La fantascienza e gli effetti speciali
Una pillola di Fabrizio («Astrofilosofo») Melodia
«… Saremmo costretti a chiederci che cosa c’è realmente davanti a noi, a vedere la forma indipendentemente dalla sua interpretazione: e questo (ce ne accorgiamo subito) non è realmente possibile»: così ci avvertiva Ernst Gombrich.
Gli effetti speciali sono amati e vituperati, spesso risultano al centro del film, quasi una nuova cifra estetica per rendere la qualità e il progresso della nona arte.
Assistiamo spesso a veri e proprio giocattoli ben confezionati, con effetti speciali sempre più incredibili, ma all’uscita delle sale cinematografiche adulti e bambini, in più di un sondaggio, affermano che «il film è bello ma ci aspettavamo di più».
L’indigestione d’immagine è un male che affligge il cinema, in primis quello di fantascienza. Quando gli effetti speciali diventano il centro di tutta la narrazione inevitabilmente le idee e la sperimentazione si allontanano e l’obiettivo di far cassetta per rientrare come minimo delle spese è ormai vuota consuetudine.
Un esempio è il blasonato «Avatar» del buon James Cameron, di cui ho parlato nella precedente pillola, film straordinario dal punto di vista della Computer Graphica ma inconsistente nelle idee di fondo, un puro balocco d’intrattenimento che già a metà proiezione suscita noia.
E’ proprio vero, più si è in ristrettezze economiche e maggiormente l’ingegno si aguzza per trovare soluzioni alla mancanza di mezzi, attingendo alle idee e al linguaggio cinematografico e a trucchi da prestidigitazione molto artigianali più che ai computer o a costosi animatroni.
Le storie di fantascienza sono tutte quelle che sviluppano presupposti scientifici e/o tecnologici che hanno un fondamento nella realtà quotidiana e di cui s’immaginano le ipotetiche conseguenze o applicazioni in un futuro prossimo o lontano, mgari quando esse sfuggono al controllo, soprattutto etico, da parte degli esseri umani, tipica espressione della “Sindrome di Frankenstein”.
In senso lato s’intende fantascienza anche situazioni che non implicano viaggi nello spazio, invasioni aliene o mondi virtuali ma trattano di cadute apocalittiche in un medioevo di barbarie o nell’avvento di regimi totalitari che quasi sempre usano la tecnologia per controllare le persone.
Da sempre la fantascienza usa gli effetti speciali per rappresentare questi incubi. Qui vorrei ripercorrere un po’ di storia degli effetti speciali.
1902: George Mèliés realizza «Viaggio sulla luna», utilizzando effetti di fotomontaggio artigianali e di modellini prodotti da lui. Gli effetti speciali nascono dunque con il cinema di fantascienza.
1926: con «Gloria» di Raoul Walsh appare la dicitura “effetti speciali” nei titoli di testa.
1933: in «King Kong» (di Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedesack) viene fatto uso della tecnica del trasparente e il movimento della scimmia è ottenuto con la stop-motion.
Anni Cinquanta: la crisi del dopoguerra porta profondi tagli nel budget dei reparti di effetti speciali ma i tecnici si ingegnano molto abilmente per sopperire a tale mancanza. Un esempio è «Il risveglio del dinosauro», che offre al maestro degli effetti visivi Ray Harryhausen l’opportunità di perfezionare la tecnica della stop-motion. Il modellino di dinosauro da animare, alto circa cinquanta centimetri, snodabile, costruito in lattice e gommapiuma sopra uno scheletro in legno e alluminio, viene spostato a mano, con pazienza e precisione a ogni ripresa, finché la scena non è completa. Ogni secondo di proiezione corrisponde a ventiquattro fotogrammi, cioè per ottenere un secondo di movimento è necessario fotografare ventiquattro frazioni di movimento.
Anni Sessanta: gli effetti speciali nei film iniziano ad avere un ruolo sempre più determinante e la Disney, per prima, mette su un reparto di ricerca e sviluppo degli SFX (in modo molto previdente e azzeccato, oserei dire). Per «2001: Odissea nello spazio» i tecnici al lavoro per Stanley Kubrick realizzano l’interno dell’astronave Discovery in modo molto ingegnoso, costruendo un set rotante simile a una centrifuga. La macchina da presa, inserita dentro al set con una gru è, secondo la necessità, statica mentre le due “ruote” girano, oppure in movimento agganciata al set. L’effetto prodotto fa in modo che i due astronauti all’interno possano muoversi a 360 gradi.
1973: «Il mondo dei robot» (di Michael Crichton) propone un robot interamente costituito da pixels.
Nella saga di «Guerre stellari» prende l’avvio la tecnica della go-motion, eliminando la rigidezza dei movimenti della stop-motion, usando leggere vibrazioni al momento dello scatto dei vari fotogrammi, abbinando alla stop-motion l’uso del computer: esso memorizza le posizioni delle miniature, in questo modo, anche sbagliando, non si deve far da capo la scena. Inoltre l’utilizzo del blue screen permette di inserire, sempre con l’uso di tecnologie digitali, paesaggi e oggetti in fase di post produzione dopo aver girato la scena. Esempio lampante è proprio l’astronave Millennium Falcon di «Guerre Stellari», un modellino che, appeso a un filo trasparente, si muove grazie a una gru, su uno sfondo neutro che poi diventerà lo spazio intergalattico grazie al blu screen.
1992: la tecnica del morphing stravolge completamente la percezione degli effetti visivi digitali da parte del pubblico come in «Terminator 2: Il giorno del giudizio» (riecco James Cameron) con l’introduzione del cyborg T-1000, che delizia il pubblico con le sue trasformazioni liquide.
1999: nel film «Matrix» il tecnico degli effetti speciali John Gaeta introduce l’uso della tecnica “bullett time” (A tempo del proiettile), in cui fotogrammi e riprese sono combinati e calibrati dal computer, creando le scene di lotta in cui si librano i protagonisti della pellicola, come la famosa scena della schivata dei proiettili da parte dell’eroe Neo (il bravo Keanu Reeves).
2006: «A scanner darkly» di Richard Linklater diventa un caso emblematico di film d’animazione realizzato con la tecnica del Digital Rotoscoping ovvero il rotoscoping nella sua evoluzione digitale, dando vita a uno dei film più belli in assoluto tratti da Philip K. Dick.
Il panorama degli effetti speciali si arricchisce ogni giorno di più, le industrie sono in via d’espansione e mai come ora la fantascienza può rappresentare davvero tutto ciò che le passa per la testa. E allora perché non osa? Perché sembra aver perso mordente?
E’ proprio l’uso massiccio del computer a togliere il gusto di osare. Proprio perché non si riesce più a creare quella sospensione d’incredulità che alla science fiction cinematografica occorre per trasportare fisicamente lo spettatore in quel mondo, farglielo vivere nel pieno delle emozioni.
John Carpenter, al quale era stato proposto di girare il seguito (oppure prequel) del suo capolavoro «La cosa» (del 1982) con largo budget e uso di effetti speciali digitali, rispose: «No, non lo realizzerò. Forse la pellicola ne acquisterebbe con l’uso del suono digitale, assolutamente strabiliante. Ma non la visione. Rob Bottin usò tecniche artigianali quali lattice, sangue e altri liquidi, tutto attivato meccanicamente. Era vero, infatti la scena della testa con le zampe di ragno è qualcosa ancora d’intollerabile. Con il computer non sarebbe vero, non produrrebbe il medesimo effetto emotivo».
Forse è proprio per questo che troppe persone continuano ad amare i vecchi film di fantascienza dell’era pre computer grafica: erano veri, facevano provare emozioni reali e tangibili. Davvero si percepiva solo la forma.
La caverna di Platone era reale, davvero le ombre prodotte dalle cose fuori risultava reale. Far diventare il sogno realtà… un’impresa ancora possibile?
Bibliografia
Richard Rickitt: Special Effects: The History and Technique, Billboard Books; 2nd edition, 2007;
Movie Magic: The History of Special Effects in the Cinema by John Brosnan (1974)
Raymond Fielding, Techniques of Special Effects Cinematography (For many years, the standard technical reference. Current edition 1985)
T. Porter and T. Duff, Compositing Digital Images, Proceedings of SIGGRAPH ’84, 18 (1984).
The Art and Science of Digital Compositing (ISBN 0-12-133960-2)
Shilo T. McClean, Digital Storytelling: The Narrative Power of Visual Effects in Film, The MIT Press, 2007.
Mark Cotta Vaz; Craig Barron: The Invisible Art: The Legends of Movie Matte Painting, Chronicle Books, 2004;
Larry Nile Baker, A History of Special Effects Cinematography in the United States, 1895–1914
Astrofilosofo pone due problemi fondamentali, nascosti sotto la specie “progresso tecnologico”. Il primo attiene al rapporto stile/forma con il contenuto, e ai suoi effetti, positivi o negativi, di fusione nell’opera artistica; il secondo invece è dato dal ruolo affidato al reale per produrre effetti di verosimiglianza (rapporto reale/fantastico). Su ambedue offre una propria soluzione.
Personalmente ho molti dubbi sull’ostacolo che lo sviluppo della tecnologia (effetto speciale) costituirebbe per la “resa artistica” (al contrario, costituisce una occasione). La possibilità dell’effetto speciale può incoraggiare la pigrizia dell’autore, o coprirne le carenze, non impedire lo sviluppo delle qualità artistiche, se queste sono presenti. Ma qui allora sarebbe da mettere in ballo il problema della qualità dell’autore e serietà delle sue intenzioni, non i limiti propri alla “macchina da presa”. Altrimenti dopo i fratelli Lumière sarebbe dovuto risultare progressivamente sempre più difficile produrre ottimi lavori cinematografici (il che non è).
Sull’altro versante (reale/fantastico) mi chiedo se l’Inferno dantesco sia meno credibile per l’avere Dante adoperato materiali fantastici (i deliri Medioevali sull’inferno, merce corrente ai suoi tempi), invece che quelli “realistici” di Boccaccio; o se sia invece più credibile proprio per aver fatto ricorso agli stessi.
Attenzione poi: l’esempio della testa/ragno ci riprecipita nell’ambito degli effetti speciali ai quali vorremmo sottrarci. In primis perché il discorso sulla creatività viene ricondotto, con grave danno, all’abilità tecnica dell’utilizzatore e al tipo di effetti a cui ricorre. E poi perché in ultima analisi sfocia nella colpevolizzazione dei soli effetti ottenuti tramite computer.
Così come non è la pistola a uccidere, ma l’uomo che l’adopera (e prima di lui colui che l’ha ideata e costruita), nello stesso modo non sono gli effetti speciali a uccidere la creatività, ma l’industria culturale che domina il panorama ideologico, politico ed economico odierno: una industria che tutto livella e tutto riconduce al guadagno del giorno dopo.
E’ il clima generale dominante l’ultimo secolo (clima utilitaristico a oltranza) il responsabile delle mediocrità generale del prodotto artistico, non gli strumenti messi in campo per realizzarlo. Esattamente quel clima contro il quale abbiamo l’obbligo di prodigarci per abbatterlo.