardo (ex Finmeccanica) svolgono poi un’intensa attività di lobby a livello europeo direttamente e attraverso associazioni di categoria. Per dare un’idea: la European Organisation for Security e la Aerospace and Defense Industries Association of Europe, le due associazioni più attive su questo piano, hanno speso 600mila euro in attività di lobby nel solo 2015. L’obiettivo è fornire informazioni e possibilmente influenzare le politiche dell’Ue nel settore della difesa in generale e in quello dell’immigrazione, in particolare.
L’Europa si è mostrata particolarmente sensibile a questi richiami. Politicamente, l’Ue ne ha sposato la linea securitaria. Finanziariamente, ha destinato sempre più risorse alla gestione delle frontiere.

PER IL BILANCIO pluriennale dell’Ue (2021-2027) in discussione in questi mesi, la Commissione ha proposto di quadruplicare i finanziamenti per la gestione delle frontiere, portandoli da 5,6 miliardi per il periodo 2014-2020 a 21,3 miliardi per il periodo 2021-2027. Di questi 9,3 miliardi di euro andranno alla creazione di un nuovo Fondo per la gestione integrata delle frontiere (Integrated Border Managament Fund – IBMF), che raddoppia in sostanza il bilancio attuale del Fondo per le frontiere esterne e del Fondo per la sicurezza interna. Impietoso è anche il confronto tra la spesa destinata alla gestione delle frontiere e quella riservata alle politiche di asilo e dell’immigrazione, pari queste ultime a 11,3 miliardi di euro di cui la parte più consistente, il 40%, andrà a finanziare i rimpatri.

NEI PROGRAMMI della Commissione figura poi un ulteriore rafforzamento di Frontex. Il caso dell’agenzia europea della guardia di frontiera e costiera è forse il più emblematico del nesso tra fenomeno migratorio e industria della sicurezza. In poco più di un decennio il bilancio di Frontex è cresciuto del 5233%, da 6 milioni di euro stanziati nel 2005 a 320 milioni di euro erogati nel 2018. Un aumento che si spiega con l’ampliamento dei poteri e soprattutto della capacità di spesa dell’agenzia che si traduce in un’eccezionale opportunità di guadagno per l’industria della sicurezza.

NONOSTANTE la pressione dei flussi migratori sia in calo, la Commissione europea ha proposto di sestuplicare il bilancio dell’agenzia, portandolo a 1,87 miliardi di euro entro il 2027. Il che consentirà di incrementare il corpo permanente da 1500 a 10000 unità e di ampliarne il raggio d’azione. Negli ultimi mesi, infatti, Frontex è impegnata a concludere una serie di accordi di cooperazione per la gestione delle frontiere con i Paesi dei Balcani. Accordi che prevedono il dispiegamento degli agenti Frontex lungo la rotta balcanica e lo svolgimento di operazioni congiunte con tali Paesi. E qui veniamo a un altro importante capitolo della politica di sicurezza europea, l’esternalizzazione delle frontiere. Ossia il tentativo dell’Europa di trasformare alcuni Paesi terzi, per lo più dei Balcani e africani, in nuove guardie di frontiera in grado di arrestare i migranti lungo il cammino verso l’Ue.

L’EVIDENZA mostra però come questa soluzione, lungi dall’arginare il fenomeno, renda più pericolose le rotte percorse dai profughi e più alto il numero dei morti. Spostare le frontiere esterne lontano da casa nostra fa sì che la tragedia umanitaria si consumi lontano dai riflettori mediatici al punto da renderla invisibile. Esternalizzare le frontiere poi comporta un’ulteriore crescita del mercato della sicurezza. Molti Paesi non europei specialmente africani ricevono donazioni e finanziamenti per l’acquisto di attrezzature e dispositivi di sicurezza che aumentano le capacità di sorveglianza delle frontiere. Anche in questo caso l’Europa ha fatto dell’immigrazione il cardine delle politiche di sviluppo verso tali Paesi.

INSOMMA, quando li aiutiamo a casa loro è principalmente per tenere fuori i migranti da casa nostra e per aumentare i profitti dell’industria europea della sicurezza. Una politica di sapore coloniale che riporta la Storia indietro di secoli.

(*) articolo pubblicato sul quotidiano il manifesto

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De jure e de facto. La reclusione etnica in Italia

di Gaetano De Monte (*)

«Cosa accomuna un hotspot, il ponte di una nave e una comunità di prima accoglienza per minori?». A chiederselo sono le centinaia di pagine del libretto Norme e Normalità. Standard per la privazione della libertà delle persone migranti, il quale contiene tutte le raccomandazioni che l’ufficio del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale ha inviato ai governi italiani negli anni che vanno dal 2016 al 2018. Presentate giovedì scorso nella sala Igea dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana, «le Raccomandazioni, così come gli Standard sono uno strumento potente perché incidono non solo sul dover fare, ma sull’essere, sulla cultura che è alla base delle scelte e delle azioni», scrive Daniela De Robert nell’introduzione al volume. «Oggi lo mettiamo in circolazione affinché possa diventare patrimonio comune di una cultura dei diritti – continua De Robert – la detenzione amministrativa per le persone migranti è una realtà del nostro Paese, mentre non esiste un ordinamento che ne regoli le tutele, né una magistratura chiamata a tutelare su ciò che accade nei luoghi», di reclusione, a tutti gli effetti. Perché la storia recente degli ultimi due anni ci parla appunto, in molti casi, di permanenze prolungate negli hotspot, di detenzione vera e propria nei Centri per il rimpatrio (CPR) e, in alcuni altri, di attese improprie sulle navi senza poter scendere.

A cosa serve davvero la detenzione amministrativa dei migranti

La detenzione amministrativa delle persone migranti, in altri termini, la privazione della libertà personale quale conseguenza della mera presenza irregolare sul territorio dello Stato, pone, «sotto il profilo dei diritti fondamentali della persona umana, due questioni diverse». Secondo il professore di diritto internazionale Antonio Marchesi, la prima è la questione della legittimità stessa di tale detenzione, la seconda è quella relativa alle sue modalità. Perché, dice Marchesi che è anche il presidente italiano di Amnesty International, «le regole della detenzione amministrativa, applicandosi a un’ipotesi di privazione della libertà diversa da quella di chi è condannato per o accusato di un reato, non devono riprodurre regole analoghe applicabili nel contesto penale». In altri termini: «si deve invece tener conto delle finalità non punitive della detenzione amministrativa di persone migranti».

Pianeta hotspot, detenzione de facto

Tutto il contrario, invece, è avvenuto negli ultimi due anni. Sono le cifre fredde e ufficiali di una reclusione illegittima a dirlo. Secondo i dati del Ministero dell’Interno, sono entrati nel corso del 2018, in tutti e cinque gli hotspot attivi in Italia – Lampedusa, Pozzallo, Taranto, Trapani e Messina – 2002 minori stranieri non accompagnati e 698 accompagnati. Non soltanto. La permanenza media, in giorni, per un minore nell’hotspot di Lampedusa è stata calcolata in 4/5 giorni, più o meno la stessa media di trattenimento registrata per i minori “ospiti” dell’hotspot di Trapani, che poi è stato chiuso nel settembre del 2018. Ed è proprio il passaggio dei minori dagli hotspot, si legge nella relazione di quasi quattrocento pagine che l’ufficio del Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma ha presentato lo scorso 27 marzo al Parlamento, «che pone due elementi di criticità strettamente correlati all’accertamento dell’età, il quale in linea generale, è stato eseguito con il tradizionale metodo dell’indagine radiografica, insieme alla prassi sistematica dell’annotazione della data di nascita al 1° gennaio nei casi in cui non ne sia determinabile esattamente il mese e il giorno». Con il rischio evidente – aggiungiamo noi – di classificare come adulto un minore che compia i diciotto anni soltanto nel corso dell’anno, attenuando in tal modo la garanzia assoluta sui minori prevista dall’ordinamento. Si è scritto più volte su questo sito delle violazioni riscontrate all’interno del “pianeta hotspot”. Un rischio che, sempre stando ai dati forniti dal Dipartimento libertà civili e immigrazione, ha riguardato negli anni 2016-2017-2018 rispettivamente 65.295 richiedenti asilo, poco più di 40.000 persone nel secondo anno e poco più di 13mila stranieri presenti alle frontiere italiane nel 2018. Persone dalle nazionalità più disparate, come d’altronde è accaduto per i Centri per i rimpatri (Cpr) istituiti con la riforma Minniti del 2017, diventati con il tempo un vero e proprio esperimento di reclusione etnica.

I centri per i rimpatri: la reclusione per nazionalità

Alla fine dello scorso anno la rete Lasciateci entrare aveva segnalato le violenze avvenute nella notte tra il 13 e il 14 dicembre all’interno del centro per rimpatri di Bari (Cpr) «dove le persone versano in condizioni disumane, in cui sovente avvengono pestaggi e repressioni da parte degli ufficiali di polizia» e all’interno del quale «la scorsa notte circa 20 poliziotti hanno aggredito un detenuto, colpendolo ripetutamente con violenza alla testa con i manganelli». Sulla stessa lunghezza d’onda era seguita la denuncia degli avvocati della sezione pugliese dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), i quali avevano lamentato «l’illegittimità dei Cpr, strutture di detenzione amministrativa riservate esclusivamente alle persone straniere che, pur non avendo commesso alcun reato, vi si trovano detenute perché prive di permesso di soggiorno». Sempre da Asgi avevano spiegato: «è significativo che le proteste siano esplose a pochi giorni dalla conversione in legge del dl. n.113/2018 che, tra l’altro, ha prolungato il trattenimento in condizioni ordinarie all’interno di queste strutture sino a 6 mesi».

Anche stavolta sono i numeri forniti dalle stesse fonti ufficiali a spiegare il carattere punitivo alla base della detenzione amministrativa valida solo per gli stranieri – in questo caso sono le cifre della polizia delle frontiere alle dipendenze del Ministero degli Interni. In tal modo: delle poco più di 4mila persone transitate nei Centri nel corso del 2018, soltanto il 43% è stato effettivamente rimpatriato, mentre la durata massima del trattenimento oscillava tra i trenta giorni e i diciotto mesi. Dunque, una prova della mancata correlazione tra durata della privazione della libertà ed effettività della sua finalità. Ma non l’unica evidenza. Perché, infatti, la motivazione più frequente di uscita dai centri è stata per quasi un migliaio di donne e uomini stranieri, proprio la mancata convalida del trattenimento da parte dell’autorità giudiziaria.

In tutti casi il rischio ulteriore per il futuro è quello rilevato dall’autorità del Garante dei detenuti, cioè che dopo il decreto Salvini ogni luogo in Italia possa diventare un carcere per richiedenti asilo. E il riferimento qui è alla nuova previsione governativa, che prevede appunto «la temporanea permanenza dello straniero in strutture diverse e idonee, nella disponibilità dell’Autorità di pubblica sicurezza, fino a 48 ore». Ma non soltanto. La legge n. 132 del 2018 consente al giudice di «autorizzare la permanenza in locali idonei presso l’ufficio di frontiera, sino all’esecuzione dell’effettivo allontanamento e comunque non oltre le quarantotto ore successive all’udienza di convalida».

Di più. Mauro Palma aveva riferito inoltre che «si sta introducendo un nuovo modello di trattenimento che rischia di violare le garanzie di tutela della libertà personale, perché non vi sono contenute in primo luogo garanzie sui contatti delle persone con gli enti di tutela, i familiari, i legali». È un modello che viene da lontano ed è già usato nelle operazioni straordinarie di Frontex, aveva aggiunto il Garante, mostrando alcune fotografie scattate diversi anni prima in alcuni “locali idonei” dove erano trattenuti i richiedenti asilo siriani arrivati in Grecia. Quelle immagini ritraevano le persone detenute quasi accatastate l’un l’altra, in una sola stanza, con un solo bagno. È davvero questo il modello verso cui stiamo andando, quello dello stato di emergenza in base al quale ogni luogo di frontiera potrà diventare un carcere per stranieri? Luoghi di privazione della libertà per gli stranieri, dunque, de iure e de facto.

(*) Fonte: Dinamo Press

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La buona azione di Candreva

di Davide Drago (*)

In Italia siamo fatti cosi: altalenanti nei pensieri e nelle affermazioni. Se parliamo di calcio, nonostante sia lo sport più seguito e praticato in Italia, ci lamentiamo della quantità di soldi che girano e di quanto sia vergognoso questo aspetto. Eppure, siamo lì, continuiamo a guardarlo e ad arricchire le casse delle società andando allo stadio, comprando magliette a prezzi esorbitanti e acquistando il merchandising all’ultima moda.

Quello che però “l’italiano medio” attacca, non è sistema il calcio e tutto quello che ci sta dietro, bensì la figura del calciatore, paragonandolo a chi fa i lavori più umili e contemporaneamente inorridendo di fronte ai grandi compensi che percepisce.

L’attacco ai calciatori arriva diretto, soprattutto quando non vincono! E si parte con la solita formula dell’atleta “ricco, stronzo, possibilmente ignorante, strapagato per scendere in campo in maglietta calzettoni e correre dietro a un pallone”.

Non parliamo di rabbia sociale, quanto di indignazione. La prima la si sfoga a pugni, bastonate fuori gli stadi o a cori razzisti all’interno. È indignazione, spesso manifestata attraverso i social. Emblematico è stato l’attacco a Mario Balotelli, dopo il Mondiale 2014, quando sui social comparvero una quantità di insulti spropositati: “se usciamo al primo turno non puoi andare a comandare con il macchinone, anche a te spetta un’autoflagellazione”, per citare tra i più leggeri. E nel caso di Balotelli la colpa era doppia, ossia essere nero e ricco. Ma l’invidia sociale colpisce tutti i calciatori, di qualsiasi censo, perché agli occhi di tutti si è ricchi e basta.

Il problema, lo abbiamo scritto più volte, non sono i calciatori in sé, ma l’intero sistema!

Lo “sport moderno” è del tutto estraneo ai valori che ostenta, ne è la negazione più assoluta. È sempre stata attribuita all’attività sportiva, in ogni epoca e soprattutto da ogni governo, un’importanza grandissima, per la buona ragione che “intrattiene” le masse.

Secondo il sociologo francese Patrick Vassort, lo sport sviluppa in massimo grado i due parametri più odiosi del sistema capitalista: una ricerca senza scrupoli del massimo profitto e un’ideologia fondata sul principio del super-uomo, della forza e della violenza. La sua invadente ed universale onnipresenza, è capace di colmare il vuoto normativo dei nostri giorni, con una “ideologia pansportiva”, dove lo sport è simulacro del contenuto dell’era del vuoto.

Sport e capitalismo sono indissolubilmente legati: verso il successo ad ogni costo. Lo sport moderno è nato e si è affermato in un contesto storico e sociale che premia la cultura del successo: ne deriva una visione dello sport che sacrifica l’elemento del gioco in favore del risultato, che va raggiunto a qualunque costo, anche e soprattutto per gli interessi economici ad esso legati.

Di contro, sappiamo bene, quanto anche lo sport mainstream abbia la capacità di sviluppare le relazioni sociali, di essere fattore di comprensione internazionale e strumento di pace.

Nel loro “piccolo” anche i calciatori cercando di impegnarsi nel sociale. Sono tantissimi gli atleti che aderiscono a progetti di solidarietà o che quotidianamente si impegnano nel sociale. E qui scatta la psicologia inversa, il calciatore da brutto e cattivo diventa un eroe dei nostri giorni.

Proprio in questi giorni è balzata agli onori della cronaca la vicenda di una bambina di Minerbe. La piccola è stata costretta a mangiare, nella mensa della scuola, soltanto crackers e una scatoletta di tonno, perché i suoi genitori erano indietro con il pagamento della retta. La scelta sarebbe stata concordata tra i gestori della mensa e il Comune, di cui è sindaco il leghista Andrea Girardi, dopo inutili solleciti al pagamento verso la famiglia. È inutile giraci intorno, il sindaco, imitando il suo “capitano”, ha deciso di prendere questa scelta, impattante dal punto di vista d’immagine, anche per l’origine non italiana della famiglia della piccola.

Alle mancanze e alle scelte politiche delle istituzioni sono arrivati in soccorso gli amati-odiati calciatori e questa volta è stato Candreva a prendere la scena. Il calciatore non è nuovo a gesti di solidarietà, soprattutto nei confronti dei bambini. Candreva, in questo caso, ha telefonato direttamente al sindaco di Minerbe Andrea Girardi, si è fatto spiegare i dettagli della storia, e gli ha chiesto come muoversi per risolverla. Così, mentre le polemiche politiche montavano, il giocatore ha deciso di intervenire con un gesto semplice: pagare direttamente la retta della mensa per la bambina.

Ancora una volta, il calciatore ricco e odiato si è trasformato nell’uomo buono che risponde con i fatti al mondo della politica. Domani, probabilmente, tornerà ad essere lo stronzo ricco che guadagna un casino di soldi senza svegliarsi alle sei la mattina e tornare la sera a casa, dopo una dura giornata di lavoro.

Noi, invece, non cambieremo idee, continueremo in maniera coerente ad attaccare il “sistema calcio”, ad avere un occhio critico nei confronti di quello che accade dentro e fuori i campi da gioco, a raccontare i gesti di solidarietà senza farci ammaliare da essi, ma consapevoli del fatto che dal basso e con piccole cose si può iniziare a cambiare il gioco più bello del mondo e perché no, l’intera società.

(*) articolo tratto da Sport alla Rovescia

SUI VERI RAPPORTI FRA ITALIA E GUARDIA COSTIERA LIBICA E’ PREZIOSO QUESTO AUDIO: https://www.avvenire.it/attualita/pagine/esclusivo-la-verita-sui-respingimenti-in-mare

E ASCOLTATE QUESTO: https://video.repubblica.it/dossier/migranti-2019/migranti-i-profughi-cantano-con-mannoia-e-turci-nasce-we-are-one-il-video-dello-sprar/332488/333083

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