LA PAZZA – 3

(fine)

LA PAZZA 3

– Che ne dici, quale sarà l’umore di Ma’, stasera?
– La solita. Isteria assoluta. Ti gonfierà di botte.
– No, stasera no, me lo sento.
– Ti mena di sicuro.
– Assì? Perché proprio me?
– Lo sai che fa una volta per uno. Ieri è stato il mio turno, oggi dovrebbe essere il tuo. Gli si drizzeranno i capelli, gli occhi rossi, e comincerà a menare.
– La troveremo di buona, invece.
– Se non ha litigato con Pa’, probabile. Ma loro litigano sempre. SEMPRE.


– La troveremo di buona, ti dico.
– Allora sarà per la prossima volta. Ricorda che tocca a te prenderle, non tentare di defilarti.
Sono davanti alla loro porta. Suonano.
– Ma’, o Ma’, apri, – chiama forte quello a cui toccherebbe prenderle.
La porta si apre. Appare una bella Signora in ghingheri, una sui trenta. I Bambini rinculano.
– Ci scusi, – balbettano. – Abbiamo sbagliato posto.
– Dentro! – ordina seccamente la donna. Il dito autoritario indica con decisione l’interno dell’appartamento. – Dentro, piccole pesti!
I bambini la fissano a bocca aperta. La riconoscono, ma non riescono a credere a quello che vedono. Lei è proprio Ma’, gli somiglia moltissimo, almeno. Però sembra incredibile, impossibile che sia lei.
Seguendo l’indicazione del dito scivolano dentro tenendosi stretti l’uno all’altro. Manifestano timore della donna che stanno scoprendo. Si tengono lontani da lei. Non si tratta della solita paura di prenderle, ma paura della madre, di quello che è diventata, e non riescono a comprendere. La studiano con soggezione.
– Che ti succede, Ma’. Chi ti ha conciata così?
La casa è pulita, lustra, tutto è in ordine. Niente mozziconi di sigarette in giro, cocci, carta bruciacchiata, fazzoletti di carta sporchi, stracci, polvere, niente di niente, solo ordine e lindore. L’atmosfera che regna inoltre è distesa, non la solita a cui sono abituati. Si sentono un poco spaesati.
Il Robot entra nella stanza. Lo sconosciuto attira immediatamente la loro attenzione. Lo inquadrano al volo.
– Ma’, chi è questo? E’ stato lui, vero?
– Vostra madre è una gran donna, – risponde Marta pavoneggiandosi mediante un frammento di specchio. – Insomma, sono bella, no?
– Non ci piaci come sei, Ma’. Sembri una puttana.
La madre si rivolta come una vipera.
– Piccoli delinquenti! Stronzetti! – sibila. – VI FACCIO VEDERE IO!
Li minaccia col pugno.
– Lasciali dire, – interviene il Robot. – Che ti importa?
Marta si rilassa immediatamente. Sorride e annuisce.
– Dove hai trovato quegli abiti? – insistono i piccoli. Chi te li ha regalati?
– Sì, è stato lui, – ammette la donna toccandosi i capelli ben pettinati. Tutta un’altra cosa. – E’ un bravo sarto. Ha adattato quelli che avevo.
Ai ragazzi, superata la sorpresa, non sembra più tanto diversa. Non è particolarmente giovane, né bella. I suoi quaranta suonati nessuno glieli può togliere, e neppure i decenni di avvilimento e disordine. Occorre molto di più che una lavatina, un’aggiustatina per mandare a posto quei capelli, quel corpo, quella faccia, devastati da anni di abbandoni sbraitanti e furori. In ogni caso la trasformazione è notevole. Non è donna che possa essere ignorata, Marta.
– Gliel’hai dovuta dare, Mami?
Mami a un nuovo scatto viperino.
– Dagli tempo, Marta. Non ti arrabbiare. Non ne vale la pena.
– Sissignore, – dice Marta. – E’ pazzo di me. Non lo vedete come mi guarda? Mi ama, lui. Ho anche io le mie cartucce da sparare, cosa credete. Non si è mica vecchi a quarantanni.
– Non ci piaci, Ma’, non ci piaci per niente, – ribadiscono i piccoli. – Non piacerai neppure a Mario. Saranno guai quando tornerà.
– Mario! – esclama sprezzante la donna. – Il mio amico qui lo farà a pezzi, se solo oserà aprire bocca. Vero che lo polverizzerai se tenterà qualcosa contro di me?
– Se necessario interverrò, – afferma il Robot placidissimo, senza compromettersi.
I ragazzi lo guardano con rancore.
– Gliel’hai data a quello. Ti sei fatta fare!
– Di che vi impicciate, voi? Faccio quello che voglio con la roba mia!
– Non avresti dovuto. Sarà la guerra qui fra poco.
– Marta non è proprietà di Mario, – si intromette il Robot. – E neppure vostra. Neppure voi siete proprietà di qualcuno…
I piccoli replicano con una smorfia di disprezzo. Ora sanno di aver inquadrato bene il tipo. E’ un dannato intellettuale, un poco di buono. Uno di quei tipi disumani che a scuola, o dagli schermi televisivi, esibiscono una grande prosopopea per quello che sanno, sottolineando la differenza che intercorre con quelli come loro, lì in basso, stupidi, ignoranti e cattivi soggetti. Ne hanno fin sopra i capelli, di quei tipi. Ce n’è anche in classe tra i ragazzi, e come capita l’occasione, li pestano.
– Mario farà polpette di te, – dicono in tono cattivo.
Mario sceglie proprio quel momento per rientrare.
– Guarda, guarda! – esclama. – Tutta la famigliola riunita!
Ha un grosso sigaro acceso tra i denti. Lo porge a Marta.
– Tiè! E’ un regalo di Roberto. Ne ha tutta una scatola piena sulla scrivania, un’intera scatola di sigari di prima qualità! Prendi, uomo, mi ha detto. Li tengo apposta per gli amici!
Marta dà una tirata. Tossisce.
– Troppo forte per me, – commenta.
Solo in quel momento Mario sembra accorgersi di come è conciata.
– Ehi! – fa. – Che ti è successo?
– E’ proprio Ma’, – intervengono i piccoli, come a rassicurarlo.
Un largo sorriso si disegna sulla bocca di Mario. Un sorriso che non piace a Marta.
– Incredibile! Sei uguale a quando ti ho conosciuta. La sciccheria che eri! Ma Cristo! sembri nuovamente una donna!
Marta lo fissa duro, dritto negli occhi e pronuncia lentamente, con intenzione:
– Vai a farti fottere, Mario. Vai a dare via il culo.
Mario ghigna. Alza di scatto un braccio e Marta sussulta spaventata. Arretra di una passo.
– Tranquillizzati, – gli fa Mario, sempre ghignando. – A una pollastra così si possono perdonare parecchie cose. Per un po’, almeno. E, comunque, sono di buona, puoi dirmi quello che vuoi, non mi arrabbio. Ho venduto quel fantoccio che gira per casa, e credo proprio di aver fatto un buon affare.
– Sta tentando di montare la testa a Mami, Pa’. Dovresti menarlo. Non vedi come l’ha conciata?
– Piccoli bastardi! – sibila Marta verso di loro.
– Non ci badare, sono piccoli, non possono capire… – l’esorta il Robot.
Marta s’acqueta.
– Lo senti? – riprendono i due. – Comanda lui ora qui. Buttalo fuori, Pa’. Spaccagli il culo. Buttalo fuori, prima che sia troppo tardi.
– Non mi dite quel che devo fare, va bene? – li redarguisce Mario in tono non troppo aspro. I piccoli non sanno, non lo conoscono. Ignorano di quel che è capace. Sono innocenti, ignorano che lui, Mario, ha già sistemato tutto. Però, fra poco, vedranno quel che sa fare e allora si persuaderanno che è il migliore, il più in gamba, e che stando al suo fianco non hanno nulla di che temere. – Tu, però, coglione di metallo, chiudi quella specie di cloaca che hai per bocca, altrimenti ti smonto pezzo per pezzo.
– Ben detto, Pa’. Fagli vedere chi sei!
Pa’ mostra il pugno chiuso. Un pugno gigantesco e peloso. Una specie di maglio che terrorizzerebbe chiunque. Non scompone il Robot.
– Non con le mani, Pa’, – raccomandano i piccoli. – E’ di metallo. Puoi prendere la nostra mazza da baseball, se vuoi.
– Non ho bisogno della vostra fottuta mazza. Non la userò, non su aggeggio che vale alcuni testoni. Due me ne ha promesso Roberto, due!
– Potrai ricomprare il servizio di piatti a Marta. Sarà contenta di poter tentare di romperteli sulla testa.
I maschi ridono.
– Tranquilli, bimbi. Tra poco sarà qui Roberto con i suoi uomini, impacchetteranno questo coso e se lo porteranno via.
Marta, che fino a quel momento se n’era rimasta tranquilla ad osservare i maschi di casa, nell’udire quelle parole si scuote. Lo fissa preoccupata.
– Cosa? – dice piano. E poi più forte, in tono inquisitorio: – Cosa fai tu?
– Ho dato via quell’affare di metallo.
Marta lancia un urlo soffocato, metà d’angoscia, metà di indignazione.
– No! Macché, non farai niente del genere. IO NON LO PERMETTERO’.
Mario accenna a dargli una sberla. Il Robot, senza parere, inizia a muoversi verso di lui. Il gesto viene interrotto e trasformato in qualcosa d’altro. Mario finge di voler solo grattarsi la testa.
– Non lascerai che ti portino via, vero? – chiede ansiosa Marta, rivolta al Robot che gli si è schierato al fianco.
– No, Marta, tranquilla. Non mi porteranno via.
La donna lo fissa titubante, felice per la risposta, ma dubbiosa sul suo reale contenuto.
– E’ una promessa, no? E vuol significare che non andrai MAI via, vero?
– No, non andrò via.
– Mai?
– Mai.
Marta diviene raggiante. Drizza la figura e fissa tutti dall’alto in basso.
– Avete sentito? Il mio amico qui dice che vuole restare. Anche io voglio che resti. Perciò è andata, resterà.
– Sciocchezze, – fa Mario. – Fra poco vedrai. Vedrai se resta o va via!
– Non vedrò proprio niente, invece. Roberto o non Roberto il mio amico non si muove, e tu non potrai farci proprio niente. Non ne hai la forza, non ti bastano i pugni contro di lui.
– Aspetta di vedere i tipi che porterà Roberto, poi parla.
Il labbro inferiore di Marta comincia a tremare. Conosce la gente che lavora per Roberto. Degli armadi sono, non degli uomini. In genere vengono reclutati tra gli ex sollevatori di peso, pugili falliti e simili. Se ne dovesse portare un quattro o cinque con sé, il suo amico non avrebbe alcuna possibilità. Volente o nolente dovrebbe fare come dicono loro.
Anche le mani di Marta sono scosse da un leggero tremito. Improvvisamente non sembra più tanto ben pettinata. Neppure più tanto giovane, sembra.
– Marta… – sussurra il Robot. E’ un’esortazione e un avvertimento nello stesso tempo. E un po’ anche un rimprovero.
Ma Marta è andata. Difficile frenarla non appena entra in quello stato. Si separa dalla realtà e non comprende più nulla. Le parole, gli avvertimenti le scivolano sopra senza lasciare traccia. Resta sola con il suo dolore e quella spinta micidiale che la costringe ad andargli incontro.
– Chiamo la polizia, – piagnucola in tono patetico. Risa sguaiate accolgono l’avvertimento.
– Non potete far questo, – riprende Marta. – Non potete portarlo via. Questo è… è rapimento!
– No, cara. Qui siamo in casa mia, e chi non piace a me, lo butto fuori quando e come mi pare. Nessuno avrà qualcosa da obiettare. Quello che poi gli faranno gli amici, una volta fuori di qui, se vorranno portarlo in qualche altro posto o dargli una ripassatina, a me non riguarda. Riguarda lui. E poi questo qui non è un uomo, è una macchina, un accidenti di UFO, qualcosa scesa dal cielo. Un invasore, in pratica. UNO STRANIERO. NON HA VERI DIRITTI.
– Mannò, Pa’, non è sceso dal cielo, – l’informano i figli. – Se è una macchina, è stata fabbricata in Germania, o negli Stati Uniti. Stanno riempiendo il mondo di loro, ne sfornano decine al giorno…
– Sono un modello sperimentale della Olivetti, – li corregge il Robot. – Ideato e costruito in Italia.
Nessuno bada a quel che dice. Neppure Marta, che non osa più gettare occhiate verso il frammento di specchio.
Si stabilisce un (per Marta) periodo di penoso silenzio. Il silenzio si prolunga. Roberto si fa aspettare.
– Ma quanto ci mette? – esplode Mario innervosito.
Roberto arriva proprio in quel momento, al seguito di quattro armadi in forma umana. Non bussano sul battente spalancato, non salutano, non badano ad altro che a quello che devono prelevare. Entrano, si guardano intorno e chiedono:
– Dov’è la macchina?
Entra anche Roberto. Identifica immediatamente il Robot. Lo fissa un istante.
– Cristo! – esclama. E poi: – Andiamocene, ragazzi.
– Eh! Eh! Eheee! – fa Mario.
I ragazzi escono.
– Eheee! – insiste Mario. – Cosa succede, Roberto?
Roberto neppure si volta.
– Succede che sei un idiota, ecco cosa.
Esce. Mario gli si precipita dietro. Marta, nel suo angolo, riprende a sorridere. Continua a sorridere anche quando il marito ricompare. La faccia dell’uomo è a titoli cubitali. Addio due milioni sembra strillare. Addio! Addio! gli fa eco mentalmente Marta.
– Afferma che è impossibile, – mormora Mario affranto.- Che neppure con un bulldozer si riuscirebbe a spostare quel tipo.
Marta reagisce saltellando festosa. Batte le mani. Le tette le vanno su e giù, però nessuno tra i presenti manifesta voglia di guardargliele. Neppure il Robot, sovranamente disinteressato, che però lo stesso gliele guarda. Questo a Marta piace. Salta con più energia per mostrargliele bene.
Mario si lascia cadere su una sedia. E’ nero, pronto a prendersela con il mondo. Aveva già dei progetti di spesa parecchio interessanti che deve accantonare, e ciò lo manda in bestia. Esempio. Una visitina alla bionda dell’appartamento di sotto (con un regalino, naturale). Oppure una capatina al Bar vicino, per tentare di entrare nella stanza sul retro, dove si gioca forte. Quel nuovo VHS, completo di effetto moviola, che dicono sia una favola per le partite di pallone. Cose così, semplici, alla mano, tanto per svagarsi un po’, nulla di veramente trascendentale. Purtroppo però deve accantonare tutto. Pare che la fortuna non tenga con lui, ultimamente.
Guarda in cagnesco la moglie che continua a far ballonzolare le tette.
– Ti rinchiudo, una volta o l’altra, – minaccia urlando. – Stai diventando insopportabile!
Avrebbe dovuto averci già pensato, ma è sempre in tempo, una visita dal dottore e via, via dalle balle!
Marta smette di saltellare. Si rannuvola. Appare preoccupata. Anche i gemelli sembrano preoccupati. Si fanno piccoli piccoli, e si rifugiano in un angolo, cercando di non farsi notare. Non smettono però di lanciare occhiate astiose in direzione del Robot.
Marta se ne accorge e ha un gesto di dispetto. Poi scrolla le spalle e torna a porsi davanti il frammento di specchio. Riprende a pavoneggiarsi.
– Che noia questa casa, – commenta. – Proprio una pizza!
– Esci, allora, – propone il Robot.
– Mi accompagni?
– Ma certo!
– Allora subito, mi metto addosso qualcosa e andiamo. Anche tu però, mettiti addosso qualcosa. Non puoi mica uscire combinato come sei, sembreresti strano. Adopera uno dei vestiti di Mario.
Mario salta su dalla sedia.
– La mia roba non si tocca!
Allunga fulmineo un pugno. Il Robot lo blocca senza sforzo apparente; afferra il pugno teso e spinge. Spinge. Mario arretra. Il Robot continua a spingere e Mario ad arretrare. Lo blocca contro un muro.
Il Robot, comunque, sembra infastidito. O meglio, sembra contrariato. Non fa volentieri quello che sta facendo, anche se sa di doverlo fare. E questo è singolare, perché i Robot sono ligi, non si ribellano ai doveri; e neppure si contrariano, operano e basta. Sono così i Robot: non si innamorano e non si infastidiscono. Ma Matricola 12 è proprio particolare.
La pressione del Robot muta angolo d’incidenza. Mario scivola lungo il muro finché finisce a ridosso della sedia da cui si è appena alzato. Vi viene gettato sopra. La sedia si spacca.
– La riparerò al ritorno, – annuncia il Robot in tono neutro. Esce. Marta, sveltissima, dietro di lui.
Mario e i ragazzini restano soli. I gemelli aiutano il padre a liberarsi dai rottami della sedia.
– Ho un’idea, Pa’, – dice uno di loro.
Parla svelto, molto più svelto del solito.
Svelto, prima che Mario si inalberi definitivamente e cominci a menare.

* * * * *

Molto più tardi, quando Marta e il Robot rientrano, trovano le luci nell’ingresso accese. La porta è socchiusa. Marta si ferma un attimo sul pianerottolo e sbircia attraverso la fessura.
– Salve Marta, – la saluta da dentro il marito in tono oltraggioso. Ci sono cinque uomini, oltre Mario e i ragazzini, uomini la cui espressione melliflua dà parecchio sul ributtante. Quelle facce non promettono niente di buono. Neppure gli abiti grigi promettono bene, i doppiopetto, e le gambe accavallate.
Marta spalanca la porta e entra. I nuovi venuti si alzano di scatto e accennano a un inchino.
– Buonasera, – saluta compito quello in doppiopetto blu, il capo banda probabilmente.
Marta si sente stringere il cuore. Pone una mano con fare possessivo sul braccio dell’uomo di metallo, e:
– Che volete? Che fate qui? – chiede allarmata. – Mario, chi sono questi uomini?
– Sono venuti a portarselo via, – la informa Mario con voluta indifferenza. – Sembra che i suoi padroni si siano sbagliati nel mandarlo da noi…
– Si è trattato di un equivoco imperdonabile, Signora, – dice l’uomo in doppiopetto blu. – Un banale caso di omonimia. Ci siamo già scusati con suo marito per questo e, se permette, vorremmo farlo con lei.
– Vai a farti fottere, stronzo. Li conosco i tipi come te. Venderebbero pure la madre se trovassero qualcuno disposto a comprarla.
– Bada, – minaccia Mario. – Sono miei amici.
Sa bene che non lo sono. Quelli neppure si degnerebbero di salutarlo, ove capitasse loro di incontrarlo per strada. E se invece osasse salutarli lui, si affretterebbero a chiamare un poliziotto. Gli piace però presentarli come tali. In una qualche misura si fa grande della loro grandezza.
– Amici! – commenta Marta sprezzante. – Solo i quattrini sono tuoi amici!
Doppiopetto prende la palla al balzo.
– Abbiamo concordato un equo indennizzo, Signora…
Marta è nuovamente afferrata da una sensazione di panico. Per sfuggirla si aggrappa al Robot, e gli chiede aiuto.
– Cosa sta dicendo quest’uomo? Tu lo capisci?
Il Robot non risponde. Non ha risposte da dare, non ne esistono. Risponde Mario per lui.
– Sta dicendo che già da stasera non avremo più il tuo damerino qui intorno a romperci le palle.
L’uomo in doppiopetto sussulta. Si schiarisce la gola imbarazzato. Non è abituato al linguaggio crudo. Lui le cose spiacevoli le fa senza dirle, e fingendo di non averle fatte, nonché di non saperle fare. Sentirsi sbattere la verità in faccia lo mette in una certa difficoltà.
– Mi sembra di capire, – dice schiarendosi la gola, – che il nostro articolo si sia fissato su di lei…
– Questa donna ha bisogna di me, – interviene il Robot, che come tutti gli esseri elementari, e gli innocenti, ama, come i pulcini, le oche e i cuccioli in genere, il primo essere in cui si imbatte all’inizio della vita. – E ora anche io di lei…
– Non ti preoccupare Matricola 12, ristruttureremo la tua impronta psichica. La dimenticherai completamente.
– Non mi preoccupo di me, ma di LEI. Fa parte della mia programmazione di base avere a cuore il benessere delle persone a cui sono stato affidato.
– Non sei stato affidato a questa donna, Matricola 12. C’è stato un errore, capisci?
Matricola 12 capisce, ma se ne infischia. Anche i Robot conoscono limiti oltre il quale non si sentono di andare. Anche per loro la misura a volte si colma. Cosicché, capita, iniziano a dare i numeri e a combinarne di cotte e di crude. Cominciano a guastarsi, a dare fuori con la testa, e a ribellarsi. Proprio come gli uomini. I Robot non sono altro che l’immagine naïf dell’umanità. E più li migliorano, peggio è.
– Insomma, Matricola 12, non vorrai darci filo da torcere, spero! Su, da bravo, non ci costringere a ripulire le tue memorie.
Marta ha una risatina nervosa. Ha compreso solo una parte di quel che è stato detto, le è chiaro però che glielo vogliono portare via. Che glielo vogliono rubare, CHE E’ IN PERICOLO!
– Cosa vogliono farti? – chiede con voce tremante.
Silenzio. Un silenzio pesante, minaccioso. Un silenzio cattivo, che incombe su Marta come una promessa di morte. Tre/quattro secondi, non più. Ma sono sufficienti ad annientare la donna.
Il Robot si schiarisce la voce. Se è nelle facoltà delle macchine provare disperazione, lui la prova. Non per altro. Aprendo gli occhi si è fissato su Marta e ora vorrebbe seguirla dappertutto. Ma sa di non potere, e in quell’impotenza conosce la prima sensazione di dolore.
– Devo andare via, Marta, – afferma in tono neutro.
Non serve a calmare Marta. Serve anzi ad acuire il suo spavento.
– Non puoi andare via, non puoi! Me l’avevi promesso!
Nonostante il trucco non è più bella. Né conserva consapevolezza della possibilità di essere bella. Conosce solo la forza di quegli uomini, più forti della sua bellezza, e di qualunque sentimento. E questo è tutto, tutto quel che conta.
– Devo, Marta. NON POSSO OPPORMI.
– L’avevi promesso! L’avevi promesso!
– Ascolta, Marta. Non hai veramente bisogno di me, lo credi soltanto. Puoi fare benissimo senza. Basterà che ricordi le cose che ti ho detto. Che tu faccia attenzione a te stessa. E che ti dia un’occhiatina, di tanto in tanto, nello specchio. Vedrai che ti andrà bene ugualmente.
Va al sodo, matricola 12. In questo è in perfetta sintonia con i propri simili: concreto, essenziale. Parte avvantaggiato rispetto al resto dell’umanità. Come l’uomo è partito dall’animale per costruire l’umano, Matricola 12 parte dall’inanimato per costruire il superumano. Il razionale. Per cui all’ultimo, piuttosto che baci ed abbracci, e spiegazioni, e rimbrotti, rimpianti lacrime e lamenti, offre consigli (Gesù! per quello che valgono!); USA AL MEGLIO IL TEMPO DISPONIBILE. E’ poco, ma non ha altro. Non ha, in particolare, quello di cui Marta ha bisogno. E cioè qualcuno che si occupi di lei, che l’aiuti, che la tratti come essere umano, e le impedisca di continuare a giocare con la sua propria follia.
– Tutto quello che hai realizzato oggi, puoi rifarlo ancora: è sufficiente che tu lo voglia.
Forse ha ragione, Marta può. Ma Marta non è più lì ad ascoltarlo. Incalzata da innumerevoli fantasmi, è tornata ad isolarsi dal mondo. Sembra di nuovo spettinata. Un rictus le deforma la bocca.
Succede. Quello che costruisci in un’ora, si dissolve in un minuto. Soprattutto quando la fatina buona manca l’appuntamento con il lieto fine; quando scopri che il sostegno su cui contavi, non ha nulla che lo sostenga a sua volta; che egli condivide la tua medesima debolezza, e fors’anche la medesima viltà.
– Bastardo! – inveisce. – Imbroglione! Lo sapevo che eri un frocio violentatore. Un assassino, un porco! L’ho sempre saputo, sempre! Sempre sempre!
Marta non ha più nulla della Signora, della gran donna.
Gli uomini si alzano. Anche i ragazzini si alzano.
– Non verrò con voi, – li blocca il Robot.
Stando le cose come stanno è obbligato a rifiutarsi. Non può dire, né fare altro. Anche i Robot hanno una dignità da salvare, e forse anche un cuore.
Deve averlo, un cuore, per pronunciare un’assurdità simile. Poiché è vero che non può andare, e lasciare incompiuta la sua opera; ma è più vero ancora che NON può restare e sottrarsi a chi lo ha fabbricato.
Comunque, che possa o meno, dice di no. E prova soddisfazione nel dirlo, si sente rappacificato. Vale la pena, una volta tanto, dire NO a brutto muso!
Loro però dei suoi NO se ne infischiano. Sono i più forti e lo sanno. Mettono in evidenza un aggeggio elettronico e glielo puntano contro. Dall’aggeggio esce una luce che avvolge l’intera sagoma del Robot. Il Robot si immobilizza. Anche Mario e figli si immobilizzano. Marta stessa smette di vaneggiare.
Del fumo esce dalla testa di Matricola 12.
Ma non è più Matricola 12, è un’altra cosa. E’ un involucro in cui fra poco immetteranno un altro nome, un’altra volontà, un essere differente. Proprio uguale a quello che accade agli uomini, tale e quale. Gli uomini vengono svuotati e riempiti a piacere. Vengono imprigionati, torturati, annichiliti. Ferri roventi, elettrodi, psicofarmaci, allucinogeni, prescrizioni, ordini, disciplina, raggiri, insulti e terrori. Di tutto. Tutto il peggio offerto con abbondanza e a prezzi stracciati.
Brutti tempi, i nostri, per chi ha testa, cuore e fegato; brutti anche per chi ha memorie di massa, programmi e microprocessori (è sempre impressionante constatare quanto siano simili uomini e Robot).
Matricola 12 se ne sta immobile, normalizzato.
Viene afferrato, sollevato e portato fuori. Mario inizia a contare un fascio di biglietti di banca che è rimasto sul tavolo. Sorride felice.
– Ci deve uscire il motorino per noi, – gli ricordano i gemelli, in tono avido.
Marta afferra uno di loro per i capelli e inizia a suonargliele.
– Piccolo Giuda! – urla. – Ti faccio vedere io!
– Pa’, o Pa’! – grida il piccolo invocando soccorso.
– Lascialo stare! – ordina Mario.
Marta non lo sta a sentire. Sgrulla il piccolo e lo chiama brutto figlio di puttana!. Mario posa il fascio di biglietti e sferra un pugno alla moglie. Marta è proiettata contro il muro. Sbatte la testa e resta appiattita contro la parete, immobile e frastornata. Lentamente scivola in terra.
Resta lì con le gambe stese e la schiena ancorata alla parete. Impiega un certo tempo a riprendersi.
Quando riapre gli occhi, tutto è tornato alla normalità. Il silenzio. Lo squallore. Il disordine incipiente. Loro di là che dormono. Tutto è come sempre, come deve essere.
Il pavimento è freddo, le natiche protestano. Chiude gli occhi. Li riapre. E’ sempre lì, nella sua prigione.
Dalla stanza da letto giunge il ronfare pesante di Mario. Un ronfare massiccio, uguale ai suoi pugni, uguale al muro, al freddo pavimento, corroso e indifferente.
– Pazza! Sono pazza! Pazza pazza pazza!
E’ quello che pensano di lei. Soprattutto quando i capelli le diventano dritti e gli occhi si tingono di rosso. Allora hanno persino paura di guardarla, anche Mario, tutti la temono.
Non per questo smettono di tormentarla. Ma insomma, cosa vogliono da lei? Cosa si aspettano? Che guardi in uno specchio? Cosa c’è da guardare in uno specchio? Vecchie ciabatte che nessuno più desidera? di cui non si tiene alcun conto? a cui nessuno chiede nulla, salvo che di recitare una certa parte?
– Bastardi!
– Bastardi! – esclama a voce alta.
IL russare si interrompe. Silenzio. Marta tace. Il russare riprende.
La donna è sempre in terra. Non trova motivo per alzarsi, forse teme di non averne le forze. D’altra parte sarebbe inutile, tutto intorno è duro e freddo e ostile, un posto vale l’altro.
Il freddo aumenta. Il freddo dell’alba che si approssima.
– Vostra madre è una gran donna, UNA SIGNORA…
Ha una risata isterica. Di là smettono di russare. Mossa da un indefinibile senso di prudenza si azzittisce. Vuol bene al silenzio. IL silenzio è suo amico. Culla bene i suoi aguzzini, li tiene immobili, incapaci di far del male. Bisogna che il silenzio continui, affinché continui la pace.
Marta si alza. Va in bagno a liberare la vescica. E’ cupa e lieta nello stesso tempo.
C’è un flacone di alcool nello stipetto. Con l’alcool in mano torna di là. Passa davanti a un frammento di specchio, ma non si degna di un’occhiata. Ha ragione di non guardarsi. Vedrebbe un volto a pezzi, tumefatto dai colpi del destino, dalle mani dell’uomo. Perciò, evita di guardare.
Inumidisce i letti con l’alcool.
C’è del cherosene nella stufa. La vuota. Sparge il combustibile in terra, sui mobili, tutt’intorno. Prende ciò che resta degli elenchi telefonici e ne fa tante pallottole. Accende i fornelli della macchina del gas. IL fuoco sospira, sembra vento che fischia, natura che geme. Fruscia carezzevole. Pallottole di carta infuocate volano intorno.
Marta improvvisamente esplode in una delle sue feroci risate. Sa ridere bene quando vuole. La risata monopolizza la serenità estesa della notte.
Non dura molto però la sua risata.
Dopo qualche istante è sovrastata e interrotta da un coro discorde di urla di dolore.

Mauro Antonio Miglieruolo

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

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