La fabbrica delle notizie, un dossier

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Ecco, ho violato la prima ironica regola del perfetto giornalista, secondo «Prima pagina» di Billy Wilder: non iniziare mai un articolo con due punti. Nello stesso film c’è questa accusa: «I giornalisti. Un branco di analfabeti (…) che spiano dai buchi delle serrature e svegliano la gente nel cuore della notte per chiedere se hanno visto passare un bruto in mutande, che rubano alle vecchie madri le fotografie delle figlie violentate (…) e perché? Perché un milione di commesse e di mogli di camionisti ci piangano sopra. E poi, il giorno dopo, la prima pagina serve per incartare un chilo di trippa».

Wilder (per la precisione parlando dei suoi film più che di giornalismo) suggeriva: «se devi dire la verità, cerca di essere divertente, altrimenti ti stritolano». Non credo che un qualche Grande Fratello o Enorme Cugino perda tempo a stritolare la piccola e bella rivista che mi ospita ma in ogni caso obbedirò al saggio Wilder: cercherò di dire la verità (piuttosto brutta… ma a un certo punto darò anche un po’ di “buone notizie”) e di essere, ogni tanto, divertente. Ah, verità si scrive, a mio avviso, sempre con la minuscola. Questa premessa “personalizzata” sta violando un’altra regola del giornalismo: non scrivere in prima persona (e/o parlare di sé) salvo casi davvero straordinari. Penso però sia rilevante in questa sede che per lunghi anni della mia vita mi abbiano pagato (talora molto, più spesso assai poco) per fare il giornalista. Che è poi il mestiere più antico del mondo; e se invece il lettore Xy o la lettrice Wz ne sta pensando un altro… chissà, forse abbiamo ragione tutti e due.

Dunque ho in tasca una carta di identità dove sotto «professione» si dice «giornalista». Proprio come Emilio Fede. O come Milena Gabanelli e Marco Travaglio (mi sento un po’ meglio). Ma per me è più importante avere l’allegra tesserina di «giornalista Nip» dove la sigla sta per «Not important person», il contrario di Vip. E’ il riconoscimento del Cnca (ovvero il Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza) ai «redattori sociali». A fianco di un simpatico cagnetto si legge: «per una informazione sui forti che tiene conto dei deboli». Sul retro, il numero (io sono il 27) e poi due precisazioni assai interessanti. La prima spiega: «Essere “giornalista Nip” significa svolgere la propria professione senza far prevalere:

–        il cinismo della cronaca sui diritti fondamentali degli uomini e delle donne;

–        il punto di vista delle élites;

–        le regole dell’audience sul dovere di fornire anche un servizio educativo;

–        la pigrizia sulla curiosità».

Sembrano 4 indicazioni utili per tutti i giornalisti e non solo per quelli etichettati “sociali”. Eppure… Che dite, in questi tempi sono praticate? L’ultima indicazione è quella che più stupisce “i profani”:  eppure di giornalisti pigri (e/o ignoranti) sono piene le redazioni.

Ecco la seconda precisazione: «Chi possiede questa tessera si impegna moralmente a operare affinché sia pienamente applicato il diritto di ognuno a essere informato in maniera comprensibile, trasparente, obiettiva, completa». Ecco 4 aggettivi molto citati e poco frequentati, vi pare?

Si potrebbe discutere sul terzo aggettivo: a «obiettiva» (o al quasi sinonimo «oggettiva») preferisco «onesta»; perché l’obiettività è ben difficile, anzi lo schierarsi a volte appare obbligo etico. Non per questo bisogna essere bugiardi… In ogni caso l’obiettività si lega a certezze assolute mentre il vecchio Nietzsche ci ha già avvisato: «non esistono fatti, solo interpretazioni». E più di recente Paul Watzlawick (abbastanza amato qui al Cem)  ha rincarato la dose: «fra tutte le illusioni la più pericolosa è credere che esista una sola realtà».

In ogni modo: comprensibile, trasparente, obiettiva (onesta) e completa. Sembra un bel quartetto da cui partire. Fermatevi 30 secondi (ne bastano 2?) a riflettere se attualmente godete di un’informazione vincolata a questi 4 riferimenti.

Sempre il Cnca nel ’99 invitò a Capodarco per ragionarne un grande inviato, Ryszard Kapuscinski. La sua relazione e il dibattito che ne seguì sono nel libro «Il cinico non è adatto a questo mestiere» (il titolo forse vi stupisce?) edito da e/o nel 2000 o scaricabile da www.redattoresociale.it, sito che merita di essere tenuto d’occhio. Kapuscinski chiede al reporter sociale di rimanere immune da quella che lui considera una delle più gravi e diffuse malattie del nostro tempo: l’indifferenza. Questo morbo non alligna – si sa – solo nelle redazioni ma il tam-tam dei media può esaltarlo (o combatterlo).

CERCANDO UN ALFABETO

Forse vale tentare di riassumere in un “alfabeto” alcune questioni centrali dell’attuale giornalismo e i suoi rapporti (o non-rapporti) con l’etica.

Africa. Interessano solo le notizie che riguardano animali in pericolo, Aids, fame, malattie e guerre.

Autocensura. Vedi “tengo famiglia”.

Automatismi. Vedi “clichès”.

Bambi. Si racconta che a lungo nella redazione di un grande quotidiano statunitense fosse appeso questo pro-memoria: «Anche se ci sono le foto, non si può mostrare Bambi ucciso dai poliziotti».

Bufale. Ne girano tantissime, meglio premunirsi. C’è un utile  sito (www.attivissimo.net) anti-bufale, gestito da Paolo Attivissimo. Rispetto alla rete vale anche leggere, soprattutto dal punto di vista metodologico, «Leggende tecnologiche» di Lorenzo Montali (Avverbi editore).

Catena. Come in una fabbrica, l’organizzazione complessiva condiziona il prodotto finito. Qui all’origine c’è il controllo delle fonti. Il 90 per cento delle agenzie-stampa e delle società che si occupano di informazioni sono nei Paesi ricchi.

Censura. Più che i vecchi veti, le persecuzioni di singoli giornalisti, le forbici che tagliano via frasi o i governi che chiudono le redazioni… oggi funziona soprattutto la censura del mercato dove vigono regole che considerano di scarso interesse il bene “informazione indipendente”.

Clichès. «Sono convinto che non sono più gli avvenimenti che si compiono ma i clichès che si elaborano autonomamente (Karl Kraus, «Preso in parola»).

Concentrazione. Nel senso di tanti media in poche mani… Come dovreste sapere è esagerata. Va malissimo in Italia (peggio di noi solo la Thailandia?) ma anche altrove non va bene. Anni fa il giornalista Serge Halimi scriveva su «Le monde diplomatique» che, da sole, 360 persone controllano le stesse ricchezze di 3 miliardi. Perché si chiedeva notizie del genere circolano così poco? Perché quei 360 – si rispondeva – hanno comprato quasi tutti i giornali, le radio, le tv, le case editrici. (Vedi “terzo millennio”).

Cormorano. Quel povero uccello invischiato in una macchia nera (di petrolio) rimane il simbolo della prima guerra del Golfo… peccato sia un falso. Non ci sono cormorani lì in quella stagione ma in Irak come altrove volano molte bugie, 365 giorni l’anno.

Curiosità. «Nessuno di noi sarà mai in grado di produrre tanta curiosità quanta i massmedia ne soddisfano» ha scritto Christa Wolf.

Dettagli. «La notizia non è nel dettaglio. E’ un insieme. Cercare di vedere sempre quell’insieme è una precauzione utile» (Furio Colombo, cfr bibliografia)

Dibattito/1. «Un modo per controllare ciò che la gente pensa è quello di creare un dibattito tale da far credere che  in corso una libera discussione ma assicurandosi preventivamente che il dibattito resti all’interno di confini prestabiliti». (Noam Chomsky, cfr bibliografia).

Dibattito/2. La tortura è lecita? Un intervento a favore e uno contro.

Esperti. «In una società dell’informazione l’esperto sta ai cittadini come il capo-reparto sta agli operai di una fabbrica» ha scritto Sandro Portelli. Dunque non si può discutere con lui, neppure se ha torto.

Etica. Un aspirante diavolo viene inviato sulla Terra. Entra in una redazione per scoprire se qualcuno è interessato a “vendere” l’anima. E’ accolto da grandi risate: «fratello, sei arrivato troppo tardi». Mi sembra doveroso precisare che non sono autorizzato a rivelare la fonte di questo quasi scoop.

Gossip. Molte notizie sono ridotte a pettegolezzo e viceversa (il peggio in Italia viene dalla tv e da certi free-press).

Inconscio. Ci sono distorsioni non deliberate dove pesa non la malafede del giornalista ma il suo immaginario. Un esempio? Si vede solo quel che si conosce o ci si aspetta di trovare. Scoprire qualcosa di nuovo è difficile, faticoso… (Discorso lungo ma vale almeno accennarlo).

Identità segreta. I bravi giornalisti sghignazzano se dici che l’alter ego di Superman é Clark Kent. Ogni bravo giornalista (me compreso) crede di essere lui Superman.

Infotainment. Il neologismo unisce «information» ed «entertainment», indicando la mescolanza dei due generi. Una volta era tipico di radio e tv, ora regna anche in molta carta stampata. La notizia distrae dalla tetta o viceversa?

Memoria. Alcuni giornalisti soffrono di amnesie. Molti altri fingono.

Mezzo servizio. Sempre più giornalisti fanno altri lavori. Se è comprensibile per i collaboratori “esterni” (pagati pochissimo) lo è meno per gli “interni” con stipendi decenti o buoni. Non dedicare tutto il tempo possibile ad aggiornarsi, studiare e scrivere con calma significa – quanto meno – essere disinformati, che pare cosa scorretta per chi di professione dovrebbe informare.

Misteri. La stampa quotidiana in Italia perde copie ma i guadagni delle imprese editoriali aumentano.

Oroscopo. Ultimamente alcune persone, pur scettiche, lo considerano più credibile delle notizie.

Pubblicità. Occorre ricordare il crescente peso di inserzioni e spot nell’economia giornalistica? Se il giornalista Qh deve raccontare qualche malefatta di un inserzionista… si può star certi che sarà avvisato – cioè messo in guardia – per tempo.

Rettifiche. Per rettificare le bugie (o stupidaggini) più grosse i giornali troveranno forse uno spazio a pagina 24; radio e tv ne parlano, a volte, verso le 2 di notte.

Ritocchi. Si può far sparire un particolare scomodo (capitò anche a «il manifesto», di solito serio, con una foto dalla Palestina) o al contrario si può aggiungere (una troupe della mitica Bbc fu scoperta mentre in una via di Reggio Calabria buttava in terra lattine, profilattici e siringhe per rendere più “verosimile” la scena). L’esempio delle fotografie o delle inquadrature è quasi ovvio ma – pensateci un po’ – e capirete che questo brutto giochetto vale anche per la scrittura.

Rbt. Ovvero «reality-based television», la frase indica quei servizi in cui giornalista e operatore si accordano con polizia (o pompieri o forze armate) per accompagnarli durante “le operazioni”. Dà un’aria di molto vero. In realtà sono quasi sempre i servizi più costruiti, talora letteralmente inventati. Del resto lo sbarco dei marines statunitensi in Somalia venne ripetuto perché la tv non era pronta.

Sound Bite. Ovvero frasi di pochi secondi, estrapolate (cioè isolate dal contesto). Se avete un discorso abbastanza lungo, con il taglia-e-cuci potete far dire a chiunque quel che vi pare; in apparenza … dandogli la parola.

Spettacolarizzazione. Se la notizia è solo merce, tutto è lecito. Il dibattito etico seguirà dopo.

Spot. «Un newyorchese a 18 anni ha già visto circa 350mila spot» calcola il sociologo Michael Hawaka.

Stranezze. Spulciare le agenzie per trovare qualche notizia insolita (un bancario che morde un lupo sarebbe l’ideale): non importa se è una bufala. Maggiore sarà il rilievo dato alla stranezza quotidiana tanto più quel giorno ci sono notizie da “tener basse” cioè celare in articoli invisibili. Se proprio una stranezza non c’è, si può fabbricare…. Qualcuno ha ribattezzato questo giornalismo «armi di distrazione di massa» (vedi anche la voce «infotainement»).

“Tengo famiglia” (autocensura). Non prendersela mai con i potenti di qualsiasi genere (sesso, religione e nazionalità) se non quando crollano rovinosamente. Sfogarsi con i pezzenti e i capri espiatori di turno. E’ un vizio antico ma oggi in molte redazioni viene indicato come virtù.

Terzo millennio. Dal punto di vista dell’informazione, il secolo nuovo si è aperto con la mega-fusione, il 10 gennaio 2000, fra America Online, leader dell’accesso a Internet, e il gruppone Time-Warner-Cnn-Emi.

IL FASTIDIO DEI  FATTI

I fatti sono testardi (anche se vanno, quasi sempre, interpretati e contestualizzati), a volte dirompenti. Quando sono scomodi per i potenti la cosa migliore è eliminarli. Per questo Marco Travaglio ha pubblicato un libro intitolato «La scomparsa dei fatti» (cfr bibliografia). Nella premessa, ben 3 pagine sono dedicate a chi nasconde i fatti. Si inizia così: «C’è chi nasconde i fatti perché non li conosce, è ignorante, impreparato, sciatto e non ha voglia di studiare, infornarsi, aggiornarsi». E si chiude con: «C’è chi nasconde i fatti perché è nato servo e, come diceva Victor Hugo, “c’è gente che pagherebbe per vendersi”». In mezzo, altre 31 ragioni. Almeno due vanno citate, anche a integrazione dell’alfabeto qui sopra. «C’è chi nasconde i fatti anche a se stesso, perché ha pura di dover cambiare opinione» e «C’è chi nasconde i fatti perché altrimenti ci tolgono la pubblicità».

E ora interrompiamo questo fosco quadro per darvi alcune (poche?) buone notizie sull’Italia. Veloci, come flash.

Ci sono ancora giornaliste/i in Italia con il cervello slegato e alcune testate (fra cui il manifesto) che non dipendono da potenti lobbies: se avessero il nostro sostegno sarebbe meglio.

Fra quelle testate più libere molte sono di ong o missionarie, altre sono di cooperative (Altreconomia e Carta). Alcune si vendono per strada (Come, Fuori binario, Piazza grande, Terre di mezzo…). A volte dicono cose stranissime e quasi sempre sono vere.

Per aprire gli occhi sul mondo non bastano «Internazionale» ogni sabato e «Le monde diplomatique» (edizione italiana) ogni mese: però da noi non c’è quasi altro, perciò compratele o meglio abbonatevi.

Ci sono agenzie (Misna, Redattore sociale….) che non sono il megafono di lobbies e Vip.

Può interessarci quel che accade in altri Paesi: la rivista Adbusters negli Usa, i gruppi anti-pubblicità in Francia. Sapere che in Svezia la legge tutela le persone “comuni” coinvolte bei fatti di cronaca o che in Usa esiste un’ottima legge (Bush ha cercato di toglierla), la «Freedom Act».

C’è la rete. Non è un paradiso ma può aiutarci. Vedete il box di Marco Trotta.

C’è tanta gente in Italia (e altrove) che costruisce un mondo migliore. Se pure i grandi media non ne parlano, voi drizzate le orecchie e splancate i cuoricini: anche se le loro storie spesso circolano solo di bocca in bocca… sono più importanti e durature di qualunque prima serata con uno share alto.

STURGEON E HOLMES

Avviandoci verso la fine del dossier (una conclusione è impossibile, il “caso” resta aperto) forse ci possono essere utili due storie. Che magari sarebbero piaciute anche al già citato Billy Wilder.

La prima è tratta da un racconto di Theodore Sturgeon (nell’ormai introvabile antologia «Il mondo di Sturgeon», editrice Nord). La riassumo così. Una donna è interrogata dalla polizia (per ragioni che qui non interessano) ma sembra restia a collaborare. Nel mezzo della discussione chiede a un poliziotto: «cosa penserebbe di un uomo che salta addosso a una vecchietta, la butta per terra, la riempie di botte e poi scappa?». Il poliziotto le chiede cosa c’entra, poi dice (all’incirca) «quel tipo è un mascalzone». La discussione continua, alla fine la donna rifiuta di collaborare. Ma, mentre i poliziotti stanno per uscire, li blocca: «sapete, la storia di prima? Era vera. Però avevo omesso alcuni particolari. La vecchietta aveva preso fuoco, l’uomo l’ha buttata in terra per spegnere le fiamme, poi è corso via urlando per il dolore». Il racconto si intitola «Estrapolazione». E gran parte del giornalismo funziona così: omette “particolari” decisivi, per esempio non racconta i misfatti della globalizzazione e così rende verosimile che i suoi oppositori (per loro “no global” suona meglio che “altermondialisti”) siano pazzi.

La seconda più che una storia è una storiella. Sherlock Holmes va in vacanza con il fido Watson. Arrivati a destinazione, montano la tenda e si infilano nei saccoapelo. «Buonanotte». Nel cuore della notte, Holmes si sveglia. Si guarda intorno poi scuote Watson. «Che c’è?» gli chiede l’assistente.

«Watson, cosa vedi?».

Subito Watson apre gli occhi e risponde: «Vedo le stelle».

Holmes incalza: «E cosa ne deduci?».

Riposta: «Che domani sarà sereno».

Ancora Holmes: «Giusto e poi?»

Watson: «Che siamo nel segno dell’ariete».

«Giusto Watson e poi?».

«Quando vedo queste stelle penso che qualcuno le ha create».

Holmes: «Bravo Watson, e poi?».

«Beh, forse nei pianeti vicino a quelle stelle ci saranno creature intelligenti».

Holmes: «Interessante e cos’altro deduci?».

«Veramente basta».

A quel punto Holmes arrabbiato sbotta: «Watson, ci hanno rubato la tenda».

Cosa c’entra questa barzelletta con un dossier sul diritto a essere informati? Il giornalismo soddisfa oggi tutte le nostre curiosità (più di quante potremmo averne, commentava Christa Wolf) e sa fare molti bei discorsi. Quasi mai racconta l’essenziale: in questo caso “la tenda rubata” sono gli sconvolgenti avvenimenti che vengono rimossi o banalizzati. E’ quasi incredibile come quasi tutto il giornalismo italiano abbia, per fare un solo esempio, strillato per un paio di giorni sulle drammatiche notizie che arrivavano dall’Ippc (l’Intergovernative Panel of Climatic Change) per poi non parlarne più e blaterare banalità ad ogni notizia di cronaca. Eppure, restando nel nostro angolino, sappiamo che – andando avanti così – in  Italia le regioni meridionali subiranno una desertificazione (nell’arco di 50 anni la fine o quasi dell’agricoltura) e che nel resto d’Italia ci sarà un gran caldo alternato a freddo intenso, con fortissime piogge concentrate in brevi periodi, alluvioni, trombe d’aria. I giornalisti-Watson non ne parlano più. Forse un’altra “tenda” che ci è stata rubata è proprio avere pochi giornalisti (e/o intellettuali) capaci e vogliosi di studiare, di capire e magari di educare. Un grande scrittore (amo la fantascienza e non mi vergogno di usarla anche qui) come Robert Sheckley ci aveva messo in guardia: il guaio del nostro tempo non è il donchisciottismo – che scambia i mulini a vento per giganti – ma il «sanchopanzismo» cioè continuare a vedere mulini mentre novità meravigliose e terribili accadono sotto i nostri occhi. Ma da queste parti – è noto – facciamo il tifo per Don Chisciotte.

Di seguito trovate una Bibliografia (minima), un elenco di «(ec)-citazioni» più una scheda su Internet curata da Marco Trotta. Se avete il feticismo delle indicazioni bibliografiche puntigliose sappiate che questo mio dossier è uscito a ottobre 2008 su «Cem mondialità» con il titolo «Vita e informazione: pubblicità e privacy nella società mediatica. Quale etica dell’informazione?» e una splendida copertina – fra Chagall e Magritte? – di Silvio Boselli.

BIBLIOGRAFIA MINIMA

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TRAVAGLIO MARCO, La scomparsa dei fatti, Il saggiatore, Milano, 2006.

Fra i libri “classici” vale almeno ricordare: CHOMSKY N., Il potere dei media, Vallecchi, Firenze, 1994 e  KAPUSCINSKI RYSZARD, Autoritratto di un reporter, Feltrinelli, Milano 2003.

Visto che i più danno per scomparso per Italia il buon giornalismo tv si segnala che qualche “panda” sopravvive. Per fare un solo esempio: GABANELLI MILENA, Cara politica: come abbiamo toccato il fondo (le inchieste di Report: libro+dvd), Bur-Rai, Milano, 2007.

Se qualcuna/o desiderasse confrontarsi con un buon manuale di giornalismo, il migliore resta PAPUZZI ALBERTO, Professione giornalista, Donzelli, Roma, 1998/2003 e successive ristampe.

Tanti film interessanti sul giornalismo (uno per tutti: L’inventore di favole di Billy Ray) e molti romanzi rivelatori, da Maupassant a Boll: fra quelli recenti il più sconvolgente (in Italia è passato quasi inosservato) è Il giardino degli orrori di DAENINCKX DIDIER tradotto nel 2006 nella collana Il giallo Mondadori.

29 (ec)-CITAZIONI

1 – WOODY ALLEN: Sono a casa seduto davanti alla TV quando il telefono suona e una voce dall’altra parte dice: «Le piacerebbe essere l’uomo vodka di quest’anno?». E io dico: «No, sono un artista, e non faccio pubblicità, non sono un ruffiano, non bevo vodka e se lo facessi non berrei la vostra!». E lui: «Peccato, paghiamo 5 milioni di dollari». E io dico: «Attenda in linea, prego. Le passo il signor Allen».

2 – GIORGIO BARBERI SQUAROTTI: la povertà di linguaggio rende deboli: rischia di farci diventare schiavi delle idee altrui

3 – GEORGES BEAUMARCHAIS: Premesso che non debbo parlare dell’autorità, né della religione, né della politica, della morale, né di gente con qualche carica, né di classi con qualche reputazione, né dell’opera, né di altri spettacoli, né di persone che tengano a qualcosa, posso stampare tutto liberamente, sotto la direzione però, è ovvio, di due o tre censori.

4 – BERTOLT BRECHT: Il signor Kenner incontra il signor Wire che dà battaglia ai giornali.

«Sono un grande avversario dei giornali» dice il signor Wire: «non voglio giornali».

Il signor Kenner risponde: «Io sono un avversario ancora più grande dei giornali: voglio giornali liberi».

5 – ITALO CALVINO: Povero di immaginazione com’era, appena una parola cominciava ad avere un significato, non riusciva a pensare che potesse averne un altro

6 – NICOLAS DAVILA: La stampa non vuole informare il lettore, ma convincerlo che lo sta informando.

7 – DENIS DIDEROT: Sono più sicuro del mio giudizio che dei miei occhi.

8- EDUARDO GALEANO: Ogni giorno, leggendo i giornali, assisto a una lezione di storia. I  giornali mi insegnano con ciò che dicono e con ciò che non dicono. La storia è un paradosso errante. E’ la contraddizione a farla muovere. Forse per questo i suoi silenzi dicono più delle sue parole e spesso le sue  parole rivelano, mentendo, la verità.

9 – GIORGIO GABER: Io se fossi Dio,

maledirei davvero i giornalisti e specialmente… tutti.

Che certamente non son brave persone

e dove cogli, cogli sempre bene.

Compagni giornalisti, avete troppa sete

e non sapete approfittare delle libertà che avete:

avete ancora la libertà di pensare,

ma quello non lo fate

e in cambio pretendete la libertà di scrivere,

e di fotografare.

10- R. KAPUSCINSKY: Essenziale è restare immuni dalla più terribile delle malattie contemporanee: l’indifferenza.

11 – KARL KRAUS: Le guerre cominciano perché i diplomatici raccontano bugie ai giornalisti e poi credono a quello che leggono.

12 – KARL KRAUS: Sono convinto che non sono più gli avvenimenti che si compiono ma i clichès che si elaborano autonomamente.

13 – NIETZSCHE:  Non esistono fatti, ma solo interpretazioni

14 – NIETZSCHE (nel 1882):  Ancora un secolo di giornali e tutte le parole puzzeranno.

15 – GEORGE ORWELL: La vera libertà di stampa è dire alle gente quello che non vuole sentirsi dire.

16 – QUINO (una strip con la sorellina di Mafalda che le parla e lei resta in silenzio, esterefatta):

«I giornali… inventano la metà di quello che scrivono».

Se ne va. Dopo un po’ torna.

«E se aggiungi che non scrivono la metà di quello che succede, ne consegue che i giornali non esistono».

17 – SANDRO PORTELLI: in una società dell’informazione l’esperto sta ai cittadini come il capo-reparto sta agli operai di una fabbrica.

18 – SEBASTIAO SALGADO: Io non fotografo i miserabili. Fotografo persone che hanno meno risorse, meno beni materiali. Ho visto spesso la miseria in paesi ricchissimi. Per me miserabile è quello che non fa più parte di una comunità, che è isolato e che ha perso la speranza.

19 – GEORGE BERNARD SHAW: I giornalisti confondono spesso lo scontro fra due biciclette con la fine del mondo.

20 – I. F. STONE iniziava le sue lezioni così: «Di tutto quello che vi dirò oggi sul lavoro del giornalista dovete ricordare solo 3 parole: il governo mente» (citato in H. ZINN, «Non in mio nome»).

21 – TRILUSSA: Mentre me leggo er solito giornale

spaparcchiato all’ombra d’un pajaro

vedo un porco e je dico: «addio maiale»

vedo un ciuccio e je dico: «addio somaro».

Forse ‘ste bestie nun me capiranno

ma provo armeno la soddisfazione

de potè dì le cose come stanno

senza paura de finì in priggione.

22 – OSCAR WILDE: la pubblica opinione è un tentativo di organizzare l’ignoranza della gente, e di elevarla a dignità con la forza fisica.

23 – PAUL WATZLAWICK: Fra tutte le illusioni la più pericolosa è credere che esista una sola realtà.

24 – BILLY WILDER:  se devi dire la verità, cerca di essere divertente altrimenti ti stritolano.

25 – BILLY WILDER: Una regola per il perfetto giornalista: non iniziare mai un articolo con due punti (dal film «Prima pagina») e poi: «Senti chi parla: i giornalisti. Un branco di analfabeti (…) che spiano dai buchi delle serrature e svegliano la gente nel cuore della notte per domandare se hanno visto passare un bruto in mutande, che rubano alle vecchie madri le fotografie delle figlie violentate (…) e tutto perché? Perché un milione di commesse e di mogli di camionisti ci piangano sopra. E poi, il giorno dopo, la prima pagina serve per incartare un chilo di trippa» (idem).

26 – CHRISTA WOLF: Nessuno di noi sarà mai in grado di produrre tanta curiosità quanta i massmedia ne soddisfano.

27 – La Prima legge del giornalismo è confermare i pregiudizi esistenti, piuttosto che contraddirli. (variamente attribuita)

28 – L’unica linea che un giornalista è sempre tenuto a rispettare è quella ferroviaria. (variamente attribuita)

29 – Prestate attenzione ai sussurrii e non dovrete ascoltare le grida. (proverbio cherokee)

INTERNET: STRUMENTO DI POTERE O DI CONTRO-POTERE?

di Marco Trotta

Internet e più in generale le nuove tecnologie sono uno strumento di potere o di contro-potere? La domanda, niente affatto scontata, è risuonata sempre più spesso in maniera esplicita o meno fra analisti, saggisti e “addetti ai lavori” negli ultimi anni. Per un semplice motivo: da quando le nuove tecnologie sono diventate oggetto di riflessione politica, sociologica ed economica, cioé da quando sono strumenti così diffusi da doversene occupare (di sè, di quanto e come cambiano il mondo intorno a noi) quello che si è potuto verificare di volta in volta è l’analisi di tendenze più o meno reali, scelte e studiate da punti di vista per nulla neutrali. Intanto non è per nulla scontato che il rapporto fra tecnologie e cambiamento sia esattamente in un rapporto di causa-effetto.

Lo ha spiegato bene in molti suoi saggi Franco Carlini (di cui si consiglia l’attualissimo, seppure già datato «Internet, Pinocchio e il gendarme» uscito da manifesto-libri) smascherando quella che chiamava l’ideologia californiana, ovvero una sorta di determinismo tecnologico che – fra gli inizi degli anni ’90 e lo scoppio della bolla della new economy (ovvero il crollo in Borsa nel 2001 di buona parte dei titoli tecnologici che produsse fallimenti a catena) – ha generato libri e studi nonchè sospinto enormi investimenti finanziari (e pubblicitari) verso qualsiasi processo che tenda introdurre tecnologie digitali in ogni attività umana, profetizzando che così sarebbe diventata migliore. Una tendenza che ha prodotto molti fra gli oggetti che abbiamo attualmente nelle nostre case (cellulari in testa), ma che verso la fine degli anni ’90 fu capace anche di immaginare tostapane connessi a internet per stampare le previsioni del tempo sulle fette di pane o scaldaletti collegati ai computer per attivarsi via mail e far trovare il letto già caldo. Prodotti che furono veri e propri flop commerciali. Perché le persone li trovarono inutili e perché ci si rese conto che la tecnologia cambiava il mondo quanto noi cambiavamo le tecnologie. Magari per fare in modo che la tecnologia venga incontro ai nostri desideri. Come nel caso del tele-lavoro. Per molto tempo fu considerato strumento per liberarsi dagli orari di ufficio, ma poi ci si rese conto che ricevere o mandare fax anche alle 3 di notte non era né un aumento della produttività né del grado di soddisfazione dei dipendenti.

Sempre Carlini cita studi a dimostrare che le tecnologie digitali hanno cambiato modo di produrre e prodotti (ormai, almeno in Occidente, dal punto di vista del valore economico, sono più i beni immateriali che materiali) invece che far crescere la produttività tout court. E se oggi il tele-lavoro ha impieghi limitati, ci sono altre tendenze come l’azienda “37Signals” in Inghilterra che sta sperimentando una settimana lavorativa di 4 giorni invece che 5, finanziando a proprie spese hobbies e formazione dei propri dipendenti, perché in questa maniera sono più produttivi.

Sempre negli anni ’90 fu coniato il termine digital divide, per indicare la frattura fra chi possedeva e sapeva usare tecnologie digitali e chi no. Se nella sola New York c’erano più linee telefoniche che in tutta l’Africa subsahariana, ben difficilmente si poteva considerare internet un media globale. G8, Onu e fondazioni private attivarono grossi progetti per l’informatizzazione dei “Paesi in via di sviluppo” spesso con scarsi risultati perché portare computer e tastiere dove mancano acqua ed elettricità risulta poco utile. Non mancarono le contraddizioni: quando la fondazione di Bill Gates (ex presidente Microsoft) stanziò 500 mila dollari in tecnologie, faceva beneficenza o stava investendo su un futuro mercato per i prodotti del suo ramo profit? Ben presto fu chiaro, anche agli entusiasti in buona fede, che fin quando il know how (ovvero la conoscenza sul come fare) sarebbe rimasta nelle solite mani – lasciando agli altri solo i prodotti e l’utilizzo ultimo –  nulla sarebbe cambiato. Per questo negli ultimi anni un gigante come il Brasile ha dichiarato la sua «sovranità tecnologica» lanciando in tutto il Paese un progetto di utilizzo del software libero, ovvero di quei programmi informatici che si possono utilizzare, modificare e copiare liberamente, come Linux. Una scelta radicale, con l’obiettivo di far crescere un proprio settore fatto di ricerca e industrie. Una decisione con immediate ricadute economiche visto che, a esempio, in Italia l’amministrazione pubblica paga per licenze proprietarie: ovvero il diritto di usare i programmi che girano sui nostri computer (quelli per scrivere o per navigare in internet) 2 miliardi di euro l’anno ad aziende come Microsoft. Una situazione che Marcelo D’Elia Branco, coordinatore del progetto Free Software spiega così: «In Brasile, un Paese in cui 22 milioni di persone soffrono la fame, una licenza di Office Plus per Windows costa 60 sacchi di soia esportata sul mercato internazionale. Quando lo spiego ai contadini diventano furiosi». L’idea è semplice: invece di spendere per acquistare qualcosa che scadrà dopo un anno e mezzo, si può investire nella formazione di persone che, potendo usare tecnologie libere, acquisiscono know how, fanno ricerca e trovano una propria strada all’utilizzo delle tecnologie. Lo sperimentano in Brasile, ma anche in Venezuela, in EstramaDura (Spagna) e altrove. Se però questa tendenza diventerà maggioritaria (o se possa cambiare le sorti del Brasile) è presto per dirlo.

Di volta in volta Internet è stata descritta (e spesso venduta) come il regno del pluralismo, dove sarebbe finalmente sbocciata l’informazione libera. Per il momento la grossa parte degli utenti si concentra su qualche decina di siti di informazione classica: Mentre in tanti hanno criticato (a ragione) le restrizioni a Internet e alla stampa durante le Olimpiadi cinesi, in pochi si sono scandalizzati delle motivazioni con le quali fu chiuso qualche mese il blog di Carlo Ruta (www.accadeinsicilia.net) accusato di stampa clandestina da parte del magistrato Patricia Di Marco della procura di Modica: un precedente pericoloso, usando una legge che obbliga, in termini vaghi, la registrazione dei siti come testate giornalistiche.

Si pensi invece a come il blog di Patrizia Moretti (federicoaldrovandi.blog.kataweb.it ) ha permesso di riaprire il caso di suo figlio, morto a seguito di un controllo di polizia a Ferrara il 25 settembre 2005, dopo che i media avevano. Grazie al clamore suscitato, è in corso un processo con vari rinvii a giudizio.

Esempi così diversi dimostrano che Internet e le nuove tecnologie possono essere strumenti di oppressione o di liberazione a seconda dell’utilizzo. Dipende dalle persone, da quanta coscienza, criticità, desiderio viene utilizzato per concretizzare i sogni migliori dell’umanità: una biblioteca universale; uno spazio di discussione collettivo, plurale ed inclusivo; una finestra aperte sulle culture e le differenze; e molto altro.

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