La guerra dei droni

Con un bel po’ in ritardo abbiamo saputo che anche le truppe italiane impiegano (dal 2007) i «droni» in Afghanistan. Nel frattempo il termine piace ai giornalisti e dilaga nei videogiochi mentre gli esperti si attengono all’asettico uso di Uav (Unmanned Aerial Wehicles) cioè apparecchi senza piloti. Possono essere di sorveglianza o di attacco ma sono – pare – il nostro futuro come si intuisce dalla copiosa massa di documenti, perlopiù ignoti in italiano, raccolta da Sabina Morandi in «La guerra dei droni» (158 pagine per 14,50 euri) che esce in questi giorni da Coniglio editore. E’ il primo libro del genere in Italia e Sabina Morandi è indiscutibilmente fra le migliori e più puntigliose giornaliste scientifiche italiane. Raccomando anche il suo «C’è un problema con l’Eni» (sempre Coniglio editore) ovvero «Il cane nero si è pappato i rossi – come insabbiare un’inchiesta e liberarsi del giornalista» che trovaste recensito su codesto blog (31 gennaio) con successivi commenti molto interessanti.

Torniamo agli Unmanned Aerial Wehicles. Sin dal suo insediamento, il presidente Obama ha incoraggiato un larghissimo uso dei droni. In Afghanistan naturalmente ma, strada facendo, si scoprirà anche in Yemen e altrove. Per ricognizione si dice all’inizio ma se questi Uav sono armati, il loro obiettivo è colpire I nemici dichiarati, i terroristi. Garantiscono la «massima efficienza» si dice. Poi i rapporti di Amnesty International o di altri organismi neutrali parlano di un impressionante numero di vittime civili, di errori, di “fuoco amico”. Le stime variano ma qualche dato inoppugnabile esiste: per esempio solo nelle aree tribali e nel Khyber Pakhtunkhawa nel 2009 sono morti 1363 civili.

E’ almeno dal 1962, racconta Morandi, che esistono aerei-spia senza equipaggio ma «bisogna aspettare il 1979 per vedere l’esercito americano (…) finanziare un modello battezzato Aquila». Al quale via via si aggiungono visori, puntatori, cannoni e via dicendo: «morale, nel 1987 era già stato speso più di un miliardo di dollari solo per produrre qualche prototipo, così il programma fu cancellato». Ma l’idea torna fuori: per gli interessi economici ovviamente e per quel misto di immagine (esterna) e di morale (interno) che i vertici militari devono ben dosare. E’ meglio se il lavoro Tre D (cioè dull, dirty e dangerous: monotono, sporco e pericoloso) lo portano avanti le macchine. Ma questo può anche significare, come ha messo in guardia Philip Alston, il relatore speciale dell’Onu sulle uccisioni extra-giudiziali, far emergere «una mentalità da videogioco negli omicidi». Tutto avviene lontano, morte e sangue sono soltanto puntini luminosi.

I droni sono una esclusiva degli statunitensi e dei loro alleati? Non più. Così il 24 febbraio 2009 gli aerei Usa in Iraq si trovano a pedinare uno strano aereo senza pilota. “Sembra impossibile che sia dei nostri” dicono. Alla fine lo abbattono: è un Ababil (rondine) fabbricato in Iran. La questione iraniana resta al centro di un intrigo spionistico complesso: in agosto l’esperto militare Reza Burani salta in aria ma in ogni caso il Paese ha ormai il suo “colpitore” (Karrar in persiano). Anche «cinesi, russi, israeliani, pachistani, georgiani» hanno già i loro droni, «come altri 30 Paesi» fra cui l’Italia. E ovviamente abbiamo molti Uav già in casa. La notizia è ufficiale, anche se minimizzata: una flotta di droni è, dal 16 settembre 2010, a Sigonella in Sicilia, per conto della Nato.

«L’odore dei soldi» è il titolo del capitolo in cui l’autrice fa i conti in tasca ai fabbricanti di droni, un mercato che coinvolge anche l’italiana Finmeccanica. Cifre impressionanti. Dall’altra parte un ragionamento molto semplice ma ineludibile: cosa accadrebbe se una piccola parte di questo denaro invece che in armi andasse a curare le piaghe sociali dei Paesi dove le guerre dilagano?

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