«La crisi, la rete e la nuova destra»

recensione di Gian Marco Martignoni a «Populismo digitale» di Alessandro Dal Lago

Il termine populismo è da tempo incontestabilmente al centro del dibattito politico, si moltiplicano le pubblicazioni, e non manca chi intende declinarlo a sinistra, sulla scorta dell’elaborazione del filosofo argentino post-marxista Ernest Laclau. Ma se non si vuole farsi catturare dalla sirene dell’idealismo, bisogna materialisticamente indagare le cause che hanno determinato l’ondata populista su scala mondiale, stante l’egemonia neoliberista, il ritorno a rapporti di lavoro di stampo ottocentesco, un indebolimento delle organizzazioni di rappresentanza del movimento operaio, il progressivo e vistoso spostamento a destra dell’asse politico, emblematicamente esaltato dalla sorprendente affermazione di Donald Trump nelle elezioni Usa del 2016. Fra l’altro il vertiginoso acuirsi della polarizzazione sociale, come Marx aveva ampiamente previsto, ha incrementato a dismisura le diseguaglianze economiche e di reddito, generando da un lato un dominio sempre più oligarchico della società e dall’altro un forte risentimento sociale, che per varie ragioni, dopo la vicenda traumatica del 1989, non trova forze politiche di sinistra consistenti e attrezzate per interpretarlo adeguatamente. Al punto che assistiamo a uno svuotamento degli istituti di rappresentanza, cosicché il primato assegnato alle tecnocrazie e agli esecutivi nazionali e sovranazionali – sulla base del parere sovrano dei mercati – ci consegna uno scenario che il sociologo Colin Crouch ha acutamente definito come post-democrazia.

Quindi, se – come ha rilevato il professore Jan – Werner Muller – «il populismo si configura come un’ombra permanente sulla democrazia rappresentativa», il recente libro del sociologo Alessandro Dal Lago «Populismo Digitale» (170 pagine per 14 euro: Raffaello Cortina editore) ovvero «La crisi, la rete e la nuova destra» ci permette di fare un altro prezioso passo in avanti nella comprensione del fenomeno, in quanto la sua analisi dei processi degenerativi – in corso – della convivenza civile e sociale mette a fuoco ciò che avviene in un ambiente, quello virtuale della rete, che una certa mitologia ha accreditato come «una sfera libera da condizionamenti» e conseguentemente regno dell’indipendenza assoluta dell’utente. Se si pensa, solo per fare due esempi, che Donald Trump ha un seguito di ventidue milioni di like su Facebook e il suo profilo digitale è condiviso, tramite Twitter, quotidianamente da venti milioni di persone, mentre Grillo su Facebook ne ha due milioni (e il suo blog già nel 2006 era al terzo posto dei siti più seguiti nel mondo) abbiamo una idea – nell’epoca della “postverità” – di quale potenza manipolatoria dispongano i nuovi leader emergenti nel rapporto con le loro comunità virtuali. E di come questa potenza manipolatoria sia in grado paradossalmente di incidere sulla realtà quotidiana e sulle decisioni politiche, attraverso la sguaiata e furbesca retorica dell’appello al popolo, proprio perché – puntualizza Dal Lago – «questa è l’essenza di ciò che si chiama populismo: parlare per conto di un popolo che non c’è». Inoltre, stante che la viralità è contagiosa, la matrice dei temi agitati dalla retorica dei movimenti neo-nazionalisti sorti in tutta Europa (da Salvini alla Le Pen, da Grillo all’AfD tedesca ecc) è comune: avversione contro la globalizzazione, odio nei confronti degli immigrati, antisemitismo, islamofobia, psicosi del terrorismo ecc. Quindi per gli imprenditori della paura la rete diventa il terreno fertile per sovreccitare gli animi, anche perché nella identità virtuale, che prende il posto di quella reale, viene meno qualsiasi remora nei confronti dell’altro da sé, favorendo in questo modo l’invocazione salvifica dell’uomo forte, con tutto quel carburante che ha dato la stura a nuove forme di autoritarismo non solo nell’Europa orientale. Infine, l’ultimo capitolo è dedicato a un succoso approfondimento di Beppe Grillo e del suo blog, nonché sulla «natura inquietante del M5S». Può sembrare eccessiva l’opinione di Dal Lago, che già nel 2013, in netta controtendenza con quanto sostenevano Paolo Flores D’Arcais, la rivista MicroMega e «Il Fatto Quotidiano», aveva pubblicato l’incandescente «Clic! Grillo, Casaleggio e la demagogia elettronica». Ma vale la pena di leggere l’ultima puntata sul nostrano «parafascismo digitale», per capire le ragioni della vertiginosa crescita dei suoi consensi. ,

Redazione
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Un commento

  • Daniele Barbieri

    Io penso che mettere Grillo e Trump in uno stesso “sacco” sia un errore di partenza. La definizione di «populismo» è molto/molto scivolosa; a mio avviso potrebbe adattarsi più alle pratiche di Macron o di Renzi che a qualche scemenza di Grillo (e “grillini”) letta in rete. Se poi vogliamo parlare di antifascismo, di islamofobia e di antisemitismo certo ci sono “5stelle” con le idee confuse ma nel PD (e persino in forze che in teoria si collocano un filino più a sinistra) a me pare assai peggio e si cambia idea ogni giorno. Per tacere della manipolazione quotidiana di “giornaloni” e tv (in Italia tutti con Renzi e C) o degli attentati alla Costituzione: altro che Grillo e la rete. Insomma quest’analisi non mi convince. E anche pensando che Grillo sia il “capo assoluto” e senza contraddizioni di tutto il M5S, per me metterlo insieme ai neonazisti tedeschi è una grande sciocchezza. Mi pare anche di ricordare che sono stati prima D’Alema e poi Renzi-Gentiloni a ficcarsi in tutte le guerre possibili o in accordi infami (vedi quello fra Minniti e un presunto governo libico). Né mi risulta che Raggi e/o Appendino siano in eccellenti rapporti con i fascisti dell’Arabia Saudita come i dirigenti (e purtroppo le dirigenti) del Pd. Spero che di queste tesi di Dal Lago – persona seria anche quando (secondo me) sbaglia – si possa discutere con gran serietà… anche in codesta “bottega”.
    PS: come sa bene chi mi conosce, io non sono nel giro dei 5 Stelle e su molte questioni sono in radicale disaccordo con quello che dicono e fanno (ma anche con ciò che NON dicono e NON fanno, pur se a mio avviso dovrebbero). Ma ho infinitamente più “paura” – fra virgolette e anche senza – del Pd “pigliatutto e pensaniente”. Quanto al «movimento operaio» (definizione oggi non così ovvia) che si indebolisce… per caso potrebbe essere colpa anche di certi suoi gruppi dirigenti e del suo modo di concertare?

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