LA PAZZA – 2

(segue dalle ore otto)

LA PAZZA 2
di Mauro Antonio Miglieruolo

– E’ una pazza, vi dico. Ha già cercato di dar fuoco alla casa parecchie volte. E’ capace di qualsiasi cosa…
Mario entra. La prima cosa che vede è il manichino seduto sull’unica poltrona di casa.
– Cazzo! – esclama arrestandosi a metà oltre la soglia. Non ha ancora sfilato la chiave dalla serratura.
– Buttalo fuori! – l’invita prontamente Marta indicando in direzione della poltrona. – Me le ha suonate.


Mario, svelto come un gatto, chiude il battente alle sue spalle. La porta sbatte in faccia agli amici che gli sono dietro. Vagabondi come lui, peggio di lui. Gente che mastica gomma americana, grugnisce e dice in continuazione, con queste cazzo di mogli, non se ne può proprio più!
– Ehee! Mario, che ti prende? – si sente da dietro la porta. Mario la riapre.
– Sparite! – ringhia rivolto agli amici. Non ama avere gente non fidata attorno, quando sente puzza di quattrini. Molti quattrini. Gli amici borbottano, ma se ne vanno. Conoscono Mario e sanno che quando fa così e meglio lasciarlo perdere.
– Che è quello? – chiede Mario circospetto. – Chi l’ha messo lì?
– Ci si è messo da solo. E’ il manichino di stamattina, ricordi? Dentro c’è qualcuno che lo muove. E’ un figlio di puttana, Mario. Dagliele sode.
– Si muove da solo?
– Picchialo, Mario.
– Zitta, stupida. Lasciami pensare.
Mario s’accosta al Robot. Ne sfiora la superficie esterna.
– Non è un manichino. E’ uno di quei cosi che si vedono in televisione. Varrà sicuramente un cento o duecentomila lire.
– Valgo esattamente centotrentasettemilionisettecentoventicinquemila lire, – lo informa pronto il Robot. L’espressione è serafica, e un poco compunta. Bravo ragazzo, quel robot, buono, serio e volenteroso.
Mario annuisce. Ha riconosciuto, dalla parola forbita e dall’inflessione priva di accenti, di che razza è quel tipo. Sono tutti più o meno uguali (parlano che sembra stiano discorrendo col Signore). Fingono che non sia così, ma sono convinti di sapere tutto. In realtà sanno quel poco che hanno trovato scritto sui libri; e i libri, da parte loro, insegnano a saperla lunga solo su come si possono infinocchiare i poveracci. Non valgono nulla anche se possiedono una capacità importante: quella di leggere parecchi libri senza farsi venire il mal di testa.
L’aggeggio in questione deve averne letti parecchi. Ha l’aria saputa, l’aspetto del damerino, ben pulito e in ordine, l’aspetto di uno che non ha mai avuto a che fare con la vita. LA VERA VITA, QUELLA CHE TI STRITOLA, TI LASCIA SENZA LAVORO, E QUANDO TE LO DA’ E’ SOLO PER DARTI ANCHE IL TORMENTO.
Nonostante l’allettante pensiero dei cento o duecentomila che valuta di guadagnarci, non può evitare di rivolgere un’occhiata di antipatia alla ferraglia assisa sulla poltrona. Schifo! è solo uno stronzissimo pezzo di merda, eppure probabilmente vale più di ogni essere umano che conosca!
– Non gli dar retta, Mario, – riprende Marta in tono insinuante. – Non ti fidare. E’ uno losco, cercherà senz’altro di imbrogliarci. Ha qualcosa in testa, lo so.
Mario risponde con un gesto seccato del braccio.
– Non ti far prendere dall’avidità, – insiste la donna. – Non può valere quanto dice. Niente può esistere che valga così tanto. E’ un bluff, credimi. Un Cavallo di Troia. Guardalo dentro, guardalo, vedrai che c’è un uomo!
– Ti ho detto di star zitta, cretina.
– Mandalo via! Mandalo via! Ci metterà nei guai! Ci farà del male! E’ venuto a derubarci! Ci assassinerà nel sonno, ci porterà via tutto.
– Smettila di dire cacchiate!
Marta apre la bocca per pronunciare qualche altra frase, o per lanciare un urlo, uno dei suoi soliti. Mario l’afferra per i capelli e la schiaffeggia. Un solo schiaffo, in verità. Qualcosa l’afferra per i polsi, lo blocca, ed esercita una pressione irresistibile per indurlo ad allontanarsi dalla donna.
Mario bestemmia e scalcia. La presa si fa più forte. Mario sbianca in volto. Geme. Gli sembra di essere tenuto da una morsa.
Con decisione il Robot lo trascina via. Lo poggia contro un mobile e lo lascia andare.
Mario è livido. Si stropiccia i polsi. Non osa aprire bocca. Ha avuto prova della forza del Robot e della sveltezza ed agilità con cui sa muoversi. Brutto affare aver a che dire con uno come lui.
Marta invece si concede una delle sua scomposte risatacce.
– Ti sta bene, ti sta! Spero proprio che te le suoni! Sono proprio contenta!
– Zitta, puttana! Vecchia strega! Vedrai che ti succede quando se ne andrà.
– Dovresti darti una pettinata, – pronuncia invece il Robot, in tono mite, rivolgendosi a Marta.
Mario tenta uno sghignazzo. Gli esce un ringhio pietoso. E’ ancora scosso.
– Dai, menalo! Adesso che hai cominciato, finisci il lavoro. Perché non lo meni? Ehi, tu, dentro quel vestito di latta, non avrai mica paura?
– Vecchia troia impestata!
– Senti come mi parla? Dai, insegnagli come ci si comporta con una Signora. Se sei un uomo, dagli una lezione!
– Perché siete così aggressivi? – li interrompe il Robot, sempre in tono tranquillo e mite.
Marta e Mario magicamente si calmano.
Avesse pronunciato un altro le medesime parole, Mario l’avrebbe fatto a pezzi, e Marta sommerso di scherni. Ma la scatola semovente non può essere fatta a pezzi, e degli scherni sembra infischiarsene. E poi, quella calma, quell’imperturbabilità, la convinzione con cui recita le sue frasi assurde, li disorientano non poco.
Mario, con mani ancora tremanti, si accende una sigaretta. A quel punto non solo sa cosa siano quei cosi, ma pure come si chiamano e a quale sottospecie appartengano. Sono UFO-ROBOT. JET-ROBOT. E simili. Esseri pericolosi, infidi. Arnesi da prendersi con le molle. Troppo duri per lui. Occorre andarci piano, molto piano, per non rimetterci le penne.
Comunque devono valere un sacco di soldi, molti più di quanto ha valutato all’inizio. Un milione? dieci milioni? CENTO MILIONI? No, nonostante le sparata dell’UFO, non deve illudersi. Sarebbe da stupidi lasciarsi rimbambire dall’avidità. Bisogna mettersi calmi e riflettere, calcolare bene quanto può ricavarne, e come e da chi.
Per il momento quella specie di cassetta di sicurezza, imbottita di valori, sta nelle sue mani; deve trovare il modo di passarle a quelle di un altro in cambio di contante.
Due milioni dovrebbero andar bene. Forse anche un milione e mezzo. Meglio pochi e subito. Meglio togliersi dalle scatole quel maledetto impiccione stravagante e non pensarci più.
Il pensiero dei soldi, dei tanti soldi, gli fa passare il tremito alle mani.
– Potremmo tentare di venderlo, – mormora.
– Cosa?
– Dammi ventiquattr’ore e vedrai che troverò l’acquirente adatto.
– Sei pazzo, Mario. Non si vendono gli uomini. Apri quella dannata scatola di metallo e vedrai cosa c’è dentro. Un finocchio, sicuramente, o qualcosa del genere. A giudicare da come si comporta, e come parla, non può che essere una miserabile checca.
– Non è un uomo, stupida. E’ un UFO, un fetentissimo UFO. Se fosse un uomo l’avrei già fatto a pezzi.
Il Robot si alza e va in bagno. Lo sentono rovistare. Ritorna.
– Non c’è un pettine in questa casa? – chiede.
I due restano ammutoliti dallo stupore.
– Te l’ho detto che è una checca, – afferma Marta dopo un po’, riprendendosi. – Sta sempre lì a leccarsi e pavoneggiarsi in giro… e una persona, credi. Non però una normale. Non pretenderai che un tipo simile stia con noi, spero!
– Certo, Marta, che resterà con noi. Uno o due giorni soltanto, però. Uno o due giorni, non di più.
– Neanche un minuto deve stare. Ci taglierà la gola a tutti stanotte. Ci porterà via tutto.
– Non credo lo farà. Questi aggeggi devono essere relativamente innocui. Non li manderebbero in giro, altrimenti, per le case della gente, come fanno, per poterne poi parlare in TV e vantarsene; perciò stai sicura che li hanno costruiti a dovere, per fare il loro bel figurone. Io, però, dal loro gioco tenterò di trarre un qualche profitto. Loro mi usano, ed io uso loro! Me l’hanno consegnato senza che lo chiedessi? ed io me lo vendo!
Improvvisamente è colpito dall’implicazione contenuta nel suo ragionamento.
– Cristo! – esclama. – Se è come dico lo rivorranno indietro. Verranno a riprenderselo per portarlo da qualcun altro! Bisogna che mi affretti, allora. Devo trovare subito qualcuno che se lo compri.
Pressato dalla preoccupazione Mario individua sull’istante il tipo giusto. E’ Roberto il Mobiliere il suo uomo. Conosce un mucchio di gente, sicuramente avrà sottomano il tipo adatto. Anzi, è possibile che decida di operare l’acquisto lui stesso. Niente di più facile. Roberto possiede un magazzino, e avere al proprio servizio un tipo robusto come l’UFO potrebbe senz’altro fargli comodo.
L’urgenza che intravede nei suoi affari lo induce a muoversi sull’istante. Deve anticipare quelli che vengono in doppiopetto, muniti di carta bollata e, se necessario, coi microfoni dietro. Cominciano quelli in doppiopetto, sciorinando i loro diritti, e finiscono quelli col microfono, facendoti un sacco di domande. A Mario, come a ogni tipo dotato di senno, non piace rispondere alle domande; specialmente quelle riguardanti la roba NON SUA!
– Vado a trovare un amico, – dice. Si avvicina alla porta e la apre.
– Non lasciarmi sola con questo pervertito! – strilla Marta.
– Di che hai paura? Non dicevi che era un frocio?
– Mi sono sbagliata. E’ un bruto e un assassino. Mi violenterà e mi farà a pezzi. Non può avere che qualche scopo malevolo per starsene rintanato dentro quella scatola d’acciaio!
Mario ghigna.
– Sarebbe un ottima occasione per liberarmi di te. Un buon modo pulito, senza conseguenze. Sai che ti dico? Spero proprio che lo faccia.
Non ritiene però che lo farà. Non ha di queste fortune, lui. Essere liberata da una vecchia ciabatta un po’ pazza, da una bocca in più da sfamare, ma quando mai?
– Non è detto però che non lo faccia io, – continua ridacchiando. – Un giorno o l’altro lo farò certamente. Senza la prima parte, però. SENZA VIOLENTARTI, INTENDO.
La porta si richiude rapida, con fragore. Un piatto la raggiunge, e riproduce l’eco di quel fragore.
Marta è furibonda. Digrigna i denti. Non ha nessuno con cui prendersela. Nessuno con cui valga la pena, s’intende. Ha quel cavolo di tipo dentro il manichino, ma con lui non c’è soddisfazione. Beh, si dovrà contentare. Si contenta, in effetti. Lo punta con decisione. Un secondo piatto vola e si infrange sulla testa del Robot. Il piatto si rompe. Va in diecimila pezzi.
I frammenti, questa volta, sono particolarmente piccoli.

* * * * *

– Esci fuori da lì, – ordina Marta. – Esci fuori. Non mi infinocchi, amico. Meglio che ti fai vedere.
Il Robot l’ignora e continua a rovistare in mezzo alle loro cose. Lei lo segue berciando, e continuando a cercare di colpirlo con ogni oggetto possibile. Il Robot impassibile continua a cercare. Non reagisce alle molestie. Quando però Marta si fa avanti con le mani lui, con gentilezza, la blocca.
– Potresti farti male, – avvisa sorridendo. La lascia andare e riprende le ricerche.
Marta, al suo seguito, alternativamente si infuria e si calma. Si infuria quando lui le dice “potresti farti male”. Si calma avvertendo la calma olimpica dell’uomo. Lo trova affascinante e insopportabile. Un essere misterioso, strano come non ne ha mai conosciuti. Più di tutto la irrita il fatto di non riuscire a litigare con lui.
– Ma si può sapere cosa cerchi?
Il Robot apre l’armadio. Non ci sono bei vestiti dentro. Solo stracci. Lo richiude in fretta.
– Senti, si può sapere almeno chi sei?
– Robot di Servizio e Intrattenimento matricola 12, agli ordini!
“Agli ordini” però lo pronuncia ridendo. Perché lui ottempera ai desideri, non agli ordini. E’ un Robot strano, Matricola 12. Ha senso dell’umorismo, e voglia di manifestarlo. Più di tutto però ha capacità di provare compassione e una inesauribile capacità di sopportare.
Marta non sa cosa chiedere ancora.
– Sei un vizioso, vero? Te ne vai in giro dentro quella scatola per poter violentare impunemente le donne, senza essere riconosciuto. Scommetto che sotto sotto, stai meditando di darmi una sistematina.
– Non ci penso per niente, – replica soavemente il Robot.
– Sei bello, almeno? Hai una bella faccia?
– Tu che ne dici?
– Sì, la tua maschera mi piace. Ma dietro, dietro cosa c’è?
– Sono esattamente quel che vedi, credimi.
– Uhm! Ma che fissato! non vuoi proprio ammetterlo che sei un uomo! Comincio a pensare che ti sia necessario questo travestimento. Probabilmente, a farne senza, neppure ti si rizza. Questo è il tuo problema: sei mezzo impotente, e solo con la commedia del manichino riesci a farlo. Massì, è così!
Non è una domanda e il Robot non replica.
– Sai, – riprende Marta in tono discorsivo, a un certo punto. – Con Mario non è che funzioni tanto!
Silenzio.
– Ma cosa cerchi con tanta ostinazione?
– La scatola del trucco.
– Ahaaa! Eccoti! Lo sapevo. Sei una miserabile checca. Un culo disgustoso. Ecco quello che sei.
– Dov’è, allora?
Marta apre un cassetto e gli porge la scatola del trucco.
– Siediti, – l’invita il Robot, indicando dove desidera che si sieda.
Marta siede. Comincia a tremare.
– Cosa vuoi fare? Cosa MI vuoi fare! SEI SICURO DI NON VOLER FOTTERE?
Il Robot, da dietro, gli poggia una mano sulla spalla destra, l’altra sulla sinistra.
– Giù le mani!
Il Robot non mette giù le mani. Le fa scivolare su verso il collo. Marta sgrana gli occhi.
– Madonna! – sussurra. – Lo sapevo. Sei di quelli che godono ammazzando la gente.
Le mani restano ferme sul collo.
– Non farò storie, lo giuro. Anzi, ne ho voglia pure io, ci starò volentieri. Vedrai, ti farò divertire. Sono sicura di questo, sicurissima di fartelo rizzare. Prova, prova con me, dammi una possibilità, una sola, e starai benissimo, come mai sei stato.
Le mani lasciano la gola e Marta respira, un poco sollevata. Le sente scendere, giù lungo gli avambracci, finché arrivano alle sue di mani e gliele carezzano. Marta si tranquillizza ulteriormente. Probabilmente quel tipo non è così pericoloso, come paventava. Forse ha la possibilità di ammansirlo.
– Com’è che ce l’hai? – riprende con inflessione trucida, in quel tono particolare che piace tanto agli uomini (che almeno piace tanto a Mario). – Devi averlo molto grosso e lungo, a giudicare dalla stazza.
Spera di lusingarlo, e farselo amico. I maschi sono particolarmente sensibili su quel punto.
– A me, comunque, i maschi sembrano tutti molto dotati, – riprende cauta, non si sa mai, potrebbe aver toccato il tasto sbagliato. – Anche quelli che hanno problemi con le altre donne…
Il Robot le lascia le mani.
– Non ce l’ho, – dice ridacchiando. – Non ce l’ho per niente.
– Come?
– Non sono dotato d’attrezzatura sessuale. Per quelli che sono i miei compiti, non mi serve.
– Ohoo! Capisco. Allora mi ammazzerai.
– No. Nooo!
– Dici così, ma alla fine mi ammazzerai. E’ così che godono i tipi come te.
– Non ti ammazzerò. Non una creatura graziosa come te.
– Aha! Sei pazzo, sei pazzo! Creatura graziosa! Ma come ti viene in mente? Sei solo un povero malato!
– Sono un Robot di Servizio e Intrattenimento, non un pazzo. Neppure un sadico, sono. Non devi avere paura di me, io aiuto la gente, non la danneggio. Mi hanno costruito apposta, per elargire servizi e gentilezza.
– No, tu sei un uomo travestito, ammettilo.
– Tutti quanti sono uomini travestiti: travestiti da animali.
– Tu sei diverso. Sei pericoloso, non è possibile capirti.
– Se ti fa piacere pensarla così…
– Dentro di te c’è un uomo.
– In ogni maschio c’è un uomo. Anche dentro Mario.
– No, dentro Mario c’è solo una puzzola. Una fetentissima puzzola. Mario è una bestia… – conclude aspra. Ci pensa un po’ su e aggiunge: – Massì, un poveretto!
Restano in silenzio. Il Robot riporta le mani in alto e le massaggia delicatamente il collo. Marta chiude gli occhi e si affida a quelle piccole, soffici carezze. Si rilassa. Una sensazione nuova di benessere l’invade. No, decisamente quel tipo non deve essere tanto male. Potrebbe persino essere una brava persona. Non è certamente come Mario. Mario non le ha mai fatto nulla del genere. Il pensiero del marito le accende una luce sinistra negli occhi.
– Abbandonati, – l’esorta il Robot. – Manda via i brutti pensieri.
– E’ vero che NON ce l’hai? E’ proprio vero?
– E’ vero, non ce l’ho.
La mani continuano a massaggiare con delicatezza. Producono voglia di perdersi nella rilassatezza, di chiudere gli occhi e sospirare. Sente che potrebbe persino addormentarsi. Sarebbe splendido per lei, che quasi non chiude occhio la notte, e la trascorre avvolta nei pensieri, negli assilli, nel niente di cui è piena la vita. Resta lì, supina sul letto immobile, con gli occhi che non sanno chiudersi, ponendosi domande fino ai bagliori acquietanti delle prime luci dell’alba, accompagnato dal ronfare pesante di Mario, meravigliandosi di come possa lui invece, notte dopo notte, prendere puntualmente sonno; quasi che nulla fosse successo, come se lo squallore del giorno gli fosse passato sopra senza lasciare alcuna traccia. Ma una qualche traccia deve pur averla lasciata! Non può essere tanto insensibile, tanto incapace di rendersi conto. Non può, non può…
Mario, già Mario…
MARIO!
La donna si libera bruscamente dalle mani del Robot e salta su rigida e vibrante di indignazione.
– Cosa credi di fare con quelle tua manacce da sporcaccione? – sbraita. – Come ti permetti?
– Tentavo di farti rilassare un pochino.
– Lo so io quello che volevi fare. Ci stavi provando, ecco quello che volevi fare!
Il Robot allarga rassegnato le braccia, un gesto che la donna interpreta come mossa di esasperazione, e si inviperisce ulteriormente.
– Ora mi metto a urlare, – minaccia. Ma non minaccia invano. Lo dice e lo fa. La voce, già sulla parola “urlare” sale di tono, sale ancora, finché diventa uno stridio lacerante. Altre strida seguono. Quattro, cinque grida. Non le bastano però. Continua a gridare, gonfiandosi, esaltandosi, diventando rossa, grida dieci volte, sempre più convinta di dover gridare, e rabbiosa, molto fuori di sé, vogliosa d’urlo, attraversata dal bisogno essenziale di sentirsi, di affrettarsi verso qualcosa, qualcosa di cui neppure lei conosce la natura e perché la vuole.
Non succede niente. Il Robot non muove un dito. La lascia urlare. Neppure si mostra risentito. Non le chiede: cosa c’è, amica, perché cerchi di attirare l’attenzione? Non chiede niente. Si limita ad aspettare e basta.
Succede però che i vicini si innervosiscano e inizino a darsi da fare sui muri, battendo e trapestando.
– LA FINITE VOI DUE LASSOPRA? LADDENTRO? LISSOTTO? – e altre simili amenità.
Una vociaccia invece grida:
– Finitela! o chiamo la Polizia!
Non sia mai, la Polizia! Marta cessa immediatamente di gridare. Non smette però di prendersela con il Robot.
– Ora vengono e ti arrestano, – comincia. – Glielo farò sapere io, a quelli, cosa hai tentato di fare. E come mi hai insultato. CHE ASPETTO DA STRACCIONA! E anche: VECCHIA CIABATTA, MIO DIO! FAI SCHIFO, PETTINATI! Credi davvero di potertene andare dentro le case e dire impunemente alla gente tutto quello che ti salta in testa? Ennò, signorino, non si può fare! Ah, vedo che sorridi. Eggià, immagino come ti difenderai, la conosco la canzone. Glielo assicuro, Signor Agente, è lei che mi ha adescato. E’ una poco di buono, anche se finge di essere per bene. Ti andrebbe di fottermi? mi ha detto. Sono un uomo, no? Cosa dovevo fare? Loro ti crederanno, lo so già che ti crederanno. Ti crederanno anche dopo che avrò mostrato i segni sul collo. Esuberanza maschile, commenteranno, ghignandomi in faccia. Poi mi fisseranno disgustati, chiedendosi che tipo di svergognata io sia, e perché diavolo voglia mettere nei guai un tipo simpatico come te. Ma non te la caverai lo stesso, amico. Quelli, i poliziotti, non solo pensano che le donne siano tutte puttane, ma anche che i maschi siano tutti ladri e assassini. Per cui se ne stanno con le orecchie appizzate nella speranza di beccarti sul fatto e mettere tra te e loro delle belle robuste sbarre attraverso cui conversare. Stai certo, so come incastrarti. Gli dirò: credete che se fosse una personcina come si deve se ne andrebbe in giro mascherato in quel modo? Loro ti fisseranno duro e decideranno di portarti dritto dritto in prigione. Già, già, in prigione! E’ così che andranno le cose, me le figuro. Ti metteranno le manette e se protesterai di daranno una bella ripassatina coi manganelli. Anzi quella te la daranno di certo (ti romperanno il culo, altroché), nella speranza di farti confessare. Io intanto me ne starò qui a ridermela. Ah! Ah! Ah! farò e mi gratterò la pancia dalla gioia. Ah! Ah! Ah! Me la rido già da adesso. Di’, lo senti come rido? Lo senti? LO SENTI? MA NON SENTI NIENTE TU? SEI SORDO? O CHE? NON TI VA DI CAPIRE? INSOMMA, VUOI DARMI RETTA? RIDO BENE, O NO? SENTI, SENTI, COME RIDO: Ah! Ah! Ah! Ah!
Segue il solito scroscio di risate agghiaccianti.
La voce di Marta, sulle ultime frasi, è tornata un po’ su di tono. I vicini bussano ripetutamente alle pareti. Si odono lunghi “ohooo!” di protesta e dei sonori “ma che ciavete in corpo?” Il Robot porta un dito alle labbra e l’esorta a tacere. Sssst! Silenzio! impone.
Questa volta Marta non s’acqueta. Continua a ripetere i suoi sgangherati “lo senti come rido?”; e ridendo, accende i fornelli del gas. Arrotola alcuni fogli di giornale e, sempre sghignazzando e chiedendo attenzione alla sua risata, li sparge dovunque nella stanza. Il Robot li raccoglie paziente ad uno ad uno e li spegne. La carta finisce e Marta, obbligata dalla necessità di trovare qualcosa d’altro da bruciare, smette di sghignazzare. Si guarda intorno ansiosa, ma non c’è più nulla di adatto, che sia a portata di mano.
Si precipita in bagno e ritorna con una boccettina d’alcool.
– No, – dice suadente il Robot prendendole la boccetta. – Questo non si può. E’ pericoloso, capisci? NON SI DEVE FARE!
Sembra che stia parlando a una bambina, il tono è proprio quello. La bambina non vuole intendere ragioni e lui la fa ragionare. Ma niente, la bambina insiste, lo colpisce al petto coi pugni. Il Robot l’afferra per i polsi e la trattiene.
– Ti farai male, se continui, – dice.
– Toglimi le mani di dosso, sporco negro!
Marta si agita, smania, si divincola. Il Robot è costretto a lasciare la presa. La donna allora, non potendo prendersela con altro, afferra il tavolo. Lo solleva d’un lato e riesce a rovesciarlo. Il clamoroso fragore e l’ulteriore furia dei vicini riescono nuovamente a calmarla. Definitivamente questa volta. Si è sfogata, alla fin fine.
Si siede e fissa lo sguardo nel vuoto. Non sta vedendo nulla. Appena pare rendersi conto di avere occhi. La vista è buona, ma è incapace di trasmettere qualcosa di utilizzabile a ciò che sta dietro. Occhi che vedono davanti a un cervello cieco. Un cervello muto, al limite della capacità di intendere e di volere.
Marta inizia a dondolarsi avanti e indietro. Emette versi gutturali, animaleschi, in tono basso, al limite dell’udibilità. Il Robot le pone nuovamente le mani sulle spalle. Marta sussulta.
– Come faccio! Come faccio! – mormora. – Sono pazza, vero?
– Tu che ne dici?
– Sono pazza! Pazza pazza!
La presa sulle spalle diventa più forte.
– Basta, su! Basta, ora può bastare.
Ma Marta è tutta una vita che fa così, non può fermarsi proprio adesso, soltanto perché sarebbe necessario, o in quanto qualcuno glielo chiede. Non può nell’immediato, almeno. Forse più tardi, domani, dopodomani, un giorno o l’altro, quando il destino gli offrirà una leva su cui poggiare la sua anima di seta e innalzarla verso il cielo, verso la speranza o verso la morte; per intanto è condannata al giogo della sua infelicità. Intanto non può che contemplarsi nella sua follia e confidare di provare della pietà per se stessa.
La prova. D’improvviso, senza che se ne renda conto, la prova. Lo sguardo gli si riempie di qualcosa, un miscuglio di dolore, angoscia, smarrimento, mescolato ad un singolare senso di sollievo. Non saprebbe dire perché, ma inizia a sentirsi più leggera, come riposata, quasi che si fosse appena svegliata da un sogno ristoratore.
– Non è nulla di grave, – prosegue il Robot. – Ti sei solo perduta per strada. Basta che ti guardi intorno e ti ritrovi. Se lo desideri puoi tornare indietro, prenderti per mano e guidarti su una strada migliore.
Marta lo fissa con espressione stolida. Non comprende. Non può. Lei ha sempre guardato davanti a sé nel buio del suo avvenire; ha sempre ignorato il conforto che può fornire il ricordo; mai ha saputo della necessità di fermarsi un momento per raccogliere le fila degli avvenimenti, prima di andare avanti.
– Adesso ti dirò una cosa, – riprende il Robot, – e desidero che tu l’ascolti con molta attenzione. Potrebbe essere importante per te. Vedi, le persone non soltanto sono create, ma contribuiscono pure a crearsi. Esse costruiscono se stesse giorno dopo giorno, instancabili, finché diventano troppo stanche per il lavoro svolto, e muoiono. A volte svolgono questo lavoro volentieri, per cui sono felici; altre lo fanno solo perché sono costrette, e allora stanno abbastanza male. Ma poiché smettono di farlo, cadono preda degli eventi, e ne sono sovrastati, trascinati, travolti. Allora impazziscono, si confondono e ne combinano di tutti i colori, non sapendo più a che santo votarsi. Credo che a te sia successo qualcosa del genere. Tu, a un certo punto della tua vita, hai smesso di porre attenzione a te stessa, e di conseguenza ti sei smarrita. Ora ascoltami (o meglio, sentimi). E’ possibile recuperare tutto. Quello che non hai fatto ieri puoi iniziare a farlo adesso. Tu ti osservi allo specchio e ti ritrovi. Vedi la tua figura riflessa e le dici: desidero essere così e cosà, posso essere questo e quello. Comunque, voglio tenermi un poco su. Mica per niente, tanto per aver parte nella faccenda, poter dire di aver contribuito anch’io. Altrimenti cosa valgo per me stessa? Cosa conto? Sono un’estranea? Una conoscente occasionale? O non sono invece la parente più stretta che posso avere? Una cosa è certa, che non sono il notaio di quello che mi fanno gli altri. Nossignore, ho anche io il mio da mettere nel mucchio, son donna, cavolo! Quantomeno so curare il mio aspetto, so aggiustarmi il volto e il corpo in modo che sia anche mio. Le donne, in fondo, creano poco perché sono troppo occupate a tentare di fare di se stesse un’opera d’arte. Si dipingono, si scrivono, si recitano, si drammatizzano in continuazione; dopodiché si sobbarcano anche l’onere di creare la vita quotidiana. Genitori, mariti, figli, divieti ed obblighi, una montagna di catene psicologiche! Ma tu dimentica tutto questo. Guardati allo specchio e controlla. Vedi che la terra è buona, anche se si è inaridita. La lavorerai un poco e tornerà ricca come prima. Ripulisci un po’ tutto, dentro, sopra, sotto, da ogni parte e vedrai che andrà subito meglio!
Marta scuote la testa. Non ha capito, non tutto almeno. Solo qualcosa. Gli è sufficiente però per rievocare i tempi, ormai remoti, in cui era ragazza e trascorreva mezze mattinate a truccarsi. Che vanesia che era! Sospetta però non sia esattamente alla vanità che l’uomo intende appellarsi.
– Cosa devo fare? – mormora ancora in tono dolente. – Cosa? cosa?
– Te l’ho detto. Guardati in un specchio e cerca di vedere quello che puoi essere. Potrebbe capitare di piacerti!
Marta si china a fissare il dorso delle mani abbandonate in grembo. Un tempo quelle mani erano state belle. Ora sono soltanto delle mani, un poco rattrappite e prive di grazia. Le rigira. I palmi screpolati nascondono un complessa storia di resa incondizionata di fronte all’incalzare del destino. Però le guarda, presta loro una qualche attenzione. E’ già qualcosa. Un inizio che può portare lontano.
Continua a rigirare le mani e ad esaminarle. Non capisce. Neppure è consapevole della necessità di capire; è il Robot che ve la spinge. Ritiene ci sia ben poco da capire. C’è solo da lasciare le cose come vanno, come ha sempre fatto. Non intravede pericoli nel suo comportamento. NON VERI PERICOLI. Una persona permanentemente travolta, non teme di poter essere travolta dagli eventi.
E questo per lei rappresenta l’unico sollievo concepibile.

* * * * *

(la conclusione alle ore 18)

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

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