La firma

di Gino Di Costanzo

Dal crocchio, illuminato dal fuoco, parlò per tutti una voce acerba e roca:

– Chi? Ah, Davidone! … ‘o putite truvà’ fore ‘a stazione…

– ’A là stamm’ venenno…

– Nun ce sta? … eh, nun ’o sapimm’ addò sta.

Gli altri del gruppetto confermarono scuotendo la testa, mentre venivano sezionati dagli sguardi taglienti dei due centauri. L’urlo arrogante della moto che se ne andava fu il ringraziamento per la risposta insoddisfacente. Il crepitio delle assi di legno che bruciavano nel bidone, poi null’altro, per quella sera.

“… ‘O biglietto?” era la richiesta, monca del verbo, che prima o poi toccava ai passeggeri appena giunti alla stazione di Piscinola-Secondigliano, capolinea della metropolitana nuova, la porta di Scampia. Appena fuori stazione, nei pressi della strettoia del cantiere che obbligava le persone a compattarsi, Davidone tendeva le sue imboscate. Restringendo ulteriormente il passaggio con la sua obesità, chiedeva i biglietti usati. Ogni tanto riusciva a piazzare a quaranta o cinquanta centesimi quelli non ancora scaduti. Qualcosa di più consistente lo metteva insieme eseguendo commissioni per quelli che controllavano la zona, attività che svolgeva da quasi tre anni. “Chiattò’, fa’ ‘stu servizio…”, e Davidone ‘o chiattone consegnava per lo più piccoli pacchi o buste sigillate dove gli dicevano, senza parlare. Non salutava il mittente, non ringraziava il destinatario per la mancia. Un postino perfetto. Del resto, il silenzio che fedelmente lo scortava sin da bambino costituiva la garanzia della sua discrezione.

Sorvolando sul mantra del biglietto che recitava alla stazione (una copertura, per alcuni), normalmente Davidone apriva la bocca con la stessa frequenza della neve a Napoli. Quando accadeva, eruttava monosillabi e scorie di frasi, lo stretto indispensabile per non offuscare la sua fama di indecifrabile taciturno. Il suo corpo straripante era ugualmente silenzioso, il suo passo pesante e imperturbabile non produceva alcun rumore. Non solo. Quella massa espansa, quell’enorme discarica di tutte le parole marcite che aveva sempre trattenuto, in certi frangenti mostrava di possedere un dono, una specie di invisibilità. Se Davidone non voleva essere notato non c’era nulla da fare, non ci si accorgeva nemmeno di passargli accanto. Poggiandosi ad un muro di mattoni ne assumeva la trama e il colore, muffe comprese; camminando sui marciapiedi di Via Labriola, nei pressi delle “vele” abbandonate, diventava grigio e scorticato come l’asfalto che calpestava; nell’erba alta di aiuole selvatiche, fra cadaveri di siringhe lasciati senza sepoltura, legnificava accanto ai tronchi degli alberi. Alla stazione nessuno lo vedeva arrivare, appariva. Era fatto della stessa sostanza del quartiere.

Il pallone si arrestò sotto la suola di una nike nera, e fu trattenuto contro la sua volontà. Nel sole pomeridiano piazza Giovanni Paolo II era accecante come un deserto di sale, dodici ragazzini sudati si erano appena fermati di colpo. Gli occhiali da sole fecero un cenno, un giovane ambasciatore si mosse per parlamentare in virtù della sua divisa da Lavezzi. La trattativa fu breve, e terminò con le braccia larghe ed un’alzata di spalle del piccolo diplomatico, che tornò con l’ostaggio di gomma appena liberato.

– Che vuleva?

– A Davidone…

– Vabbuò’, jamme, ripigliammo… ‘a palla era ‘a nosta, però!

– ’O cazz’! Me l’aggio juta’a piglià’ io, mò ‘a palla è d’a nosta!

La moto con gli occhiali da sole approvò mentre si allontanava. Le leggi della strada non hanno spirito sportivo.

L’apprendistato del chiattone come corriere professionale era del tutto ignorato dai suoi genitori. Si erano arresi da tempo alla  carestia di parole del figlio e a tutto il resto. La madre puliva nobili scale condominiali per dieci ore al giorno, in nero; il padre era un metalmeccanico a riposo per infermità cardiaca, e contribuiva a sostenere la famiglia con una pensione malridotta quanto lui. Così, in risposta a domande svogliate, i discorsi mai iniziati da Davidone colavano a picco nel mal di schiena di lei e si inabissavano nella depressione di lui. Tutta la casa zittiva.

Le strade di Scampia erano arterie giganti in cui scorreva un liquido tossico, che avvelenava il corpo del quartiere. Le case, lontani fondali ideati per il domicilio coatto di un’umanità deportata, non disegnavano percorsi, ma desolati panorami metafisici. Gli spazi verdi, un inganno. A Scampia Davidone imparò a tacere, a cancellare le proprie tracce, a svanire. Come un vuoto riempito di vuoto, un linguaggio inarticolato fermo alla pura grammatica, Scampia lo osservava senza interferire. Apparentemente.

Dal bavero della camicia, strattonato su fino a coprire il mento, una voce tremula cominciò a supplicare:

– Nun ‘o saccio… nun ‘o saccio! … si ‘o sapess’ t’o dicess’! … nun l’aggio visto a Davidone, t’o giuro! … lassame …

Uscivano da due maniche di pelle nera le mani nodose e inanellate che indugiarono ancora, prima di mollare la presa. Umida di sudore, la camicia del ragazzo aderiva ancora al muro contro cui era stata spinta, quando il latrato della moto guidata dal giubbotto scuro si sciolse nel rumore di via Bakù.

Dopo aver taciuto in classe per tre anni (e sorvolando sul trattamento da subnormale che gli riservarono alle elementari), Davidone aveva finito le medie senza macchia. Il profitto scolastico dei suoi ostinati silenzi era risultato sorprendente, così come il tornaconto didattico ricavato dalle sue improvvise apparizioni, proprio mentre il docente di turno si accingeva a bollarlo come “assente” sul registro. Gli insegnanti della sua classe, sedotti da quel mutismo quotidiano e impenetrabile, da quell’aria da “affiliato” e da certe voci che giravano, non ritennero opportuno “ostacolare il percorso formativo di un alunno dallo sguardo molto intelligente”, solo perché parlava poco. Inoltre andava considerato che questi educatori di frontiera abitualmente raggiungevano la scuola in macchina, e il parcheggio era incustodito.

– L’amma truvà’ mò a chillu mongoloide… si no è peggio pure pe’ nuje…

La moto procedeva a basso regime fiutando il quartiere che tramontava, placida come il fuoco sotto la cenere.

Spesso, a Scampia, certe questioni di coabitazione tra galletti si risolvevano a colpi di occhiate e di pochi grugniti esplosi a distanza ravvicinata. Raramente si passava a vie di fatto. Bastava saper innescare e conservare quel tipico sguardo feroce e definitivo (seguito da qualche fosca previsione sull’imminente stato di salute del rivale), per tutelare la propria reputazione nel pollaio senza colpo ferire. Davidone era un maestro in quell’arte marziale caricata a salve. I pochi che osavano sfidarlo, oltre che vedersela con la sua espressione intimidatoria d’ordinanza, orribilmente tranquilla, dovevano fronteggiare la canna puntata di un’arma tanto oscura quanto deterrente: la parola morta. Il corpulento concepiva terribili offese, e, colpendosele in gola, ne sputava addosso ai malcapitati le impressionanti tumefazioni vocali. Strozzava brutalmente gli avvertimenti che lanciava, i cui rantoli sconcertavano anche i più coraggiosi. Squartava le sue stesse minacce e ne biascicava le spoglie sanguinolenti al nemico, che temeva di fare la stessa fine. L’aggressività muta e incomprensibile di Davidone possedeva un orrendo fetore di putrefazione che sgomentava, atterriva, dissuadeva. In questa maniera, spalleggiata dall’eccedenza corporea, la volontà silente del fattorino del clan si imponeva.

– Chill’ ce sta chiammanno, vedimmo che vò’ …

La moto ascoltò attentamente la vedetta, poi sparì in direzione di Viale della Resistenza, verso il campo rom.

– … Non lo so, è sempre rientrato a casa… qualche volta faceva tardi, turnava quando io e mio marito già stevemo durmenno, ma io non mi preoccupavo… è ‘nu buono guaglione, nun dice tre parole…

Il poliziotto ricontrollava ad alta voce i dati salienti della denuncia, infastidito dall’ansia della pulitrice di scale:

– Dunque, abbiamo detto … Davide Cardone, quattordici anni, bruno, occhi neri, capelli corti, pelle olivastra, un metro e settantacinque, più o meno, cento chili circa… ‘azz, signò’, e quant’è gruosso! …

– Eh…

– …scarpe sportive, colore… non vi ricordate, pantalone… forse un jeans, e felpa blu scuro, con cappuccio. Uscito ieri mattina da casa e mai rientrato…. vabbuò… 

Il padre dello scomparso ascoltava seduto su una panca di legno, avvolto nel silenzio di famiglia. Pallido e con gli occhi spenti, sembrava cercare la speranza sul pavimento, poco più avanti delle sue scarpe.

– Turnat’a casa, è inutile che restate qua. Ci pensiamo noi, e per qualsiasi cosa sarete chiamati, state a pensiero tranquillo.

Lo sfinimento dei due genitori voltò le spalle al vice sovrintendente e fece ritorno a casa.

La moto si fermò ai bordi di un terreno incolto. I due saltarono un muretto di recinzione e si diressero verso un minuscolo boschetto. Facendosi strada tra rifiuti stanziali e nostalgiche carcasse d’auto, raggiunsero Davidone che sedeva poggiato a un tronco. Non sembrava diventato di legno, stavolta. Accanto al ricercato un pacchetto aperto, sulla felpa i candidi resti di avidi e goffi tiri di coca. Gli occhi sbarrati bucavano l’ombra del cappuccio tirato sulla testa. Entrambi i cacciatori si chinarono per scrutare da vicino il viso esanime del ragazzo. Curiosi e frementi alla vista del corpo senza vita, sorrisero, mentre si rialzavano. Il pacchetto fu attentamente ispezionato, poi richiuso alla meglio. Il giubbotto nero lo prese in consegna.

– è muort’, ‘stu strunz’. S’è tirato ‘na tunnellata ‘e roba e è schiattato… ma che strunz’!

Il cadavere non reagì al rimprovero.

– Mò jammuncenne.

– Aspetta…

– Ma che cosa? Jamme!

– T’aggio ditt’ aspetta! – urlò il capo della spedizione, mentre rifletteva. Poi portò la mano dietro la schiena sollevando il giubbotto. La pistola completò il percorso dalla cintola alla fronte incappucciata di Davidone. Uno sparo siglò la fine della battuta di caccia.

– Mò ce ne putimm’ ì…”.

– Ma perché l’e fatto? Era già muorto…”.

– S’adda sapè’ ca simm’ stati nuje… – fu la risposta.

Così, Davide Cardone, quattordici anni, ammazzato dopo morto, decise per l’ultima volta di rinunciare alle parole.

– Professò’, ma com’è ca nostro figlio nun parla ancora? tiene tre anni, oramai. Capisce tutto, si vede… ci sta a sentire e si fa capì’ pure isso, a gesti, ma nun parla quasi mai, e quando parla farfuglia, tiene ‘na lingua tutta sua… alle volte ce ne andiamo per un’idea…

– Ecco, sì… – osò il padre del bambino.

– “Mamma” e “papà” lo dice bene, – proseguì la donna – ma per il resto parla troppo male! ‘O dottore nuosto ci ha mandato da voi, che siete specialista… Davide, su, saluta il professore!

Il bimbo allungò la mano paffuta al di sopra della grande scrivania, facendola sparire in quella del dottore. E sorrise, pure.

– Avete visto, professò’, capisce tutto! – sottolineò la madre.

– Ecco, sì…

UNA BREVE NOTA DELL’AUTORE

Questo racconto, di pura invenzione, si snoda in un ambiente che non è rappresentativo del variegato mondo sociale di Scampia. In realtà nel quartiere vivono e agiscono associazioni e cooperative di operatori sociali (come il “Centro territoriale Mammut”, il centro sociale “Gridas”, l’associazione “Chi Rom e chi no”) coraggiosi e determinati docenti nelle scuole pubbliche, parroci (che hanno deciso di interpretare la propria missione pastorale nel cuore malato della società)  famiglie e privati cittadini riuniti in tenaci comitati di quartiere che contendono ogni giorno, alla criminalità organizzata e al degrado, gli spazi fisici e morali della periferia di cui si parla nel racconto. Spesso costruendo con successo, soprattutto fra i giovani, cultura e senso della cittadinanza attiva e partecipativa. Questa nota doverosa rappresenta il mio umile riconoscimento al loro fruttuoso lavoro.
 
 
Redazione
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