La grande guerra di classe

Recensione al libro di Jacques R. Pauwels (Zambon Editore, 2017)

di David Lifodi

L’omicidio dell’arciduca Francesco Ferdinando, avvenuto il 28 giugno 1914 per mano del nazionalista slavo Gavrilo Princip, fu accolto quasi con sollievo dalle grandi potenze mondiali. Era il pretesto che cercavano, da tempo, per poter dar vita ad un conflitto in grado di affievolire la crescita delle idee rivoluzionarie in Europa e, grazie ad una propaganda martellante, far passare addirittura dalla loro parte una larga maggioranza di leader dei partiti socialisti del vecchio continente. È questa la tesi che anima il volume dello storico Jacques R. Pauwels, La grande guerra di classe.

Non ci poteva essere un titolo maggiormente appropriato perché Pauwels condensa in pochissime parole ciò che fu la prima guerra mondiale, un conflitto sorto sia con lo scopo di annacquare la coscienza di classe del sottoproletariato, dei lavoratori e delle fasce sociali più deboli della popolazione sia con il fine di utilizzarle come carne da macello, come dimostra la fine, all’insegna di stenti e patimenti, della maggior parte dei soldati costretti a trascorrere gran parte della loro vita nelle trincee in condizioni disumane. Gavrilo, fa notare Pauwels, è la forma slava di Gabriel, il nome dell’arcangelo dell’annuncio a Maria, che significa “messaggero” o “colui che annuncia”. L’omicidio commesso da Princip non annuncia solo la guerra ormai imminente, ma rappresenta l’inizio della fine per le classi popolari che scelsero di aderire alla causa nazionalista e patriottica. Questa era musica per la nobiltà e l’alta borghesia di fronte a quelle “masse minacciose che, istigate dai socialisti ormai da decine di anni, si agitavano e si mostravano recalcitranti e sediziose”. È in questo contesto che Pauwels effettua un’interessante quanto appropriata similitudine con le attuali guerre in corso in Irak e Afghanistan. Per giustificare questi conflitti la teoria prevalente è quella che ne gioveranno tutti, ad esempio se il terrorismo sarà sconfitto, ma i benefici sono ad esclusivo vantaggio delle multinazionali del petrolio e delle industrie delle armi. Allora come oggi, a godere dei profitti delle guerre sono gli industriali: i costi sono socializzati e i benefici privatizzati. Tuttavia, i partiti socialisti non riescono ad interpretare nel migliore dei modi quel momento storico e, pur dichiarandosi rivoluzionari a parole, in pratica finiscono per abbandonare gli ideali internazionalisti per convertirsi a quelli militaristi. Per definire meglio questa sorta di involuzione dei partiti socialisti, Pauwels conia il termine “social-chauvinismo”.

Inoltre, alla base del cambiamento di linea dei partiti socialisti, osserva ancora lo storico, c’erano almeno tre fattori. In primo luogo, negli ultimi decenni del XIX secolo, una buona parte della classe operaia europea aveva visto migliorare le sue condizioni di vita e, di conseguenza, molti partiti socialisti europei abbandonarono l’idea di perseguire gli ideali rivoluzionari a qualsiasi costo, convinti che “il sol dell’avvenire” fosse ormai raggiunto. In seconda istanza, da queste premesse prese sempre più piede l’idea che i partiti socialisti potessero  riconoscersi nel concetto di stato, paese e nazione: per questo, allo scatenarsi della guerra, ritennero in gran parte di appoggiare l’avventura bellica. Terzo, la mutazione dei socialisti li condusse a parteggiare per il nazionalismo e, conclude Pauwels, finirono per diventare “social-chauvinisti”. In pratica, le grandi potenze e i loro uomini avevano raggiunto l‘obiettivo: le istanze di giustizia e uguaglianza dei partiti socialisti erano state sostituite da quelle militariste e nazionaliste.

Pauwels si domanda implicitamente, lungo tutta la sua analisi storica, cosa sarebbe accaduto se i partiti socialisti non si fossero fatti attrarre dalle sirene nazionaliste e guerrafondaie. Forse il corso degli eventi sarebbe andato diversamente e le istanze delle cosiddette “classi pericolose” non sarebbero state imbrigliate, anche se, con il propagarsi del conflitto dall’ambito europeo ad una dimensione mondiale, finirono per crearsi situazioni potenzialmente rivoluzionarie dovute all’inaspettato (per le elites) protrarsi delle operazioni belliche da cui derivò, solo per citare un esempio, la rivoluzione russa: “La Grande Guerra generò la rivoluzione che l’elite aveva sperato di evitare nel 1914”. Al tempo stesso, Pauwels giunge alla conclusione che tutte le guerre sono di classe. Come non pensare, in effetti, alle guerre imperiali condotte dagli Stati uniti dopo la seconda guerra mondiale? Se agli albori della Grande Guerra le elites cercavano con insistenza un conflitto che avrebbe tenuto a freno le masse popolari, al giorno d’oggi le campagne contro il terrorismo in nome delle quali gli Stati uniti, e i paesi europei, giustificano le guerre, si inseriscono nel tentativo di limitare i diritti e le libertà di interi popoli tramite legislazioni repressive. Tutto ciò, nota Pauwels, rappresenta un pericoloso brodo di coltura per la proliferazione, già in corso in tutta Europa, dei movimenti neofascisti, che sfruttano l’attuale inquietudine, rabbia e malcontento di ampi strati della popolazione per canalizzarli verso il diverso, migrante, musulmano, nero ecc… .

Solo il tempo dirà se, alla fine di quest’epoca caratterizzata da fortissime tensioni sociali, nasceranno le premesse per un nuovo periodo rivoluzionario o, se, ancora una volta, ad approfittarne sarà l’elite per tenere a bada le fasce sociali già vittime di un’infinita crisi economica a livello mondiale.

La grande guerra di classe

di Jacques R. Pauwels

Zambon Editore, 2017

Pagg. 557

€ 27

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

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