La luna nel cinema di fantascienza (e dintorni)

di Gian Filippo Pizzo

L’immagine del volto della Luna con una smorfia di dolore per la navicella spaziale conficcata nell’occhio destro è da tempo diventata iconica, utilizzata per pubblicità, copertine, manifesti eccetera. Si tratta in realtà di un fotogramma di un celebre film, Il viaggio nella Luna di Georges Méliès del 1902, che possiamo considerare il primo film di fantascienza della storia (anche se il genere, in inglese science fiction, sarebbe nato ufficialmente nel 1926 con la pubblicazione della rivista Amazing Stories). L’arte cinematografica era invece nata il 28 dicembre 1895, quando Auguste e Louis Lumière avevano proiettato per la prima volta una pellicola in una sala con pubblico pagante, ma dal punto di vista tecnico a loro si devono solo dei miglioramenti al lavoro di altri (tra i quali Thomas Alva Edison), miglioramenti comunque essenziali: i fori a lato della pellicola, che permettono il trascinamento regolare della stessa, e l’uso di una unica apparecchiatura – il cinématographe – sia per filmare che per proiettare. Se i fratelli Lumière filmavano quasi solo scene di vita reale fu il citato Méliès, uomo di teatro che si appassionò alla novità, a intuire che il cinematografo poteva servire anche per una narrazione. Successe per caso: mentre riprendeva il traffico in un boulevard di Parigi gli si inceppò la macchina e quando più tardi sviluppò la pellicola vide come per magia un landau trasformarsi in un carro funebre; la tecnica del “fermo immagine” o stop motion – che per decenni sarebbe stato il principale “trucco” cinematografico – gli consentiva di sviluppare coerentemente una storia ed è per questo che nel cimitero di Père Lachaise di Parigi, dove è sepolto, è ricordato come “Il creatore della spettacolo cinematografico”. Tra le tante pellicole da lui dirette e interpretate, tutte di argomento fantastico, Le voyage dans la Lune è il più importante e celebrato: fu un grande successo internazionale, tanto che sembra persino che le sale cinematografiche siano nate proprio per poterlo proiettare, mentre in precedenza si utilizzavano i teatri di prosa. E’ chiaramente ispirato al romanzo Dalla Terra alla luna di JulesVerne in tutta la prima parte, quella relativa alla progettazione, alla costruzione e al lancio della navicella, mentre la seconda parte è dovuta all’immaginazione del regista. Non è credibile la tesi che questa parte sia ispirata a I primi uomini sulla Luna di Wells perché la trama è molto diversa, semmai le si avvicina di più la versione di Segundo de Chomon. Ricordiamo infatti che nel romanzo di Verne, e nel suo seguito Attorno alla Luna, i terrestri non arrivano sul nostro satellite, mentre nel film di Méliès vi atterrano, si scontrano con i sui abitanti che non sono amichevoli ma per fortuna possono essere sconfitti a colpi di ombrello (!), poi tornano indietro semplicemente lasciando che la capsula spaziale “cada” verso la Terra, dove sono accolti con grandi onori. Per l’epoca il film può considerarsi un kolossal: vi erano una quantità di comparse, tra cui le ballerine del corpo di ballo dello Châtelet e gli acrobati delle Folies-Bergère, e la sua durata, che pare in origine fosse di ventuno minuti mentre le copie oggi rimaste sono di quindici, era notevole; alcune copie furono colorate a mano (oggi ne sopravvive solo una). In effetti è un tripudio di inventiva, effetti speciali, costumi sfarzosi.

Questo successo diede ovviamente impulso alla cinematografia lunare e già nel 1908 vi fu un secondo viaggio con Excursions dans la Lune dovuto a Segundo de Chomon, altro cineasta famoso all’epoca e che aveva lavorato con Méliès, che per la verità è un vero e proprio plagio del film precedente – anche se allora il concetto di plagio non esisteva – perché ne segue pedissequamente tutta la messa in scena, differenziandosi solo per gli effetti speciali, forse un po’ più tecnici ma meno immaginifici. Lungo tuttavia solo 7 minuti, ha qualche piccola differenza: la navicella spaziale non colpisce l’occhio della Luna ma vi entra in bocca, e i terrestri sono ben accolti dai seleniti con un balletto e lasciati ripartire tranquillamente. Dopo un altro film dallo stesso titolo, ma in inglese: A Trip to the Moon, nel 1914, del quale non si sa niente perché è perduto, è la volta del romanzo di Herbert George Wells I primi uomini sulla Luna a essere trasposto per il cinema nel 1919 dagli inglesi Bruce Gordon e J.L.V. Leigh. Anche questo The First Men in the Moon è oggi perduto ma ne sono sopravvissuti alcuni fotogrammi e rimane una recensione dalla quale si capisce che è abbastanza fedele al romanzo, sia pure con l’aggiunta di una storia sentimentale e di un lieto fine. La Luna di queste opere è descritta come dotata di atmosfera anche se molto rarefatta, di acqua e di rare piante, e abitata da una popolazione molto evoluta che vive nel sottosuolo. Di tutt’altro avviso è Fritz Lang, che dieci anni più tardi descrive una Luna deserta e inospitale ma ricca di oro, che è il motivo per il quale viene organizzata la spedizione. Tratto da un romanzo dell’anno prima di Thea von Harbou, sceneggiatrice allora moglie del regista, Una donna sulla Luna è l’ultimo film muto di Lang e probabilmente anche il più brutto di un regista che con I Nibelunghi e Metropolis aveva filmato due assoluti capolavori. L’intreccio melodrammatico, con il triangolo amoroso, il capitalista avido e l’amore che alla fine trionfa, è veramente penoso, ma in questa sede sono altri i particolari che ci interessano, e precisamente l’accuratezza scientifica dei dettagli del volo, per i quali il regista si era rivolto a due pionieri della missilistica, Willy Ley e Hermann Oberth, i cui calcoli furono così accurati e talmente simili ai progetti reali dei razzi V1 e V2 che la Gestapo alla fine della Seconda Guerra Mondiale li fece sparire. Altro particolare curioso è che fu in occasione di questo film che venne inventato il “conto alla rovescia” poi divenuto abituale in occasioni di lanci spaziali e in tante altre.

Con questo film si chiude il periodo del cinema muto e per avere un altro film “lunare” si dovrà aspettare il dopoguerra, esattamente il 1947, quando, in un film messicano, Buster Keaton va sulla Luna. In realtà si racconta di un poveraccio che finisce per sbaglio in un razzo ed è convinto di essere atterrato sul nostro satellite, dove trova degli esseri identici a noi ma dal comportamento molto bizzarro: il razzo ha fatto solo un breve volo ed è rimasto sulla Terra, per cui la conclusione di questa commedia satirica, non molto ben riuscita e con il celebre attore ormai decaduto, è che i veri “alieni” siamo noi stessi. Una vera – sempre in senso cinematografico, dove intanto è arrivato l’uso regolare del colore – spedizione sulla Luna si ebbe poi nel 1950 con Uomini sulla Luna, film dallo stile quasi documentaristico e molto accurato dal punto di vista tecnologico: non a caso i consulenti sono gli stessi di Die Frau im Mond, ossia gli ingegneri spaziali Hermann Oberth e Willy Ley, dopo la guerra emigrati in America. La storia è tutta concentrata sull’impresa del viaggio extraplanetario, dell’esplorazione del nostro satellite e del problematico ritorno sulla Terra, senza avventure strane e persino con l’assenza di qualsiasi storia personale o sentimentale che coinvolga gli astronauti (per una volta Hollywood fa a meno di mogli preoccupate o di fidanzate trepidanti). Sarà un successo che aprirà la strada ai kolossal fantascientifici, da attribuire principalmente al produttore di origine ungherese George Pal, che si occupa personalmente degli effetti speciali che vinceranno l’Oscar e che si affida a collaboratori di prim’ordine: il regista Irvin Pichel, il disegnatore Chesley Bonestell che dipinge fondali molto realistici ma anche affascinanti, lo scrittore Robert Heinlein il cui romanzo Razzo G.2 ispira il soggetto e che partecipa anche alla sceneggiatura. I titoli di coda hanno un sapore profetico: dopo il tradizionale THIS IS THE END compare OF THE BEGINNING, è la fine solo dell’inizio. Dimenticabile il successivo Quei fantastici razzi volanti di Arthur Hilton del 1953, forse meglio conosciuto anche in Italia con il titolo originale Cat Women of the Moon, che racconta di una spedizione che raggiunge il nostro satellite, dove trova atmosfera respirabile e gravità pari a quella terrestre, e una popolazione femminile dotata di poteri telepatici (ma solo nei confronti delle donne) che minaccia di invadere la Terra.

Poco dopo, nella vita reale, si ha il primo satellite artificiale messo in orbita attorno alla Terra, lo Sputnik 1 del 1957, ed è già cominciata la “corsa allo spazio” che vede contendere USA e URSS, e anche la letteratura e il cinema di fantascienza hanno incrementato la loro produzione, quindi non è strano trovare delle opere che satireggiano la situazione. Il grande Antonio de Curtis nel 1958 gira per la regia di Steno Totò nella Luna, una farsa tipica dell’epoca, una commedia degli equivoci che vedrà il Principe della risata, ben coadiuvato da Ugo Tognazzi, Sylva Koscina, Luciano Salce, Sandra Milo e altri bravi caratteristi, arrivare per errore sul nostro satellite. Totò è un tipografo e dirige una rivista scandalistica, sulla quale il suo fattorino Achille (Tognazzi) riesce a pubblicare un racconto di fantascienza, provocando le ire del proprietario; tra i due scoppia una lite e Achille viene ricoverato, ma si scopre che il suo sangue è ricco di “glumonio”, una sostanza che lo rende adatto ai viaggi spaziali. Per questo viene contattato da Cape Canaveral, ma per una serie di equivoci alla missione spaziale parteciperà Totò, che si ritroverà sulla Luna dove incontrerà una copia di Achille… Per quanto non sia tra i migliori di Totò si tratta di una divertente parodia della fantascienza, sia cinematografica che letteraria, in particolare di La morte viene dallo spazio del 1958, primo film italiano di fantascienza, e di L’invasione degli ultracorpi (1956), i cui celebri “baccelloni” diventano qui “cosoni”. L’anno successivo troviamo il mediocre Missili sulla Luna di Richard Cunha, remake sexy dell’altrettanto non memorabile Cat Women of the Moon, nel quale due delinquenti si nascondono in un razzo che arriva sul nostro satellite per scoprire che è abitato da una popolazione di fanciulle che vivono nel sottosuolo perennemente minacciate da ragni giganti. Nonostante l’ambientazione sotterranea è ben visibile il paesaggio del Red Rock Canyon in California – dove il film fu girato – con le sue piante e il cielo terso: un habitat decisamente molto poco lunare! Altro film dall’intento satirico è Mani sulla Luna di Richard Lester (1962), ambientato nel minuscolo e inesistente Ducato di Gran Fenwick che era già stato teatro delle vicende raccontate ne Il ruggito del topo (1959). Questa volta si scopre che il pregiato vino prodotto nel Ducato è adattissimo come propellente e quindi viene chiesto l’aiuto di USA e URSS per poter finanziare l’impresa di una spedizione sulla Luna; le due potenze sospettano che sia un trucco – come in effetti è – per poter avere aiuti finanziari, ma non possono tirarsi indietro: finirà che la spedizione riesce davvero e sulla Luna verrà innalzato il vessillo di Gran Fenwick. Il film, nato per satireggiare la mania spaziale delle due superpotenze finisce per essere più comico che satirico, ma è una serie di gag molto divertenti, di puro humour britannico (il “conto alla rovescia” viene interrotto per non saltare il tradizionale tè delle cinque!), con situazioni ben congegnate rette da attori di razza quali Terry Tomas e “miss Marple” Margaret Rutherford. Uno dei personaggi minori, lo scienziato tedesco emigrato in America che inneggia a Hitler, deve aver ispirato Stanley Kubrick per il suo Dottor Stranamore.

Segue un nuovo adattamento de I primi uomini sulla Luna di H.G. Wells con Base Luna chiama Terra del 1964 diretto da Nathan Juran e sceneggiato da Nigel Kneale (creatore del personaggio del Professor Quatermass) con gli effetti speciali del famoso Ray Harryhausen. Pur con qualche differenza nella storia, come la distruzione dei seleniti causata dal germe del raffreddore di cui soffre il professor Cavor (idea ripresa da un altro romanzo wellsiano, La guerra dei mondi del 1897) e privo, come del resto altre pellicole ricavate dal romanzo, della descrizione della società selenita (che nel romanzo è di tipo socialista, secondo l’ideologia di Wells) il film si fa apprezzare per la messa in scena. Nel 1967 è la volta di un grande regista, Robert Altman, di occuparsi di una spedizione lunare in Conto alla rovescia, film che avrà però delle vicissitudini produttive, Altman sarà allontanato e il finale sarà girato da William Conrad così che uscirà nel febbraio dell’anno dopo. Il motivo del dissidio sta nel fatto che Altman si concentra sull’aspetto psicologico dei protagonisti e sui retroscena culturali e politici dell’impresa – e ci riesce benissimo – mentre la Warner Bros avrebbe voluto più azione. In sintesi la storia racconta di una spedizione statunitense da fare al più presto per non essere battuti dai Russi, complicata dal fatto che i sovietici hanno approntato un equipaggio civile e gli USA devono adeguarsi, sostituendo in corsa il militare designato; la spedizione riuscirà, al contrario di quella russa, anche se l’astronauta riesce a salvarsi per il rotto della cuffia, in un finale di tensione. Alla fine si tratta di un prodotto modesto, valido dal punto di vista tecnico grazie al ricorso a materiale documentario, con Robert Duval e James Caan che esprimono ottimamente le esigenze autoriali di Altman.

Sebbene la trama sia molto più estesa e non concentrata sulla Luna non si può qui non ricordare 2001: Odissea nello spazio, immortale pellicola di Stanley Kubrick, perché alcune scene importanti sono ambientate proprio sul nostro satellite, nel cratere Clavius dove c’è la base statunitense e soprattutto nel cratere Tycho dove viene ritrovato il celebre “monolito” che è alla base del film. Ma siamo arrivati al 1968: appena un anno dopo l’uomo metterà davvero i piedi sulla Luna e l’epoca del sogno sarà finita perché ne comincia un’altra. Infatti proprio in occasione dell’allunaggio molti sostennero la fine della fantascienza (dimenticando tra l’altro che questo genere letterario non era limitato all’esplorazione spaziale ma anzi la sua parte più importante era quella che specula sul futuro, non solo dal punto di vista tecnologico ma soprattutto da quello sociale e politico) e in effetti la Luna viene messa da parte, ma solo perché l’orizzonte si amplia, ora si pensa a Marte e ancora più lontano. Non è quindi un caso che la successiva cinematografia lunare non si occupi più dei tentativi di esplorazione del nostro satellite ma, proprio a partire da 2001, lo consideri già colonizzato. Infatti nel film successivo, il modestissimo Luna Zero Due del 1969, la Luna del 2021è già parzialmente abitata e vista come la “nuova frontiera” da conquistare; la pellicola fu pubblicizzata come il primo “western spaziale” e del genere western segue gli stilemi più banali, dal cavaliere (nel caso un pilota di astronavi) intrepido alla donzella in pericolo, dalla caccia al tesoro (un asteroide interamente di smeraldo) al possidente avido e spietato, dalle scazzottate nel bar alle sparatorie (ovviamente con pistole laser). Prodotto dalla Hammer, giustamente famosa per la sua produzione horror e che non riuscì mai a sfondare nella fantascienza (a parte l’eccezione del ciclo del Dottor Quatermass), e diretto da un Roy Ward Baker in altre occasioni migliore, è mediocre in tutto, dalla scenografia ai costumi (troppo simili a quelli della coeva serie televisiva U.F.O.), dalla trama alla recitazione.

Dovranno passare venti anni perché la Luna si riaffacci nella cinematografia, e, appunto, si tratterà solo di apparizioni sporadiche, senza nessun prodotto che la metta al centro della narrazione. In Moontrap – Destinazione Terra (Robert Dyke, 1989), che mescola civiltà perdute, extraterrestri, esplorazione spaziale, cyborg e scene horror in un pasticcio inenarrabile, due astronauti a bordo di una navicella Apollo trovano sulla Luna i resti di una civiltà terrestre nonché una bella fanciulla in animazione sospesa che si rivela una aliena… Nell’altrettanto dimenticabile LunarCop – Poliziotto dello spazio (Boaz Davidson, 1994), ambientato nel 2050, le colonie lunari offrono una sistemazione migliore rispetto alla Terra, ormai desertificata a causa del buco nell’ozono, ma la trama di tipo spionistico per il possesso di una scoperta che potrebbe migliorare la situazione atmosferica si svolge per lo più su Terra, con un agente selenita mandato a impadronirsi della formula che finisce per aderire a un gruppo di ribelli che contrasta le mire espansionistiche dell’imperatore della Luna. Ancora minori gli accenni che troviamo in altri film: in Star Trek: Primo contatto (Jonathan Frakes, 1996) si dice che la Luna è ormai abitata da cinquanta milioni di persone, in Starship Troopers – Fanteria dello spazio (Paul Verhoeven, 1997) scopriamo che l’accademia della flotta spaziale che combatte contro gli alieni Aracnidi è situata proprio nel nostro satellite, in Austin Powers – La spia che ci provava (Jay Roach, 1999) essa ospita un gigantesco laser con il quale si vorrebbe distruggere Washington (qualcosa di simile c’era già stato in Inferno nella stratosfera di Inoshirō Honda del 1959, in cui l’invasione aliena partiva da una basa situata nel lato nascosto della Luna). E, ancora, in Iron Sky (Timo Vuorensola, 2012) viene scoperta, sempre nel lato nascosto, una colonia segreta fondata da nazisti nel 1945, mentre in Men in Black 3 (Barry Sonnenfeld, 2012) il nostro satellite è stato adibito a colonia penale di massima sicurezza (anche se l’alieno cattivo di turno riesce a evadere), ma sarebbe inutile ricordare tutti i casi in cui ci sono citazioni di questo tenore. Curioso poi il caso di Capricorn One (Peter Hyams, 1978), ispirato dalle teorie negazioniste che peraltro finisce per alimentare: dopo la conquista lunare si progetta quella marziana ma un guasto impedisce la partenza, così la NASA per non perdere la faccia e i finanziamenti inscena un falso “ammartaggio”, che viene però scoperto da un giornalista dando così l’avvio a una vicenda thriller molto ben congegnata. Segnaliamo anche alcuni film in cui la Luna è scomparsa, distrutta dagli uomini (Il pianeta delle scimmie, 1968, di Franklin J. Schaffner; The Time Machine, 2002, di Simon Wells) o dagli extraterrestri come in Guida galattica per autostoppisti (Garth Jennings, 2006), dove viene comunque “ricostruita”, e in Oblivion (2013, Joseph Kosinsk), dove questa distruzione provoca sulla Terra grandi cataclismi, e che comunque è un film rispettabile anche se per altri motivi. Nel frattempo era però uscito, nel 2009, un film che con il nostro discorso ha molto più a che fare a partire dal titolo, Moon di Duncan Jones, talentuoso figlio di David Bowie già regista di videoclip e qui alla sua prima opera lunga. Il protagonista Sam Bell, ben interpretato da Sam Rockwell, lavora alla stazione mineraria Selene (nell’originale Sarang) dove gestisce l’estrazione di rocce dalle quali si estrae l’elio-3 utilizzato su Terra come carburante; è da solo, coadiuvato dalle macchine e ha come unica compagnia una intelligenza artificiale chiamata Gerty. Il suo contratto triennale sta per finire ma proprio un paio di settimane prima del suo previsto ritorno sul nostro Pianeta scopre una copia di se stesso, che ritiene esse un suo clone salvo poi accorgersi di essere un clone egli stesso. Da questo momento in poi la narrazione assume toni drammatici, i rapporti tra lui e l’altro Sam si fanno sempre più problematici e soprattutto egli – e con lui lo spettatore – si chiede cosa ci sia dietro, se esistano altri cloni, chi gestisce il software che permette a Gerty di agire a sua insaputa (infatti gli impedisce di comunicare con la base terrestre), dov’è il Sam Bell originale, eccetera. Non diciamo altro se non che il film è un piccolo gioiello, giustamente lodato, problematico senza essere intellettuale, ottimamente diretto e sceneggiato, con una musica indovinata, e se Duncan Jones ha abbondantemente rubacchiato da altri celebri film (soprattutto Solaris per le copie del protagonista, Blade Runner per l’atmosfera generale, 2001 Odissea nello spazio per il ruolo dell’intelligenza artificiale che ricorda quello di HAL 9000, Atmosfera Zero per l’ambientazione) lo ha fatto con mano leggera e molta intelligenza.

Se finora abbia parlato di film di fantascienza non bisogna però dimenticare che ci sono anche film realistici che si sono occupati della conquista dello spazio e dei problemi da essa derivanti. Un po’ a margine del nostro discorso, perché non riguardano direttamente la Luna, vogliamo qui citare due ottimi biopic: Cielo d’ottobre di Joe Johnston del 1999 e Il diritto di contare di Theodore Melfi del 2016. Il primo racconta la storia di Homer H. Hickam jr., nato povero in una famiglia di minatori e destinato a quel mestiere, che vedendo da ragazzo passare nel cielo il primo Sputnik si appassionò alla missilistica, riuscì a costruire un razzo artigianale e poi a laurearsi in ingegneria fino a divenire responsabile dei motori dello Shuttle e addestratore degli astronauti. Il secondo, molto bello, narra la vicenda di Katherine Johnson, matematica e fisica afroamericana collaboratrice della NASA, che sfidando i pregiudizi razziali e sessisti riuscì a imporre la sua abilità nel fare calcoli e nel calcolare traiettorie – abilità superiore a quella dei suoi colleghi bianchi e maschi – diventando indispensabile per i progetti Mercury e soprattutto per l’Apollo 11: senza di lei e delle sue colleghe parimenti di colore la missione dell’allunaggio non sarebbe riuscita. Sullo stesso tenore Uomini veri di Philip Kaufman (1983), che racconta l’addestramento dei piloti collaudatori americani (Shepard, Glenn, Grissom, Cooper, Schirra, Carpenter, Slayton) fino alla loro promozione ad astronauti del progetto Mercury, e Tramonto di un eroe di David Saperstein (1989) dove un ragazzo un po’ scapestrato e appassionato di astronomia fa la conoscenza di un vecchio astronauta che diverrà suo maestro di vita e lo farà partecipe di un segreto: durante un viaggio sulla Luna aveva rinvenuto un oggetto che non era di fabbricazione umana. Film non eccezionale ma forse ugualmente da riscoprire, è dedicato agli astronauti che persero la vita nell’incidente dell’Apollo 1.

Normalmente etichettato come fantascienza è invece molto realistico Apollo 13 di Ron Howard (1995), ispirato alla vera vicenda della missione ricordata nel titolo, del 1970, che com’è noto ebbe numerosi problemi e rischiò di finire in tragedia: la frase “Houston, abbiamo un problema” (che in realtà era “Houston, abbiamo avuto un problema”) diventò da allora di uso comune. La vicenda era già stata filmata addirittura nel 1974 nel meno riuscito Apollo 13: un difficile rientro di Lawrence Doheny. Come ha ricordato nel suo libro Lost Moon del 1994, servito da base per la sceneggiatura, il comandante della spedizione Jim Lowell dovette annullare l’allunaggio per un’esplosione nel modulo di servizio che causò una perdita di ossigeno e di energia elettrica, cosa che mise a rischio anche la fase di rientro, complicata inoltre da un blackout nelle comunicazioni. La situazione destò allarme in tutto il mondo e tutti stettero per tre giorni incollati a radio e tv per seguirne l’evoluzione; l’ottimo Ron Howard dà un resoconto puntuale della vicenda, compresi i dettagli tecnici, limitandosi a drammatizzare qualche episodio per esigenze sceniche ma senza tradire la storia, ben coadiuvato dalla sceneggiatura dello stesso Lowell e di Jeffrey Kluger (coautore di Lost Moon), dalla collaborazione tecnica della stessa NASA, dagli attori Tom Hanks (che interpreta Lowell, questi presente in una comparsata), Bill Paxton, Kevin Bacon, Gary Sinise, Ed Harris. Il budget miliardario permette sofisticati effetti speciali e il risultato è un suspense spaziale molto ben congegnato e giustamente pluripremiato. A proposito di missioni Apollo – e torniamo per un attimo alla pura finzione – vale la pena segnalare benché mai arrivato in Italia Apollo 18 di Gonzalo López-Gallego (2011), girato con la tecnica del falso documentario o found footage, che prende lo spunto da una missione mai realizzata (si sarebbe dovuta svolgere nel 1974). Vi si immagina che la diciottesima spedizione della serie trovi sulla Luna delle videoregistrazioni lasciate da precedenti astronauti che documentano la presenza di creature aliene ostili e pericolose, e questo sarebbe il motivo alla base della chiusura delle missioni lunari. Siamo più dalle parti dell’horror, genere che peraltro mancava in questa rassegna! Chiudiamo con un’altra biografia, quella dell’astronauta Neil Armstrong, raccontata da Damien Chazelle in First Man – Il primo uomo (2018) sulla sceneggiatura di Josh Singer tratta dal libro omonimo di James R. Hansen. Il film, grazie anche all’accuratezza della fonte letteraria, ci restituisce la figura di quest’uomo riservato, padre amorevole e marito perfetto, pilota in gamba, sognatore e determinato. Ne ripercorriamo la vicenda umana, dalla drammatica morte della figlioletta di quattro anni alla decisione di candidarsi per un posto di astronauta, dall’addestramento alle prime missioni, dal rapporto con i colleghi fino all’apoteosi dell’allunaggio: tutta la seconda parte è un inno all’americanissimo spirito della frontiera, al sogno della conquista, al valore della tecnologia. Il sempre più emergente Chazelle dirige con passione e competenza, citando consapevolmente 2001 di Kubrick nei primi piani che inquadrano il casco dell’astronauta con i suoi riflessi e nella scena di quasi danza dei moduli spaziali sorretta dalla splendida musica di Justin Hurwitz (anche se qui non è un valzer); Ryan Gosling è perfetto nel ruolo principale, ottimamente coadiuvato da Claire Foy che interpreta la moglie e dagli altri attori. Al di là delle differenze tra le biografie di Armstrong e di Lowell e dal fatto che Apollo 13 era drammatico mentre questo è più incentrato sulla psicologia di Armstrong, tutta la prima parte è quasi un remake del precedente: scene simili nell’addestramento degli astronauti e nei rapporti tra di loro, simili i comportamenti delle rispettive mogli, stesso afflato verso la meta, uguali la centrale di controllo di Houston e i veicoli spaziali (d’altra parte le navicelle Apollo e i razzi Saturn erano gli stessi). Senza nulla togliere alla bellezza di questo film, che anzi ha qualcosa di unico: pur sapendo benissimo come finirà la storia lo spettatore viene mantenuto nella tensione di sapere come di evolverà la vicenda.

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