La mirabile storia di Joyce e Emilio Lussu

di Natalino Piras

da Diari di Cineclub, marzo 2024, n. 125

Nico Orunesu, “Figure tribali”, trittico, cm 100×300, olio su tela, 2020

La mirabile storia di Joyce e Emilio Lussu

È una storia di cui si ha estremo bisogno, in questo tempo. Una storia cinematografica, di avventura, di coraggio. Una storia d’amore tra l’hombre vertical e la bellissima partigiana. Nel segno della lotta per la Libertà, insieme agli oppressi, gli ultimi, i dannati della terra, che attraversa tutte le guerre e tutte le vince. Nel segno dell’organizzazione della speranza e dell’utopia, l’amore come parte e come tutto. L’amore reciproco, l’amore per il prossimo come continua lezione

Il mito di Emilio Lussu (Armungia nel Gerrei, tanto simile alla Barbagia nonostante sia a sessantacinque chilometri da Cagliari, 4 dicembre 1890 – Roma 5 marzo 1975) è dentro due capolavori della letteratura universale, Marcia su Roma e dintorni (1931) e, riguardante fatti accaduti prima, Un anno sull’altipiano (1938) da cui Francesco Rosi ha tratto un film Uomini contro (1970) di cui ci siamo spesso occupati in Diari. Sono due romanzi autobiografici e da sardo dico che sono di sarditudine globale. La versione americana di Un anno sull’altipiano ha come titolo The Sardinian Brigade.

I due libri sono stati scritti da Emilio Lussu in esilio, a Parigi, dopo che insieme a Fausto Nitti e Carlo Rosselli erano fuggiti, su una barca a motore, dall’isola di Lipari, là confinati, condannati dal tribunale speciale, perché antifascisti, oppositori al fascismo, combattenti, con la parola, con la postura, con le armi, contro il fascismo. Lussu era finito al confino perché aveva ucciso una persona, uno squadrista, che dava l’assalto alla sua casa, a Cagliari. Fece 13 mesi di carcere e al processo gli fu riconosciuta la legittima difesa. Però restava la colpa di essere antifascista. Da lì il confino.

In Marcia su Roma e dintorni, Lussu di tutto questo parla, questo racconta, con un stile secco, essenziale, antiretorico, ironico, lo stesso stile di Un anno sull’altipiano dove il tenente Emilio Lussu, andato volontario alla guerra, scopre in trincea e nei continui assalti alla trincea austriaca, l’orrore della guerra, la ferocia e la stupidità degli alti comandi che, insensibili a qualsiasi umanità mandano al macello migliaia e migliaia di persone: per il re e per la patria, mai così infami e vituperabili, per imporre la disciplina militare. Per il re e per la patria (King and country, 1964, da una pièce teatrale di John Wilson basata su un racconto di James Landsale Hodson), diretto da Joseph Losey, racconta di un processo svoltosi in trincea, fronte inglese, prima guerra mondiale, contro un soldato (Tom Courtenay) accusato di diserzione. Inutilmente difeso dal capitano Hargreaves (Dirk Bogarde) il soldato verrà fucilato, nel fango della trincea, appena emessa la sentenza. Una situazione di cui Un anno sull’altipiano potrebbe essere contenitore e contenuto. Quante decimazioni, quanti fucilati a caso, per fanatismo, per onore che si fa continuo disonore. Lussu, il tenente Lussu, poi su capitanu Lussu della Brigata Sassari, diventato mito per i sardi e non solo (uno su tutti il padre di Andrea Camilleri, siciliano commilitone dei sardi e di altri soldati del Sud, ufficiale della Brigata Sassari), è dentro questa guerra dall’inizio alla fine. Nei macelli, nella loro insensatezza, si rende conto di come la guerra come moloch oltraggi e divori la giovinezza, la sua e quella della maggior parte dei combattenti, anche i nemici, tutti quanti ammazzano senza odio, costretti a considerare nemico chi, sulla trincea opposta, è invece un proprio simile. Il tenente Ottolenghi, Gian Maria Volontè nel film di Francesco Rosi, incarna bene, nella narrazione lussiana, la persona-personaggio che contesta il sistema dei generali macellai, il fanatico e ottuso generale Leone, comandante di divisione, calco di Cadorna, comandante in capo dell’esercito italiano, responsabile tra l’altro della disfatta di Caporetto. Nel film di Rosi, il tenente Ottolenghi enuncia quanto invece il romanzo narra come una spettacolare sequenza cinematografica. È l’assalto al magazzino del nemico che contiene le provviste alimentari, salami, prosciutti, cioccolato, vino, cognac. Un anno sull’altipiano è impregnato dell’odore del cognac, sovrasta tutti gli altri sentori, persino quello acre della polvere da sparo mescolata all’inodore del fango, al puzzo del sangue e dello sterco, odore del cognac che si beve prima dopo e durante gli assalti, insopportabile per Lussu che non beve liquori. Il nemico non sono gli austriaci ma gli stessi soldati italiani, incapaci a combattere e perciò messi a guardia della riserva alimentare. Ottolenghi e i suoi danno l’assalto al magazzino, riuscendo nell’impresa, simulando un combattimento, sciando sulla neve. Il tenente Lussu, che ha imparato l’assurdità della guerra, sta dalla parte di Ottolenghi. Il tempo di narrazione e del narrato del romanzo si colloca tra il 1916-1917, luogo l’altipiano di Asiago.

Marcia su Roma e dintorni e Un anno sull’altipiano istituiscono temine di paragone con altre opere letterarie e cinematografiche.

Dicevamo del generale Leone: quello che ordina la fucilazione di un soldato che ha dato l’alt a quanti seguivano per evitare di essere massacrati, solo perché ha contravvenuto a un ordine; il generale che saluta irrigidendosi sull’attenti il soldato fucilato (lui crede, in realtà è un altro ucciso prima dagli austriaci che il capitano Zavattari nel romanzo, il tenente Ottolenghi nel film, gli fa sfilare sopra una barella); il generale che viene salvato da un fantaccino, poi massacrato di improperi e botte dai commilitoni, mentre sta per cadere in un burrone perché sbalzato di sella da un mulo; il generale che dato per morto scatena pazza gioia tra gli ufficiali e lui, sempre a cavallo di mulo, appare mentre quelli levano le coppe al cielo e chiede cosa stiano festeggiando, unendosi al brindisi dopo che il capitano, ancora Zavattari, riesce a dire che è per la medaglia d’oro al battaglione. Il generale Leone è interpretato in Uomini contro dall’attore francese Alain Cuny. Somiglia in maniera straordinaria, per come si muove, per la faccia, per la rigida e crudele ottusità, per l’ambizione da guerrafondaio, a George Macready, il generale Mireau in Orizzonti di gloria (Paths of Glory, 1957, dal romanzo di Humphrey Cobb) di Stanley Kubrick. Qui la pazzia della guerra e la criminalità degli alti comandi si trasferisce sul fronte francese. Anche qui fucilati per esempio, soldati estratti a sorte, inutilmente difesi dal colonnello Dax (un grande Kirk Douglas) contro il pazzo generale Mireau che già per punirli di presunta codardia aveva fatto aprire il fuoco contro i suoi stessi soldati. Anche qui Un anno sull’altipiano è contenitore e contenuto.

Il romanzo di Lussu è archetipico, necessario oggi più che mai, perché è un continuo atto d’accusa contro l’inutilità e la vergogna della guerra.

Tante le comparazioni possibili anche per Marcia su Roma e dintorni. Restando in piano cinematografico e focalizzando sull’organizzazione della fuga da Lipari, carcere chiuso e prigione aperta, la stessa capacità di narrazione lussiana la troviamo, nella pur vasta produzione di opere degne e pure capolavori, nel bianco/nero del film Il buco (Le trou, 1960, dal romanzo omonimo di José Giovanni) di Jacques Becker, storia di un’evasione perfettamente organizzata però scoperta per colpa di un traditore, e in Papillon (1973, dall’omonimo romanzo autobiografico, la fuga per antonomasia, di Henri Charrière) di Franklin J. Schaffner, tra gli sceneggiatori Dalton Trumbo, come Lussu hombre vertical.

A Parigi, luogo dell’esilio, luogo di scrittura dei suoi capolavori, Emilio Lussu incontra Joyce Salvadori, di 22 anni più giovane, bellissima, occhi verdi, antifascista intrepida figlia di antifascisti coraggiosi e intrepidi, nella struttura pensante e costruente, come Lussu, della Resistenza al nazifascismo. È immanente la guerra civile spagnola (1936-1939) cui Lussu prende parte nei primi mesi per poi tornare in Francia per riorganizzare le fila, partecipe Joyce, di Giustizia e Libertà dopo l’uccisione dei fratelli Rosselli, opera di sicari fascisti.

Emilio Lussu e Joyce Salvadori si sposano, lei era già sposata, e l’una penserà sempre all’altro nel generale e nel particolare, nell’esilio e nella lotta, nella continuata guerra, giusta, contro il male nel mondo che incarnano Franco, Mussolini e Hitler, in quello che lo storico Eric Hobsbawm ha chiamato «secolo breve»: compreso tra due guerre mondiali, genocidi e stermini, olocausto nucleare compreso.

Emilio è parte attiva nel pensare, e organizzare, anche sbarchi in Sardegna al servizio dell’operazione Overlord, quella dello sbarco in Normandia, a Londra e, nel “Principio Resistenza”, a Roma, dopo l’8 settembre 1943. Si è staccato dal Partito Sardo d’Azione di cui è stato fondatore insieme a Camillo Bellieni e Davide Cova, perché da partito dei combattenti e reduci che reclamavano terre e giustizia sociale, si è trasformato nel partito dei latifondisti e dei printzipales, sostenitori del fascismo. Nel secondo dopoguerra, Emilio Lussu, tra i padri della Costituzione, sarà ministro con i governi di Ferruccio Parri e Alcide De Gasperi, passerà, disciolto il Partito d’Azione che era nato da Giustizia e Libertà, al Partito Socialista da cui, per contrasti con Nenni, passerà poi, ancora al Partito Socialista di Unità Proletaria. Molte le contraddizioni ma sempre hombre vertical.

Con Joyce sono sempre insieme, anche nelle lontananze.

Joyce è in Angola per tradurre le poesie anticolonialiste di Agostinho Neto, in Turchia per incontrare in carcere e tradurre il grande poeta Nazim Hikmet.

Joyce in Sardegna. Insieme a Emilio e il loro figlio Giovanni, vanno ad Armungia. Scrive e pubblica molti libri sull’isola antica di cui il marito è segno importante. Ce n’è uno, La sibilla barbaricina, appieno nei contesti di Emilio che a partire dal «racconto di caccia e magia» Il Cinghiale del Diavolo (1929) scritto anche questo al tempo dell’esilio parigino, recupera il senso vivificante della tradizione, il villaggio che entra nel globale del villaggio moderno e contemporaneo, elettronico.

La sibilla barbaricina, pubblicato nel 2006 dall’Istituto Superiore Regionale Etnografico risulta un indispensabile libro di viaggio e di conoscenza. Vi concorrono Clara Gallini, Gino Satta, Luisa Selis Delogu come collaboratrice. Illuminante il preludio di Joyce che mette da subito a fuoco il personaggio più importante, Elisabetta Lovicu, colei che Raffaello Marchi chiama tiìna, maga, guaritrice e, appunto, sibilla, indovina. Dice Joyce Lussu che insieme al marito Emilio agli inizi degli anni Cinquanta aveva accompagnato Raffaello Marchi in una delle sue puntate a Orgosolo dove la sibilla abitava insieme al marito e ai figli: «Elisabetta non era cristiana. Non andava in chiesa e non temeva il prete. Mentre il prete temeva lei, e non osava criticarla che sottovoce, nel buio della sacrestia».

Joyce la ritroviamo come autrice di una postfazione a Framas (1999), vuol dire fiamme, un libretto che contiene s’attitu, la lamentazione funebre della tradizione sarda, di una madre, Francesca Dadde Farina, per il figlio, Sebastiano Farina, morto trentenne in un incidente di moto, in Toscana, famiglia pastorale emigrata da Bitti, in Barbagia. Il libretto contiene pure poesie dello stesso Sebastiano e un Addio della sorella Rosa Francesca.

Dice Joyce: «Non si muore mai del tutto, quello che abbiamo fatto, detto e pensato lascia una traccia: magari una parola o una frase riproposta da un altro che vive dopo di noi; o magari un gesto delle mani o un modo di socchiudere le palpebre o un sorriso uguale al nostro che appare in un altro viso e assicura la continuità e la memoria di ciò che siamo stati.

Tutti nella nostra vita abbiamo vissuto e sofferto delle perdite e affrontato il dolore di non vedere più, mai più il viso di una persona amata, tutti siamo stati divisi e io posso tentare di farti un po’ di compagnia soltanto raccontandoti come ho reagito a una perdita immensa.

Con Emilio le nostre vite erano intrecciate “come i vimini di un canestro/come l’olivastro e l’innesto/come due storie raccontate dalla stessa voce”.

Il nostro consorzio quarantennale era anche punteggiato di assenze».

Dite se tutto questo non è romanzo, dite se tutto questo non è cinema, dite se tutto questo non è mirabile storia.

Natalino Piras     da qui 

https://www.facebook.com/natalino.piras

Nico Orunesu Figure tribali”. 2019. Olio su tela e iuta, cm 100×120

Immagini: Nico Orunesu

*le immagini ai lati nel “trittico” sono ispirate alla foto di Tina Modotti  “Donna con bandiera”, Messico, 1928

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