La mia banca
di Sergio Mambrini
Vi avverto subito. Quando parlo della mia banca, non intendo per niente che lei sia davvero mia. Mi avete capito, no? «La mia banca» è un modo di dire,
un semplice eufemismo, anche un po’ approssimativo direi.
Allora, quando entro nella mia banca, a destra, incontro subito l’ufficio del direttore con la porta spalancata, come il solito. A esser sinceri qualche volta si presenta sprangata, per nascondere volti e voci di clienti di maggior riguardo. Io e lui ci conosciamo da oltre trent’anni. E’ più giovane di me, alto, asciutto, col ciuffo dei capelli castani lungo e liscio che gli copre sempre la fronte, e quando gli cade sugli occhi, lo sposta con un gesto opportuno della mano sinistra, senza curarsi di ripetere quel movimento con una frequenza ritmica. S’intuisce dal sorriso simpatico che forse avrebbe preferito essere un atleta della pallavolo o, che ne so, della pallanuoto. Insomma, io me lo immagino con una palla in mano, non sulla poltroncina dove sta seduto. Sono passati gli anni, eppure ha ancora la faccia imberbe di un bambino. E chi non si fiderebbe di lui? Quando ci parliamo, e lo facciamo quasi ogni volta che ci vediamo, ci confidiamo le nostre delusioni, ma anche i nostri sogni. Commentiamo insieme le scelte stupide dei nostri governi. Quante ne abbiamo vissute! Oh, trent’anni mica son noccioline!
Gli altri s’iscrivono a un partito per discutere, oppure vanno dal prete. Noi due no, ci parliamo in banca, non in una qualsiasi, ma esattamente nella mia banca. Adesso, forse, cominciate a capire perché la chiamo proprio così.
Nei partiti si fa politica, dal prete s’impara cos’è la Chiesa. Nella mia banca, invece, mescoliamo la vita con i soldi. In fondo è quello che facciamo tutti. Ogni giorno ci confrontiamo con questi due valori. Due valori? Mah! Tuttavia, tanto il politico quanto il prete si tengono ben stretti sia la fede che i soldi. Per loro, la vita e la grana sono senz’altro valori, soprattutto la seconda.
Nella mia banca mescoliamo la vita (che è quel che è ormai) con le banconote e gli spiccioli che passano da una mano all’altra, o meglio da un conto all’altro. Il mio direttore lo chiamerò Alberto. E’ un nome fittizio, di comodo. Potrebbe chiamarsi anche Paolo, Giovanni o magari Marco. Insomma Alberto l’ho promosso “Maestro”, proprio con la maiuscola, nel senso di rispetto che si dà a questa definizione. Come si fa con il maestro di scuola elementare, di yoga o di arti marziali, di teatro e di cinema. Fellini, per esempio. Alberto ci scherza, ma son convinto che gli piace. In definitiva prova a insegnarmi come tirare avanti, con i soldi beninteso. Mescola i suoi consigli con l’indignazione per le scelte delle banche centrali. Mi spiega le regole elementari dell’onestà povera ma utile per vivere. Nient’altro, tuttavia non è poco. Io e lui ragioniamo dei nostri denari solo per sbeffeggiare la sorte. Infatti, quando chiedo un prestito mi spedisce dalla sua vice. Luciana, anche questo è un nome di fantasia, ha il suo ufficio-box al lato opposto del Maestro. Con lei parlo delle sue vacanze in India o in America e delle mie camminate sui monti Lessini. A volte ci raccontiamo dei nostri figli e anche di quello che scrivo. Le narro i miei libri perché non li leggerà comunque. Passa quasi dieci ore al giorno davanti allo schermo del pc. Quando arriva a casa detesta leggere perfino il nome sul campanello. Insomma, tiriamo fuori i nostri problemi e ci ascoltiamo. Credete sia poca cosa?
Poi parliamo dei soldi e io m’incazzo sempre. Non con lei, ovviamente, ma per il modo con il quale le hanno imposto di stiracchiare sugli interessi attivi e abbondare, invece, su quelli passivi. Discutiamo sui fidi, su ogni operazione contabile che non sia un incasso. A volte taglia le spese, le mie ovviamente. E mi spiega com’è complicato il suo lavoro. C’è sempre qualcuno che cerca di fregarla, vuoi la direzione generale, vuoi qualche piccolo imprenditore che, non ottenendo soddisfazione dai creditori, di solito inchioda i suoi debiti in banca con noncuranza. Dopo, lei ha le grane, non la grana. E Luciana si sfoga con me. Quando telefona alza la voce con espressione seccata. Le viene a noia, ma quasi sempre giudica di non aver ottenuto soddisfazione, o meglio è lei che non sembra contenta, forse anche un po’ delusa.
«Móla tűt Luciana» le consiglio. Ma capisco che spreco il fiato. La sua vita pare inchiodata a quella scrivania.
Del resto, la propria condizione ognuno di noi l’ha scritta nel Dna. Tranne qualche bizzarro caso che conferma la regola. Glielo dico ad Alberto che non è bello lavorare così. «Tu che sei un Maestro devi trovare la soluzione». Lui dondola la testa e mi dice che non gestisce più alcuna virtù decisionale. «Sono in balia dei grandi capi» e scuote il ciuffo. Rifletto, lo guardo ironico e gli comunico «da oggi sei un bidello», ovviamente minuscolo. «Non sentirti offeso. Anche mio nonno Umberto faceva il bidello. Gli volevano bene tutti. Anche se non poteva decidere un bel nulla, riusciva sempre a rendersi utile. Ricordati che le scuole le fanno funzionare i bidelli. Almeno una volta era così». Alberto si mette a ridere contento per essere diventato il bidello della mia banca. Sa che anch’io gli voglio bene perché è una buona persona.
Ma la domanda che mi faccio da un po’ di tempo è: anche una banca può essere buona?