La pace di Davos e l’etica del doppio standard

di Giorgio Ferrari

Alla conferenza di Davos si è parlato di pace in Ukraina, anche e sopratutto per bocca dei responsabili della Difesa alleati, la cui posizione è riassumibile nelle parole del Segretario della Nato Stoltemberg: Le armi sono la via per la pace.

Se questo è quanto di meglio produce lo “spirito di Davos,” come stupirsi dell’incessante richiesta di armi da parte di Zelenski? E sì che il luogo, Davos, dovrebbe suscitare ben altre riflessioni se Thomas Mann, scrivendo “La Montagna incantata”, vi ambientò la storia di Hans Castorp, giovane ingegnere tedesco giunto a Davos per curarsi, in tempi altrettanto cupi come quelli attuali che Mann colloca, non a caso, a ridosso della prima guerra mondiale.

Tuttavia non è solo di armi che si nutre la via occidentale per la pace, ma anche di etica di cui sono espressione le sanzioni applicate alla Russia. In proposito, è di questi giorni la polemica sulle mancate sanzioni alla russa Rosatom, grande industria del settore nucleare, che continua indisturbata i suoi affari con l’occidente. Resipiscenza tardiva, o logica del doppio standard?

Le prime sanzioni applicate alla Russia le hanno stabilite gli USA nel 2020 (18 mesi prima dell’inizio della guerra) “nei confronti di persone che investono, vendono, affittano o forniscono alla Federazione Russa beni, servizi, tecnologia, informazioni o supporto per la costruzione di gasdotti russi destinati all’esportazione di energia”. Successivamente all’invasione dell’Ukraina le sanzioni si sono estese ad una serie infinita di merci, prodotti e servizi con l’esclusione dell’uranio (per quanto riguarda gli USA) e di gas, petrolio e uranio per quanto riguarda l’Unione Europea. Questo regime è tutt’ora vigente in USA ed Europa con l’unica variante (riguardante la UE) dell’introduzione di un price-cap per le importazioni di petrolio e gas che, comunque, non è una vera e propria sanzione. Prova ne sia che attraverso i gasdotti esistenti in Ukraina continuano ad affluire in Europa una media di 40 milioni di metri cubi di gas/giorno dalla Russia. Se l’Europa ha smesso di importare altro gas dalla Russia, non è a causa delle sanzioni, ma perché sono stati distrutti i gasdotti russi del Baltico (Nord Stream 1 e 2) nell’attentato del 26 settembre 2022, cosa che ha ulteriormente aumentato le importazioni europee di GNL da USA, Qatar e Nigeria.

Per quanto riguarda il petrolio l’AIE (Agenzia internazionale per l’Energia) stima la produzione russa 2022, quasi invariata rispetto all’anno precedente e con un record di esportazioni di gasolio di 1,2 milioni di barili al giorno di cui il 60% finisce in Europa attraverso rivenditori terzi (Cina ed India in primo luogo) che, non avendo sufficiente capacità di raffinazione del greggio, hanno aumentato l’importazione dalla Russia di gasolio e benzina per poi rivenderli sul mercato internazionale. Ciò rappresenta una perdita netta di introiti per la Russia, ma non così elevata come ci si aspettava.

La questione dell’uranio invece, sta in questi termini: il gruppo Rosatom fornisce uranio arricchito a 30 società distribuite in 16 paesi e rappresenta il 16,3% di tutta la produzione mondiale di combustibile nucleare, rifornendo 73 centrali nucleari (non 450 come qualche sprovveduto quotidiano ha scritto) su 440 esistenti al mondo1. I primi contratti per servizi di arricchimento dell’uranio risalgono agli anni ‘70 (Francia, Germania, Italia) e poi altri paesi occidentali tra cui gli USA, dove ha sede una affiliata di Rosatom. La società francese Orano produce uranio arricchito, ma non in quantità sufficiente ad alimentare i 56 reattori esistenti in Francia e quindi EDF ha stipulato contratti di fornitura con Rosatom che difficilmente possono essere rimpiazzati dall’Urenco (società europea che produce uranio arricchito) sia perché questa non ha la capacità sufficiente, sia perché Rosatom pratica prezzi più convenienti. La situazione degli USA è ancora più critica, in quanto i vecchi impianti di arricchimento esistenti (in corso di sostituzione) non sono in grado di soddisfare la domanda interna, per cui -già dagli anni ‘80 – gli USA hanno iniziato ad approvvigionarsi dalla Russia. Ad aggravare la situazione è stata la scelta dei reattori SMR molti dei quali funzionano solo con combustibile HALEU (High-Assay Low-Enriched Uranium) arricchito al 20% che, attualmente, solo i russi sono in grado di fornire. Esemplare lo stop subito dal progetto Natrium di Bill Gates che prevedeva la costruzione di un reattore al sodio alimentato da combustibile HALEU2.

Dunque siamo in presenza di un intreccio di interessi tra Russia e Occidente, databile fin dai tempi dell’Unione sovietica, che fa perno su petrolio, gas ed uranio (ma facilmente la cosa è estendibile a molte materie prime strategiche) improvvisamente assurti -secondo le più pure e incontaminate anime belle – a vere e proprie trappole seminate dalla Russia sul cammino dell’Occidente. Che la loro rimozione, attraverso le sanzioni, danneggi più la popolazione europea che quella russa, che a rimetterci siano importanti settori strategici (peraltro ritenuti tali dalla classe dirigente di qualsiasi orientamento politico), non conta: l’importante è che la legge morale che anima l’occidente sia salva e l’etica prevalga.

Esaminiamola allora questa etica occidentale, vediamo di che pasta è fatta e come, nel dettaglio, si è manifestata.

L’etica del doppio standard

Agli inizi degli anni ‘90 la Russia era sull’orlo del collasso economico e politico. Il Kazakistan, come tutte le repubbliche ex sovietiche, versava in gravi condizioni nonostante l’indipendenza appena conquistata. Questo paese disponeva tuttavia di una grande ricchezza costituita dai giacimenti uranio e anche dal fatto che nella cittadina di Ulba vi era stata impiantata una fabbrica di combustibile nucleare che, nel caos susseguente allo scioglimento dell’URSS, si ritrovò nei suoi magazzini 600 Kg di uranio 235 arricchito al 90% provenienti dagli impianti di arricchimento della Russia siberiana. Questo uranio era destinato alla fabbricazione di combustibile per i sottomarini nucleari sovietici, ma con opportuni interventi ci si potevano fabbricare 20 testate nucleari di grande potenza. Attraverso una serie di circostanze poco note, ma documentabili, nel novembre del 1994, gli USA si impossessarono di questo materiale con una operazione top secret, trasferendolo con aerei e personale militare, nei laboratori di Oak Ridge, nel Tennessee. Perchè lo fecero?

Se fu per sottrarlo ad organizzazioni terroristiche, come mai, successivamente, non lo annunciarono al mondo? Ne dettero notizia all’IAEA che deve essere messa al corrente di ogni trasferimento di materiale fissile? Che uso ne fecero? Lo trasformarono in nuove testate nucleari, o lo impiegarono per usi civili? E se la sua destinazione fu di tipo civile perché non condividerla -se non con la Russia che ne era l’erede naturale – almeno con i “fidati” alleati occidentali? Ma c’è un interrogativo ancora più terribile che andrebbe risolto e portato ai massimi livelli delle istituzioni internazionali: se oggi accadesse che una bomba nucleare (anche piccola) fabbricata con quel materiale esplodesse in qualsiasi parte del mondo (magari in Ukraina!) la colpa ricadrebbe sulla Russia, perché analizzando lo spettro del fall- out è possibile risalire all’impianto che ha fabbricato l’U235 che, come spiegato in precedenza, non è quello di Ulba, ma uno di quelli che oggi figurano di proprietà della federazione russa.

Nel 1959 lo Scià di Persia, poi Iran, acquistò dagli USA un reattore di ricerca e, dopo aver firmato e ratificato il TNP (trattato di non proliferazione nucleare) nel 1970, si accordò con gli americani per costruire 23 centrali nucleari entro il 2000. Dopo la rivoluzione del 1979, l’Iran comunicò all’IAEA l’intenzione di riprendere il programma nucleare, senza ritirarsi dal TNP, avendo nel frattempo scelto come partner l’Unione sovietica e poi la Russia. In questo programma era prevista la costruzione di un impianto di arricchimento dell’uranio (cosa ammessa dal TNP) di cui però l’Iran non fornì alcuni dettagli all’IAEA: di qui l’accusa all’Iran di volersi dotare di ordigni nucleari e il boicottaggio del programma nucleare iraniano da parte di molti paesi occidentali, sfociato, nel 1996 su pressione di Israele, nelle prime sanzioni USA. Sanzioni poi inasprite e fatte proprie anche dalla UE, che non trovano riscontro in altre circostanze analoghe come nel caso del Brasile.

Durante i 20 anni di dittatura militare (1964-1985) il Brasile sviluppò due programmi nucleari, uno ufficiale ed uno “riservato” denominato PATN (Programma autonomo di tecnologia nucleare), il primo finalizzato alla costruzione di reattori nucleari, l’altro a produrre uranio arricchito. In questa opera furono aiutati sia dagli USA, che costruirono il primo impianto nucleare (Angra 1), sia dalla Germania ovest che nel 1975 fornì le prime centrifughe sperimentali per il PATN il cui sviluppo era affidato alla marina militare. Le ambizioni nucleari della giunta militare non escludevano la possibilità che il Brasile giungesse a dotarsi di bombe atomiche, anche perché dopo la caduta della giunta e fino al 1998, il Brasile non aveva ratificato il TNP. Quando nel 2006 fu inaugurato l’impianto di arricchimento a Resende (gestito insieme alla marina militare), il Brasile veniva da un lungo contenzioso con l’IAEA a cui, tra il 2003 e il 2005, non fu concesso di accedere pienamente né agli impianti di fabbricazione, né alla tecnologia di centrifugazione e quando, nel 2005, fu raggiunto un accordo con l’IAEA, i suoi termini rimasero segreti3. I programmi nucleari del Brasile non sono mai stati ostacolati né sul piano economico, né su quello politico, ricevendo un trattamento assolutamente diverso da quello riservato all’Iran che, per le medesime “negligenze”, è tutt’ora colpita da severe sanzioni.

Nel recente caso del gas le cose non sono andate diversamente. Quando, nell’aprile 2022, entrarono in vigore le sanzioni della UE, la società Gazprom aveva inviato da tempo in Germania due turbine Siemens dell’impianto di pompaggio del Nord Stream 1 per la revisione. Queste turbine rimasero bloccate in Canada con la motivazione delle intravvenute sanzioni le quali, a rigor di logica, non avrebbero dovuto avere un carattere retroattivo e quindi non riguardare una attività precedente alla loro introduzione. Le proteste della Russia furono giudicate strumentali, nel mentre che i governanti europei non disdegnavano affatto di continuare ad approvvigionarsi del gas russo, anzi lo pretendevano, così come nessuno ha mai giudicato non etico il fatto che l’Ukraina continuasse e continui ad incassare i diritti di transito del gas russo (2 miliardi di euro/anno), tantomeno Zelenski.

Probabilmente è in omaggio all’etica che il 26 settembre 2022 furono distrutti i gasdotti russi del Baltico, così che (finalmente!) l’Europa spostava definitivamente le rotte di approvvigionamento del gas da est ad ovest, dal tubo alla nave. Un capolavoro di ingegneria politica che ha peggiorato il tenore di vita della popolazione europea, ingrassato i profitti della compagnie statunitensi e assicurato al governo USA cospicui apporti finanziari per prolungare la guerra in Ukraina. Sì perché le esportazioni di GNL dagli USA all’Europa hanno fruttato alle compagnie statunitensi, nel solo 2022, circa 40 miliardi di dollari a cui vanno sommati i profitti di tutta la supply chain del gas USA destinato all’esportazione. Se ciò non fa scandalo perché in definitiva gli affari sono affari, dovrebbe farlo il fatto che su quei profitti le compagnie USA interessate nell’esportazione di gas, pagano le tasse federali che vanno direttamente al governo (70-80 milioni di dollari al giorno) il quale le impiega per compensare abbondantemente le spese della guerra in Ukraina.

Se oggi si è arrivati al punto di tacciare come reprobi tutti coloro che mettono in dubbio l’opportunità di inviare armi all’Ukraina, di esaltare sui mezzi di informazione ogni nuovo invio di armi come fosse una festa, è anche perché non si riesce (o non si vuole) mettere a nudo la costruzione ideologica che sta dietro la presunta supremazia morale dell’Occidente, intrisa com’è di umanesimo e liberalismo, ormai ridotti a semplici orpelli.

E’ una situazione da cui bisogna assolutamente uscire, se non con l’ennesimo appello per la pace, almeno con un pronunciamento netto per la fine della guerra perché, come scriveva Brecht, “ci sono momenti in cui è un crimine stare zitti, o parlare di farfalle”

NOTE

3

Redazione
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Un commento

  • Gian Marco Martignoni

    A integrazione dell’ottimo articolo di Giorgio segnalo l’importante e dissonante intervista , rispetto al coro mediatico, di Emmanuel Todd ” La Terza Guerra Mondiale è Infinita “, apparsa su sinistrainrete.

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